LO STATO DELL’ACQUA
Ormai lo sappiamo, l’acqua dolce è costantemente minacciata dall’uomo, dalle sue attività e dal suo stile di vita, spesso incompatibili con l’utilizzo sostenibile della risorsa più importante del Pianeta. La scarsità d’acqua, infatti, sta diventando endemica: secondo i nuovi dati dell’Aqueduct Water Risk Atlas del World Resources Institute (WRI), almeno il 50% della popolazione mondiale vive in condizioni di forte stress idrico per almeno un mese all’anno. Le prospettive non sono tra le migliori: a livello globale, dal 1960, la domanda di acqua è più che raddoppiata e, anche se è difficile stabilire con esattezza di quanto, si prevede che continuerà ad aumentare, forse addirittura superando l’offerta disponibile. La regione dove questo sta accadendo più velocemente è l’Africa subsahariana: da qui al 2050 è stato stimato un incremento del 163% (quattro volte superiore rispetto all’America Latina), che, se accompagnato da una gestione sostenibile ed efficiente dell’acqua, concorrerebbe alla crescita economica della regione. In caso contrario faciliterebbe una diminuzione del PIL, fino al -6%.
Come viene impiegata l’acqua
Il World Resources Institute ha individuato 25 Paesi attualmente esposti ad uno stress idrico estremamente elevato. Ciò significa che nazioni come Cipro, Libano, Cile, Qatar, Egitto, Libia, Tunisia, Grecia, India e Belgio impiegano oltre l’80% della loro disponibilità di acqua. Ce ne sono poi altre 22, tra cui Italia, Messico, Marocco, Spagna, Pakistan, Thailandia, Albania, Portogallo e Afghanistan, sottoposte ad una condizione di stress idrico elevato, che quindi consumano oltre il 40% delle loro risorse di acqua dolce.
Ma dove finisce l’acqua? Alla poca disponibilità che già di per sé caratterizza alcuni di questi Paesi, dietro alla scarsità d’acqua si celano: mancanza di infrastrutture adeguate, il cambiamento climatico, la crescita demografica e l’aumento dei consumi, soprattutto alimentari. Basti pensare che il 72% dei prelievi idrici mondiali è destinato all’agricoltura, dato che aumenta se consideriamo l’intero settore agroalimentare.
In Europa sono i Paesi mediterranei a destinare più acqua all’irrigazione agricola: in ordine, Spagna, Italia – con oltre il 40% dei prelievi nazionali, pari a 17 miliardi di metri cubi annui – e Grecia. Se da un lato le caratteristiche del suolo e le condizioni climatiche dell’area mediterranea richiedono un maggior impiego d’acqua, dall’altro il cambiamento climatico non risparmia affatto l’agricoltura dagli eventi estremi, dai quali nessuno dei tre Paesi è immune. Sono ancora ben impresse nella memoria le immagini delle alluvioni che nel 2023 hanno devastato diverse aree dell’Emilia-Romagna, causando gravi danni alle coltivazioni ortofrutticole; in Sicilia, nelle ultime settimane, a causa della siccità la regione ha dichiarato lo stato di crisi per l’acqua potabile in ben sei province; in Grecia, nell’arco di pochi mesi, si sono alternati devastanti incendi e forti piogge; in Spagna la situazione non va meglio: «la Catalogna è stata colpita dalla peggiore siccità da almeno cent’anni». Con queste parole il presidente Aragonès ha proclamato lo stato d’emergenza nella regione. I bacini idrici hanno raggiunto livelli critici, come dimostrano le immagini satellitari del bacino di Baells, e la siccità non risparmia nemmeno la nota meta Ibiza:
Restrizioni sull’uso dell’acqua sono state implementate anche sulla sponda sud del Mediterraneo, una delle aree maggiormente sottoposte a stress idrico di tutta la Terra. In Marocco, dove la siccità persiste ormai da anni, si registra un deficit di precipitazioni del 70% rispetto alla media e il tasso di riempimento delle dighe è passato dal 31,5% al 23,2% in un solo anno. Pertanto, il governo non solo ha vietato l’innaffiamento degli spazi verdi, l’uso dell’acqua per pulire le strade e ha imposto restrizioni nel settore agricolo; da quest’anno anche gli hammam – i tradizionali bagni pubblici- sono costretti a chiudere per tre giorni a settimana, nel tentativo di risparmiare acqua.
Anche la produzione di energia passa attraverso l’acqua. Oltre all’idroelettrico, se ne avvalgono i combustibili fossili, il nucleare e le coltivazioni destinate ai biocarburanti: parliamo di circa 370 miliardi di metri cubi all’anno, ovvero il 10% del totale dei prelievi di acqua dolce.
Energia e acqua, insieme, sono fondamentali nella produzione industriale dei prodotti di consumo, come l’abbigliamento. Dalla generazione dei tessuti all’indumento finale, l’industria della moda è una delle più idrovore al mondo, con un impiego stimato intorno ai 93 miliardi di metri cubi all’anno. Se per creare una maglia bianca servono 2700 litri d’acqua, per un paio di jeans ne occorrono tra i 7 e i 10 mila. Inoltre, soprattutto per quanto concerne il fast fashion (ne avevamo parlato qui: Fast fashion, l’inquinamento che fa tendenza), è anche uno dei settori più inquinanti: il 20% dell’inquinamento delle risorse idriche mondiali dipende dall’industria della moda. Ciò è dovuto essenzialmente ai prodotti chimici impiegati nella tintura e nel trattamento dei tessuti, ma non dimentichiamoci dei diserbanti e dei pesticidi adoperati nella coltivazione intensiva del cotone (che rappresenta il 90% delle fibre naturali lavorate) o dei rifiuti tessili. Questi molto spesso sono smaltiti in maniera inadeguata e il rischio è il rilascio di microplastiche, da parte dei tessuti sintetici che impiegano anni per decomporsi, o di sostanze chimiche nei terreni, che inquinano il suolo e le falde acquifere.
Soffermandoci sul nesso acqua-energia- attività umane e pensando a come il nostro modo di vivere è cambiato grazie ai dati, non possiamo non menzionare i data center: strutture fisiche sparse per il mondo che consentono di elaborare, conservare e organizzare i dati. Sebbene con un impatto nettamente inferiore rispetto ai settori citati, nel mondo esistono oltre 5000 data center che beneficiano dell’acqua in maniera indiretta, l’energia con cui funzionano, e diretta, per i sistemi di raffreddamento. Fornire cifre precise non è facile. Se da un lato le informazioni sui consumi sono scarse, dall’altro l’impatto idrico va posto in relazione a più fattori, come le dimensioni della struttura, le sue modalità di raffreddamento o le temperature esterne. Per questo, al fine di valutarne l’effettivo impatto, ciascun caso andrebbe analizzato a sé. Di certo c’è, però, che il bisogno di acqua da parte delle aziende leader è in crescita: Microsoft dal 2021 al 2022 ha registrato un +34% mentre Google un +20%. Incremento che parrebbe legato anche alla ricerca sull’intelligenza artificiale. Shaolei Ren, professore e ricercatore all’Università della California Riverside, ha provato a stimare l’impatto delle risposte fornite all’utente dal ChatGPT: 500 millilitri di acqua per ogni conversazione tra le 20 e le 50 domande e risposte.
L’accaparramento dell’acqua
In un pianeta dove solo il 2,5% dell’acqua è dolce e soltanto lo 0,3% è facilmente accessibile, ad accrescere la pressione sulle risorse idriche concorre anche la crescita demografica. Vent’anni fa sulla Terra la popolazione era poco oltre i 6 miliardi, oggi siamo circa 8 miliardi e probabilmente arriveremo a 9,7 miliardi nel 2050. All’aumento del numero di persone corrisponde una diminuzione delle risorse utili al sostentamento, accompagnata dall’intensificarsi della competizione per ottenerle. È facile intuire, quindi, come questo possa sviluppare comportamenti legati all’accaparramento.
Nel caso specifico dell’acqua, questo viene definito Water Grabbing e riguarda tutte quelle situazioni in cui degli attori – pubblici come gli enti governativi o privati come le aziende – sono in grado di prendere il controllo, o deviare a proprio vantaggio, risorse idriche preziose, sottraendole alle comunità locali o a intere nazioni.
L’accaparramento è un fenomeno globale, implicato in numerose attività, tra cui agricole, energetiche, minerarie e perfino finanziarie. Dietro ad esso si cela, spesso, l’opportunità di accedere alla risorse idriche per ricavarne prodotti da immettere sul mercato e poter così beneficiare di un ritorno economico. I casi, purtroppo, sono molti e il comune denominatore rimane la sottrazione delle risorse idriche alle comunità locali e lo squilibrio decisionale sull’utilizzo dell’acqua.
Esplicativo è quanto accade da anni in Cile, l’unico Paese al mondo in cui il diritto di proprietà privata dell’acqua è riconosciuto dal testo costituzionale. Qui, mentre la popolazione è costretta a trascorrere periodi senz’acqua, a causa della prolungata siccità, le grandi multinazionali e i fondi di investimento cercano di assicurarsi quel poco di acqua che rimane per alimentare l’industria agroalimentare e l’estrazione mineraria. Quando l’acqua non è concessa tramite permessi regolari, si sfruttano pozzi e canali illegali, come accade nella provincia di Petorca, dove gli abitanti dipendono dall’acqua trasportata dai camion e chi ne detiene il controllo la impiega nella monocoltura dell’avocado. Molte volte i piccoli allevatori e coltivatori locali non dispongono di una forza economica capace di competere con i grandi produttori e questo, a poco a poco, incide sulla stabilità alimentare del territorio.
Accanto alle monocolture produttrici di frutti destinati all’esportazione, parte dell’economia cilena si regge sull’estrazione mineraria: è il primo produttore al mondo di rame e il secondo di litio. Proprio quest’ultimo, presente in abbondanti quantità nel Salar de Atacama, sta privando di acqua la popolazione indigena locale.
All’accaparramento concorrono i processi di mercificazione, privatizzazione e finanziarizzazione dell’acqua. L’esempio lampante della trasformazione della risorsa pubblica in merce è l’acqua in bottiglia. Secondo uno studio dell’United Nations University, dal 2010 al 2020 il mercato dell’acqua in bottiglia – alle volte nasconde l’incapacità dei sistemi pubblici di fornire la popolazione di acqua potabile – è cresciuto del 73% e si prevede che le vendite raddoppieranno entro il 2030, raggiungendo i 500 miliardi di dollari, rispetto agli attuali 270 miliardi (circa 350 miliardi di litri). È importante sottolineare che anche questo può diventare water grabbing nel momento in cui le istituzioni danno priorità agli interessi commerciali privati e quindi concedono alle aziende imbottigliatrici un accesso quasi indiscriminato all’acqua, spesso con costi molto bassi rispetto a quelli sostenuti dai cittadini per avere acqua pulita e che, oltre al costo maggiore da sostenere, sono i primi a doversi confrontare con eventuali carenze.
In ogni caso, commercializzare e privatizzare le risorse idriche (anche indirettamente tramite i diritti di concessione e sfruttamento) significa ostacolare l’accesso a chi non può permettersi i prezzi del mercato, vanificando altresì molti degli sforzi introdotti per attenuare la crisi idrica globale. Impossessarsi dell’acqua implica, quindi, la possibilità di decidere sulla stabilità economica e sociale delle comunità locali o di Paesi interi, nonché, nei casi peggiori, diventare un motivo per alimentare i conflitti.
Il diritto all’acqua
L’accaparramento dell’acqua costituisce uno dei processi più diffusi di violazione dei diritti umani e sociali. Il diritto all’acqua è sancito esplicitamente nel 2010, quando l’Assemblea generale dell’ONU ha approvato una risoluzione che riconosce il diritto all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari come essenziali per l’uomo e alla sua qualità della vita. Eppure, ancora oggi nel mondo almeno 2 miliardi di persone, ovvero il 26% della popolazione, non dispone di acqua potabile sicura ed è costretta ad affidarsi a fonti contaminate, con tutti i rischi che ne conseguono per la salute. Anche per questo è importante predisporre infrastrutture adeguate e investire, laddove già esistono, nel loro mantenimento. In Italia, secondo l’Eurispes, nel 2020 le perdite idriche sono state pari al 42,2% del volume totale di acqua immessa, pari a 3,4 miliardi di metri cubi ogni anno.
In altre parole, mentre nel mondo c’è chi non riesce ad arrivare al minimo necessario per il soddisfacimento delle esigenze primarie (stimato dalle Nazioni Unite tra i 50 e i 100 litri al giorno per persona, che diventano almeno 15 in caso di emergenza), il nostro Paese getta 157 litri al giorno pro capite.
Silvia Contin
21/3/2024 https://www.lenius.it/
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