“Lo slogan contro i trafficanti di braccia è funzionale alla blindatura delle frontiere”.
Qual’è la situazione sul campo? Puoi farci un quadro dall’inizio dal mese di aprile per avere una idea del flusso degli arrivi di rifugiati?
Nel mese di aprile abbiamo assistito ad un aumento molto consistente degli arrivi, in parte perchè le cattive condizioni del mare avevano impedito le partenze nel mese di marzo, in parte per l’evolversi della guerra in Libia. Abbiamo avuto più di 3 mila persone che durante questo mese hanno raggiunto l’isola e poi, dopo un breve periodo sono state trasferite in Italia. La gestione del centro mi pare sia più morbida rispetto al passato, le persone possono uscire con una certa tolleranza, venire nel paese e chiamare a casa i propri cari per rassicurarli. Il clima è molto diverso da quello dell’emergenza del 2011 con il quale si era costruito il palcoscenico della frontiera per gridare all’invasione. Le contraddizioni non mancano ovviamente, qui c’è voglia di normalità e si pensa con ansia alla stagione turistica. Devo dire che vedo una certa tranquillità nell’affrontare questo fenomeno da parte degli isolani che in molte altre città italiane si trasforma invece in paura. Ovviamente questo non vuol dire che sia tutto rose e fiori, venti anni e più di giornalisti a caccia di senzazionalismo, politici in cerca di visibilità e conferenze stampa mordi e fuggi hanno reso i lampedusani ostili a questo grande teatro che descrive un’isola che non c’è. Per chi arriva dal mare il primo impatto con la logica della frontiera non è semplice, da un lato ci sono procedure di identificazione e processi che tendono ad oggettivizzare le persone come “numeri” dall’altro c’è la consapevolezza della fine di un incubo. Le storie che raccontano su cosa succede in Libia sono spaventose. Secondo me analizzare quello che avviene alla frontiera è utile per comprendere come la questione delle migrazioni in Italia sia completamente inserita all’interno del paradigma securitario emergenziale, un modello questo che non mi pare abbia funzionato molto e che si presta a speculazioni come abbiamo visto con Mafia Capitale. Sarebbe invece interessante costruire con le comunità locali processi di partecipazione e trasparenza che tendono a legare positivamente il tema dei bisogni sociali del territorio con quello delle migrazioni. Se dovessi fare un esempio concreto, a Lampedusa sarebbe molto più utile creare un “ospedale del Mediterraneo” in grado di accogliere i migranti ma anche di dare risposte agli isolani che devono spendere un sacco di soldi per curarsi o andare a nascere in Sicilia.
Come funziona la procedura? Una volta raccolti i profughi sopravvissuti alla traversata cosa succede?
Quando le persone arrivano al molo Favaloro vengono immediatamente trasferiti al centro di prima accoglienza con un bus. Nel centro di fatto si avviano le procedure per l’identificazione. Chi ha problemi di salute lievi viene curato nell’isola, se le sue condizioni sono più gravi viene trasferito. Il centro può ospitare circa 250 persone ma spesso ne deve ospitare il quadruplo, e la cosa che non va è che i minori non accompagnati condividono gli stessi spazi degli adulti. Fino ad ora ho visto che dopo alcuni giorni di permanenza le persone vengono trasferite con la nave di linea in Italia, e devo dire che la cosa sta funzionando senza particolari problemi.
Vista da qui abbiamo l’impressione che l’ultima strage di migranti nel Mediterraneo abbia avuto più clamore di altre, che sia stata gestita come “l’evento traumatico” per legittimare agli occhi dell’opinione pubblica soluzioni di forza in Libia. Cosa ne pensi?
Penso che non tutte le tragedie siano uguali, in questi mesi abbiamo avuto nel disinteresse generale un aumento impressionante dei morti in mare rispetto allo scorso anno. Alcune tragedie sono state utilizzate per sviluppare una retorica interventista mentre altre sono finite nel dimenticatoio. A febbraio c’è stata la tragedia in cui i migranti sono morti di freddo, e poi pochi giorni dopo è scoppiata l’emergenza Isis, le voci sui missili che sarebbero arrivati a Lampedusa ed i terroristi che arrivavano con i barconi. C’è chi ha drammatizzato la vicenda spesso diffondendo notizie false per sollecitare le paure dell’Europa ed anche in quel caso c’è stato chi ha parlato di intervento militare. Dopo quell’evento ci sono state altre tragedie consistenti ma non hanno generato nessuna indignazione collettiva. Poi ci sono stati i 900 morti, e oggi ci troviamo nello stesso meccanismo comunicativo di prima. La cosa che impressiona è che questi lutti non modificano in termini progressivi le politiche della frontiera europea, ma per paradosso contribuiscono ancora di più ad acuirne i suoi elementi autoritari. Come dice Cutitta c’è stata una vera e propria appropriazione da parte delle classi dirigenti europee del tema della morte per legittimare il sistema di controllo delle frontiere da essi creato e perfezionato. La lotta contro gli spietati trafficanti diventa così la parola d’ordine per giustificare il regime di frontiera.
Varie fonti ci segnalano un aumento della presenza militare sulla “frontiera” di Lampedusa? Puoi confermarlo o smentirlo?
Lampedusa è da sempre un’isola di confine e di confinati, militarizzata lo è da sempre proprio per la sua valenza strategica nel Mare Mediterraneo. Nell’isola cresce il timore dell’impatto delle tecnologie di rilevamento in rapporto alla salute della popolazione locale, tema questo che sta venendo fuori grazie al lavoro che alcune associazioni locali come Askavusa portano avanti. Proprio in questi giorni questa associazione ha organizzato una serie di appuntamenti al riguardo che si concluderanno con la manifestazione del primo maggio di pace.
Il governo italiano e l’Unione Europea si vanno orientando per una “soluzione d’urto” sulla questione degli arrivi. Ci sono altre soluzioni sul campo?
Diciamo una cosa, prima di ragionare sulle proposte da mettere in campo, penso che manchi un ragionamento politico sulla questione del Mediterraneo. Senza riflettere politicamente su come abbia impattato la globalizzazione economica in questo spazio negli ultimi 30 anni rischieremmo di cadere in un tecnicismo che sposta il centro del discorso. Ci troviamo di fronte ad un dato strutturale, crescita della popolazione e della disoccupazione nel continente africano che nonostante la crescita economica di alcuni paesi non viene riassorbita. A questo occorre aggiungere il nodo dei conflitti, della destabilizzazione e dei processi d’impoverimento che colpiscono le società africane e del Medio Oriente. Questo tema è del tutto politico, e mette sul banco degli imputati non solo l’occidente ma anche le petromonarchie saudite e istituti come Fmi, Bce, banca mondiale e le loro politiche di aggiustamento strutturale. Le migrazioni non sono forzate, perchè altrimenti dovremmo usare il termine “deportazione” però è evidente che il migrante oggi è costretto ad abbandonare il proprio paese, cosa che non fa di certo con il sorriso sulla bocca. Sono profughi ma al tempo stesso anche persone in cerca di lavoro, occorre pensare ad entrambi gli aspetti di questa nuova figura. Senza porre una discussione seria sullo sviluppo del Mediterraneo e sul ruolo nefasto che l’occidente ha svolto possiamo solo pensare, nel migliore dei casi, a fare riduzione dei danni. Rispetto alle proposte da mettere in campo nell’immediato penso che quella di aprire corridoi umanitari sia la più sensata e praticabile. Con il progetto Mediterranean Hope abbiamo pensato di coinvolgere le ambasciate per concedere visti di protezione umanitaria e istituire corridoi protetti per i profughi che poi arrivati nel paese sicuro possono presentare richiesta di asilo. E’ una piccola proposta che però ha almeno il merito di aprire una discussione concreta al di fuori degli slogan. Se tutti gli stati che hanno aderito alla carta dei diritti dell’uomo adottassero questa proposta accogliendo delle quote siginificative di profughi, toglieremmo agli scafisti la possibilità di lucrare sulla pelle dei migranti ed eviteremmo altre tragedie. La proposta di esternalizzare la frontiera, di fare campi o di bombardare i barconi invece mi sembrano sconsiderate. Il fatto che Ban Ki Moon abbia rispedito al mittente questo approccio segnala l’incapacità dei governi europei di discutere di un fenomeno epocale. A questo punto è meglio chiedere la riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, non per fare altre guerre, ma per creare un corridoio umanitario globale che assicuri protezione alle persone che oggi sono intrappolate in Libia.
Sergio Cararo
27/4/2015 www.contropiano.org
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