LavoroeSalute dialoga con Fausto Bertinotti

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Questa intervista a Fausto Bertinotti è nata da una riflessione all’interno della redazione di Lavoro e Salute. Spesso ci capita di trattare e approfondire una quantità di temi legati a questa o quella contingenza politica, a questo o quel problema sanitario o sociale. Abbiamo invece sentito, in questo caso, l’esigenza di uno scarto, di un passo di lato che offrisse spunti per una visione critica più ampia, non necessariamente legata a una attualità specifica.
Sappiamo bene quali sono i limiti di un’intervista, ma, allo stesso tempo pensiamo che possa essere preziosa nelle indicazioni, nelle sollecitazioni che sa produrre.
Il procedere delle domande segue uno schema classico dal generale, dal globale, sino al particolare più “domestico”: l’eredità della stagione dei Social Forum, la nuova morfologia del capitale e del capitalismo, la crisi del progetto europeo, il nodo teorico-pratico della riduzione dell’orario di lavoro, la crisi della sinistra nel nostro Paese.
Si vedrà un paesaggio certo accidentato, dove molto spesso le rovine sono endemiche. Si vedrà poi la necessità di attraversarle sino in fondo, di fare
i conti con esse in maniera intelligente, cioè senza sconti, con rinnovato spirito indagatore e critico.
Non sfuggirà infine lo spirito non rassegnato che contraddistingue ogni risposta. Vive lì, io credo almeno, quella volontà fortiniana di fare “un buon uso delle macerie”. Poiché se “la storia è andata così”, occorre “mutare il ribrezzo in lucidità, la speranza in certezza. E in impazienza”.
A. D.

Alberto Deambrogio: Quest’anno cade il ventesimo anniversario del primo Forum di Porto Alegre. Dopo i primi anni esaltanti, fino al 2003, è iniziato un lento declino, per diverse ragioni, non ultimo il venir meno della solidarietà tra diverse anime che componevano lo stesso Forum Sociale Mondiale. Che giudizio dai, oggi, di quell’esperienza? Secondo te, ci sono ancora ragioni vive e vitali che possono essere analizzate e utilizzate oggi?

Fausto Bertinotti: Io penso che il movimento altromondista sia stato l’ultimo grande movimento del Novecento e il primo movimento del XXI secolo, cioè un movimento a cavallo di due secoli e a cavallo di due storie, quella del movimento operaio del Novecento, che nasce dall’Ottobre, e quella dei nuovi movimenti che si affacciano di fronte a una rivoluzione capitalistica restauratrice. Quel movimento riuscì a interpretare sul piano internazionale quel passaggio, dando forza e voce alla critica alla globalizzazione capitalistica non del tutto capita anche da forze politiche provenienti dalla sinistra, che invece il movimento altromondista individuò in tutta la sua pericolosità regressiva dal punto di vista della società. Quella fu davvero una grandissima storia, entro cui si sono costruite esperienze straordinarie. Oggi, quel passaggio è tramontato: siamo nel tempo del capitalismo finanziario globale, della vittoria del capitale sul lavoro – e non solo sul lavoro, ma sulle persone e sull’ambiente: si tratta, quindi, di ricominciare, di aprire un nuovo capitolo.

A.D. : Nella lunga crisi economico-finanziaria, in quella ecologica e, ora, dentro la pandemia, capitale e capitalismo si stanno ridislocando e riorganizzando sotto i nostri occhi. A che punto sta, secondo te, l’aggiornamento della sua analisi critica? Quali sono le piste promettenti da indagare di più, magari guardando dove altri non guardano, secondo la lezione di Panzieri?

F.B. : Io penso che il carattere di questa rivoluzione capitalistica restauratrice abbia portato a un nuovo capitalismo, che è stato chiamato “capitalismo finanziario globale”. Questo capitalismo poggia su due gambe: una è quella che giustamente Luciano Gallino chiamò “il rovesciamento del conflitto di classe”; l’altra, che si innesta sul rovesciamento del conflitto di classe, è quella della costruzione di un nuovo ordine capitalistico. In questa condizione di “ordine nuovo capitalistico”, fondato sulla sconfitta del movimento operaio e sulla rivoluzione tecnologico-scientifica che porta il segno dominante del capitale, questo capitalismo non è più in grado di operare una redistribuzione della ricchezza, come le lotte operaie avevano posto nel Novecento, anche sulla base delle istanze uscite vittoriose dalla Rivoluzione, ed è incompatibile con la democrazia. Quello che progressivamente si sta rivelando su questo nuovo capitalismo è che da un lato è produttore di diseguaglianze crescenti, che determinano una vera e propria crisi di civiltà; dall’altro, anche per questa ragione, è incompatibile con la democrazia. Perciò, io penso che le piste che vanno cercate in risposta a questa dominazione, risiedano principalmente in quelle che possono essere chiamate “rivolte”. Naturalmente, bisogna indagare sul senso profondo e sulla definizione stessa di rivolta, a partire dal conflitto di lavoro.

A.D. : Passiamo all’Europa. Il dibattito sull’Europa è spesso limitato alla contrapposizione tra europeismo e sovranismo. La scelta del metodo federale, socialmente orientato, per creare un vero spazio pubblico democratico europeo, opposto a un generico europeismo, incapace di dare risposte adeguate ai problemi di questo tempo, ha secondo te ancora degli spazi di realizzazione?

F.B. : Credo poco che li possa avere a livello politico-istituzionale. Credo piuttosto che bisognerebbe vedere se i fili d’erba che crescono contro l’ordinamento dell’Europa reale sono in grado di proporsi anche come processo costituente di un’Europa democratica, sociale, capace di riconoscere i bisogni delle persone, di nuove civiltà. L’Europa reale è una costruzione che ha assunto un carattere tecnico oligopolistico, dentro cui ci può stare anche un cambiamento: il passaggio, per esempio, dalla politica drammatica dell’austerità a una politica di espansione come quella con cui le classi dirigenti europee hanno risposto al rischio di una recessione devastante, prodotta a ridosso del Covid. Ci possono dunque essere molte interpretazioni possibili, tranne una: quella di una grande riforma sociale democratica.

A.D. : Veniamo ora al difficile lavoro di rifondazione di una cultura e di una pratica critiche: recentemente, ancora una volta, Giovanni Mazzetti ha sostenuto che, come già avevano previsto Marx e Keynes, il rapporto di lavoro salariato, almeno nei Paesi sviluppati, è ormai al termine, ed è sempre più difficile riprodurlo. La presa d’atto di questa dinamica in corso dovrebbe portare a una proposta politica di redistribuzione del lavoro a parità di salario. Una proposta, però, che non deve essere “affogata tra mille altri obiettivi salvifici”, dice Mazzetti. Tu che cosa ne pensi?

F.B. : Io sono stato fin dall’inizio tra i sostenitori del tema della redistribuzione del lavoro, fin dalle origini, accompagnando quello che poi era diventato uno slogan della F.I.M. – tratto da tante esperienze di movimento – “Lavorare meno per lavorare tutti”. Ancora si dice, seppure erroneamente, che abbiamo fatto cadere il governo Prodi perché non fece la legge sulla riduzione dell’orario di lavoro. Il tema della riduzione dell’orario di lavoro è secondo me un tema indispensabile. Prima di tutto, però, penso che la nuova composizione sociale del lavoro vada indagata. Ci si sta esercitando anche da molte parti politiche, attraverso il lavoro d’inchiesta, il lavoro d’inchiesta partecipata, attraverso la rilettura dei conflitti, sia nelle aree di lavoro tradizionali (manifatturiero, industriale), sia nelle nuove aree della logistica e della diffusione del precariato. Quest’ultimo non è semplicemente una forma di annichilimento dei diritti dei lavoratori, ma una parte della definizione, da parte del capitale, del mondo del lavoro. E poi, ancora, penso alle riflessioni sul lavoro di cura e anche alle nuove forme, a volte recenti, di critica nelle esperienze di autogoverno, di autogestione e di lotta: tutto questo dà luogo a una molteplicità delle esperienze che secondo me non consentono di essere affrontate da un unico versante.

Io credo all’indispensabilità della riduzione dell’orario di lavoro, ma nessuno riuscirà a convincermi che non sia necessario un reddito universale di cittadinanza, di fronte al fatto che noi facciamo tantissimi lavori non riconosciuti e non retribuiti, e che è tempo di rivendicarli, sia nel riconoscimento, che nella remunerazione.

A.D. : Oggi, nel nostro Paese, manca una soggettività di sinistra che sia dotata di un’identità ma che non sia identitaria, autonoma ma non settaria, in grado di elaborare discorsi, pratiche, forme organizzative, orientata a raggiungere la maggioranza della società. Quali sono, secondo te, alcuni orientamenti di massima per ricominciare un percorso di costruzione, in grado innanzi tutto di non ripetere gli errori degli ultimi anni?

F.B. : Intanto, io penso che si debba partire da un punto duro da riconoscere: che bisogna ricominciare daccapo. Noi siamo cioè di fronte alla vittoria del nuovo capitalismo, che poggia sul fallimento delle società post-rivoluzionarie, nate dalla grande rivoluzione dell’Ottobre che ha segnato l’intero secolo, e sulla sconfitta del movimento operaio in Occidente, nel passaggio tra fine secolo e l’avvento del nuovo millennio. Questi due elementi hanno costituito la base materiale della costruzione del nuovo capitalismo e, dunque, una soggettività critica deve partire, io credo, da questo punto drammatico di consapevolezza: la necessità di ricominciare daccapo. Ricominciare daccapo non significa non avere memoria storica: come diceva Walter Benjamin, ci vuole il “balzo di tigre”: se sei capace di proporti il problema dell’attualità dei “vinti giusti”, cioè del cambiamento radicale della società capitalistica, del superamento del capitalismo, allora potrai riacchiappare i fili della storia che hai alle spalle. Ma è questa l’operazione che oggi hai di fronte, su due terreni – su mille terreni, ma su due principalmente. Il primo è la ripresa di un punto di vista radicalmente critico nei confronti del capitalismo, non di questo o di quell’aspetto, non di una forza politica piuttosto che un’altra (osservazioni che si possono ritenere forse necessarie, ma del tutto secondarie): il primato della critica al capitalismo del nostro tempo deve, secondo me, costituire il punto di riflessione teorico-pratica per riaprire una prospettiva di senso che abbia nel cambiamento, nella trasformazione radicale della società capitalistica il suo obiettivo. Tale prospettiva è tanto più motivata da quello che succede: non solo dallo sfruttamento e dalla spoliazione, ma dal dominio sulla persona, dalla devastazione della connessione vitale tra l’uomo e l’ambiente. Una critica radicale e organica al capitalismo mi sembra dunque un punto di lavoro fondamentale; l’altro è quello del “basso”. Lo stare nei movimenti, la lettura pratica dei movimenti, con la vecchia formula che nasceva nei dintorni dei Quaderni Rossi, con l’inchiesta partecipata, che è secondo me un tratto di quel “balzo di tigre” di cui parlavamo. Deve essere chiara cioè l’idea che il processo di contestazione e di liberazione si fa con i protagonisti di quella vicenda, con coloro che vivono direttamente le condizioni di alienazione e di sfruttamento, sapendo che queste condizioni, oggi, non si propongono con un soggetto unico, centrale come quello della nostra storia – che ha fatto anche grande la nostra storia – ma dentro una pluralità di condizioni. Io vedo degli annunci – perciò parlo delle lotte – perché lì vedo degli annunci di possibili contestazioni, connessioni, ricerche. L’esperienza, per esempio, che, secondo me non a caso, si sta sviluppando negli Stati Uniti d’America, dei movimenti che hanno posto in connessione le questioni dei diritti dei neri con quelli delle donne, con la classe operaia della “cortina di ruggine”, che viene anch’essa recuperata nella costruzione virtuosa dei movimenti, dà luogo alla possibilità che riemergano per la prima volta, dopo tanto tempo, anche nella politica, termini come “socialista” e “socialismo”, cosa che invece non accade in Europa.

Alberto Deambrogio

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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