LO STRESS E L’IMPORTANZA DEL LAVORO: MOBBING, BOSSING E STRAINING

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Un intervento si sofferma sullo stress e in particolare sul mobbing sottolineando l’importanza del lavoro e le frustrazioni e la sofferenza che può causare. Mobbing orizzontale e verticale, bossing, straining e sindrome di adattamento.

Non sempre è facile comprendere l’importanza che il lavoro può assumere per una persona. Per molte persone il lavoro è il più significativo ambito di realizzazione e spesso il tipo di lavoro svolto incide moltissimo nel definire chi siamo, e quindi risulta strettamente connesso ai nostri sentimenti e senso di identità che assumiamo anche verso gli altri.

E ricordando che le persone spesso investono la maggior parte delle proprie energie e risorse personali proprio sul lavoro si può sottolineare quanto segnalato dalla Cassazione: “il lavoro non è solo un mezzo di guadagno, ma costituisce un mezzo prevalentemente di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino” (Sentenza Cassazione n. 8835 del 13 agosto 1991).

Partendo da questi dati è inevitabile che l’attività lavorativa mobiliti nel soggetto molte reazioni emotive e che condizioni negative lavorative, eccessivamente stressanti o avversative, suscitano frustrazione, delusione e sofferenza.

A fare queste affermazioni e a ricordarci l’importanza del lavoro per ciascuno di noi, è un intervento al Convegno “La prevenzione dei rischi da stress lavoro-correlato. Profili normativi e metodiche di valutazione” (8 novembre 2013, Università degli studi di Urbino).

Segnaliamo che gli atti del Convegno sono stati pubblicati, a cura di Luciano Angelini tra i “Working Papers” di Olympus con il titolo “La prevenzione dei rischi da stress lavoro-correlato. Profili normativi e metodiche di valutazione”.

In “Stress e mobbing: aspetti teorici e metodologici sulla valutazione” (intervento a cura di Monia Vagni) si sottolinea dunque che il lavoro forse è il più significativo ambito di realizzazione personale e relazionale. Ed è palese quanta affettività esso mobiliti e, in negativo, quali e quante frustrazioni e sofferenze possa causare. Proprio a queste ultime si riferisce il termine mobbing, dal verbo inglese to mob, che significa attaccare, assalire.

Il fenomeno del mobbing può essere definito come l’attuazione, all’interno di un ambiente lavorativo, di condotte intese a emarginare, discriminare, screditare e perseguitare un dipendente. E alcuni autori (Fornari) definiscono il mobbing come l’aggressione sistematica e continuativa che viene attuata contro un lavoratore con diverse modalità e gradualità e con chiari intenti discriminatori dal datore di lavoro o da un suo preposto o da un superiore gerarchico oppure dai suoi colleghi. L’attività discriminatoria del mobbing è infatti protesa a emarginare e/o estromettere il lavoratore dal proprio ambiente di lavoro, allo scopo di arrecargli un danno psicofisico, morale ed economico.

E quando il mobber è l’azienda stessa, con una strategia persecutoria che assume i contorni di una vera e propria strategia aziendale di riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure di semplice eliminazione di una persona indesiderata, siamo di fronte a quello che viene chiamato “bossing”: una vera e propria politica di mobbing, compiuta dai quadri o dai dirigenti dell’azienda con lo scopo preciso di indurre il dipendente divenuto “scomodo” alle dimissioni, al riparo da qualsiasi problema di tipo sindacale.

Rimandando a una lettura integrale degli atti relativi all’intervento di Monia Vagni, ricordiamo che generalmente si possono individuare due forme di mobbing:

–         mobbing verticale: dal grado gerarchico più alto a quello inferiore; oltre il 50% dei casi di mobbing è di tipo verticale; di norma implica la prevaricazione dal più forte al più debole; strategia aziendale pianificata per forzare un dipendente alle dimissioni; terrorismo psicologico;

–         mobbing orizzontale: attuato tra pari grado; riscontrabile in circa il 40% dei casi; dinamiche intragruppo caratterizzate da rivalità.

Tuttavia gli studi relativi allo stress lavorativo individuano anche altre forme di disagio, che si pongono a cavallo tra le più comuni situazioni di stress occupazionali e il mobbing, e che vengono definite “straining”.

In particolare con il termine “straining” si intende una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione, che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre a essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. Si tratta di una condizione di stress forzato, cioè superiore a quello connesso alla natura del lavoro e diretto nei confronti di una vittima o di un gruppo di vittime. Un esempio di straining è rappresentato dal demansionamento [legittimato da uno dei Decreti attuativi del Job Acts del governo Renzi, NDR], o da tutte quelle situazioni che implicano un forzato stato di isolamento. Tuttavia una tale condizione lavorativa non rientra nel mobbing, poiché le azioni ostili subite dalla vittima non sono oggettivamente sistematiche, ripetute e frequenti.

L’intervento cerca poi di sfatare alcune credenze o miti per meglio comprendere il fenomeno del mobbing e le sue conseguenze psichiche:

–         i soggetti più colpiti sono sopra ai 55 anni, ritenuti spesso meno remunerativi per l’azienda, che quindi preme per il loro prepensionamento; sono anche quelli più vulnerabili perché hanno affettivamente investito di più, con meno opportunità di trovare un analogo impiego e quindi sono quelli che possono presentare conseguenze psichiche più gravi;

–         i quadri dirigenziali risultano più colpiti;

–         altresì vero il mobbing si verifica nei posti di “minor prestigio”, dove prevalgono alcuni aspetti culturali e il minor potere posseduto dai dipendenti limitano la loro capacità di opporsi;

–         il mobbizzato non è però sempre una personalità debole: a volte i mobbizzati sono coloro che sono più restii a piegarsi ad alcune politiche aziendali, e per certi aspetti risultano più combattivi o sicuri delle proprie competenze.

Riguardo agli aspetti clinici, metodologici e diagnostici del mobbing, l’autrice segnala che il mobbing può giungere a causare una malattia, rientrando come fenomenologia nella psicopatologia delle cosiddette “reazioni ad eventi”.

Infatti ogni “stressor” che perturba l’omeostasi dell’organismo richiama immediatamente delle reazioni regolative neuropsichiche, emotive, locomotorie, ormonali e immunologiche, e le reazioni agli “stressor” assumono una valenza di “eustress” quando rappresentano l’aspetto positivo dello stress, intesa come attivazione dell’organismo oppure di “distress”, al contrario, quando lo stress assume una valenza negativa, e porta con sé a reazioni che non risultano garanti di quel nuovo adattamento richiesto o necessario per eliminare la situazione avversiva.

L’intervento si sofferma anche su quella che Seley (1971) definì come “Sindrome Generale di Adattamento”: cioè la risposta che l’organismo mette in atto quando è soggetto agli effetti prolungati di svariati tipi di “stressor”, quali stimoli fisici (ad esempio fatica), mentali (ad esempio impegno lavorativo), sociali o ambientali (ad esempio obblighi o richieste dell’ambiente sociale). Vengono descritte nel dettaglio l’evoluzione della sindrome che avviene in tre fasi (allarme, resistenza e esaurimento).

Si ricorda poi che il mobbing, oltre ad avere una dimensione oggettiva legata all’entità e natura dei comportamenti vessatori messi in atto dall’azienda, ha una forte valenza soggettiva che incide in modo significativo sullo stato psichico del soggetto stesso. Spesso il soggetto si ritrova assorbito in un vortice psicologico caratterizzato da meccanismi di evitamento, dove si evita di tornare al lavoro, a parlare con colleghi, ecc.; ad atteggiamenti di costante rimuginazione, dove il ricordo di quanto accaduto, nonostante gli sforzi evitanti, diventa intrusivo e dominante.

L’intervento si sofferma infine sull’accertamento psicodiagnostico del mobbing, segnalando che dal 2011 il Centro di Ricerca e Formazione in Psicologia Giuridica dell’Università degli Studi di Urbino ha stipulato una convenzione con l’INAIL della Regione Marche per l’accertamento psicodiagnostico dei lavoratori che hanno denunciato una condizione di costrittività organizzativa sul lavoro.

Riportiamo alcuni degli obiettivi della psicodiagnostica in relazione alle situazioni di stress lavorativo e mobbing:

–         il supportare la valutazione clinica dello psichiatra con elementi più oggettivi possibili;

–         il fornire un inquadramento della personalità più completo possibile;

–         l’evidenziare il funzionamento psicologico del soggetto nelle sue principali aree, con particolare attenzione a quella socio-affettiva e lavorativa;

–         il delineare quei processi, funzioni e abilità che risultano solo parzialmente indagabile attraverso il colloquio clinico;

–         il rilevare eventuali simulazioni;

–         l’indicare una possibile prognosi.

Il contributo si conclude sottolineando che di certo l’accertamento psicodiagnostico deve essere inteso come un contributo alla valutazione del singolo caso, ma esso da solo, senza ad esempio la valutazione psichiatrica, non può fornire un’esaustiva risposta.

Ed infatti la complessità del fenomeno, relativo alle diverse forme di stress connesse al mondo del lavoro, implica in modo inevitabile il doversi confrontare con diverse professionalità e cornici scientifiche.

L’intervento “La prevenzione dei rischi da stress lavoro-correlato. Profili normativi e metodiche di valutazione” contenuto negli Atti del Convegno di Urbino del 8 novembre 2013, a cura di Luciano Angelini è consultabile al link:

http://www.puntosicuro.info/documenti/documenti/240731_wpo31_rischi_psicosociali.pdf

Tiziano Menduto

www.puntosicuro.it

10 luglio 2015

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