L’Italia e lo stato palestinese
Riceviamo e condividendo pubblichiamo
Il mancato riconoscimento ufficiale dello stato palestinese da parte dell’Italia non fa che protrarre la condizione di ingiustizia e di inumanità in cui i palestinesi si trovano dal 1948. Un’Italia coerente con la propria natura di paese mediterraneo avrebbe riconosciuto la Palestina ben prima del 7 ottobre del 2023 e ben prima che altri paesi membri della NATO lo facessero in questi giorni. Occorre dirlo chiaramente: decenni di promesse e di buoni propositi hanno contribuito a determinare quanto oggi avviene a Gaza ed in Cisgiordania.
Della necessità di uno stato palestinese parla ormai, forse non senza una certa strumentalità, anche una parte dell’opposizione israeliana. Piaccia o non piaccia tutte le fazioni palestinesi parteciperanno alla costruzione del loro stato, giocando un ruolo proporzionale alla loro reale forza: se questo processo verrà ostacolato – dall’interno o dall’esterno – lo stato palestinese nascerà menomato e a farne le spese saranno ancora una volta i palestinesi.
Chi solleva obiezioni sulla legittimità di questa o quella componente dovrebbe ricordare come l’ascesa del radicalismo religioso tra le fazioni palestinesi sia stata favorita, oltre che dalla congiuntura internazionale post-1991, dalla stessa dirigenza israeliana. Un problema che non può certo costituire un alibi. La questione palestinese offre oltretutto lo stimolo per riformare l’ONU ed i meccanismi istituzionali che lo costituiscono – inclusi quelli del Consiglio di Sicurezza: quella di una riforma volta a rendere l’architettura dell’ONU più efficace e più rappresentativa degli equilibri geopolitici del nostro tempo è una necessità irrimandabile, come rilevato recentemente anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
L’attuale fase della guerra potrà chiudersi soltanto con la creazione di uno stato palestinese: ciò non significa, come è ovvio, che la fondazione di uno stato parallelo a quello israeliano risolverà in quanto tale tutti i problemi con cui i palestinesi fanno i conti dal 1948, ma segnerà certamente un passaggio epocale per tutto il Mediterraneo ed il Vicino Oriente, così come per gli equilibri geopolitici generali del nostro mondo.
Maurizio Vezzosi
Analista e reporter freelance.
Collabora con RSI Televisione Svizzera, LA7, Rete4, L’Espresso, Limes,
l’Atlante geopolitico di Treccani, il centro studi Quadrante Futuro, La
Fionda ed altre testate. Ha raccontato il conflitto ucraino dai
territori insorti contro il governo di Kiev documentando la situazione
sulla linea del fronte. Nel 2016 ha documentato le ripercussioni della
crisi siriana sui fragili equilibri del Libano. Si occupa della
radicalizzazione islamica nello spazio postsovietico, in particolare nel
Caucaso settentrionale, in Uzbekistan e in Kirghizistan. Nel quadro
della transizione politica che interessa la Bielorussia, nel 2021 ha
seguito da Minsk i lavori dell’Assemblea Nazionale. Tra la primavera e
l’estate del 2021 ha documentato il contesto armeno post-bellico,
seguendo da Erevan gli sviluppi pre e post elettorali. Nel 2022, dopo
aver seguito dalla Bielorussia il referendum costituzionale, le
trattative russo-ucraine, e sul campo l’assedio di Mariupol, ha
proseguito documentare la nuova fase del conflitto ucraino. Nel 2023 ha
continuato a documentare la situazione nelle aree di Lugansk, Donetsk,
Zaporozhe e Kherson sotto controllo russo. Durante l’estate si è recato
in Georgia approfondendo la situazione sociale e politica della
repubblica caucasica. A settembre ha partecipato al’AJB DOC Film
Festival (Al Jazeera Balkans) di Sarajevo e al festival Visioni dal
Mondo di Milano con il documentario “Primavera a Mariupol” (Spring in
Mariupol). È assegnista di ricerca presso l’Istituto di studi politici
“S. Pio V”.
23 maggio 2024
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