Lo Yemen entra nella nuova fase: l’aggressione statunitense diretta, con obiettivo terminale l’Iran

In democrazia un esercito è espressione di uno Stato che abbia il potere, affidatogli dai propri cittadini, di decidere come e quanto prelevare con la tassazione, come e quanto indebitarsi, come e quanto spendere per la sanità, l’istruzione, le armi, appunto, contro quale Stato usare eventualmente la forza, chi mandare a combattere, dove e perché. Affinché possa veder riconosciuto il diritto di prendere decisioni tanto importanti lo Stato, a sua volta, deve essere espressione di un popolo che senta di appartenere fondamentalmente, sia pure con dubbi e precisazioni, alla medesima comunità, che abbia un livello di fiducia e di fedeltà verso le proprie istituzioni tali da accettare di combattere e morire, di veder combattere e morire i propri figli non solo per difenderle e per difendere se stesso, come sarebbe naturale, ma per le posizioni e le scelte di politica internazionale assunte dal proprio governo, che le condivida o no.

 E’ la follia della guerra, gli Stati la fanno da secoli e la mobilitazione culturale ha sempre preceduto quella militare. Si fa appello al senso di appartenenza, al concetto di comunità, al pericolo comune, si sottolineano i valori che uniscono, si individuano i nemici, immancabilmente oltreconfine e privi di qualsiasi ragione che ne giustifichi le posizioni e i comportamenti. Rare e bellissime le eccezioni, tra cui, è importante ricordarlo in un momento tanto difficile, sia pure con amarezza, i socialisti italiani di fronte al primo conflitto mondiale. Allora, non diversamente da oggi, il dissenso era considerato tradimento.

L’Unione Europea – ma come vedremo è solo apparentemente una buona notizia – è lontanissima dall’essere uno Stato nel senso che abbiamo detto.  E’ piuttosto un accordo tra Stati che hanno accettato di spogliarsi, senza tuttavia affidarlo ad alcuna autorità centrale, di buona parte del potere di tassare, indebitarsi e spendere, le cui popolazioni hanno un senso debolissimo di appartenenza alla medesima comunità. Tutti noi, molto prima che europei, ci sentiamo e siamo effettivamente qualcos’altro. Le diversità sono addirittura motivo di orgoglio, proprio perché ritenute, a ragione, caratteristiche identitarie, esclusive della propria comunità nazionale e di nessun’altra. Ventisette lingue, tutte largamente ignote al di fuori dei confini nazionali e che dunque non servono a comunicare tra “europei”. L’unica sufficientemente diffusa, la ventottesima, è quella di uno Stato che ha ormai abbandonato l’Unione Europea (che tuttavia, alla faccia della coerenza, chiede con decisione di esserne considerato parte quando si tratterà di accaparrarsi le commesse militari pagate dagli altri), e che nessuno tra gli “europei”, salvo una strettissima minoranza, si sognerebbe di considerare come propria (del fallimento dell’assurdo tentativo di costruire una lingua artificiale, l’esperanto, è meglio non parlare, tanto lo ricordano in pochi.).

Abbiamo, noi “europei”, culture, tradizioni, abitudini profondamente diverse. Condividiamo invece, questo sì, secoli di storia, che arrivano fin quasi ad oggi, caratterizzati da violenze bestiali degli uni contro gli altri, degli uni sugli altri, non solo in tempo di guerra. Sotto la superficie della civile cordialità delle élite sovranazionali acculturate, politicamente corrette e liberal-progressiste, si nascondono profonde diffidenze e ostilità popolari pronte in ogni momento a riaffiorare. Basterebbe fare un’escursione sul confine con l’Austria per rendersene conto. I cippi non ci sono più, tutto il resto è rimasto.

Di confini così, l’Europa è piena. E’ appena il caso di ricordare che solo pochi anni fa, non nell’Ottocento, in una fase di grave emergenza sanitaria come la pandemia da Covid19, sono state chiuse le frontiere in nome della protezione delle comunità nazionali (!) dal pericolo di contagio ed è stata addirittura vietata la vendita all’estero, non importa se ad altri “europei”, di dispositivi sanitari, prime fra tutte le mascherine (ne sono testimone diretto: una ditta tedesca mi mandò una mail, che ancora conservo, in cui si dichiarava, per disposizione del proprio governo, impossibilitata a vendermi anche una (!) mascherina; un anziano signore russo, nato e vissuto a lungo nell’URSS,  che ho amato come un padre, me ne mandò gratis duecento; il governo di Putin non ebbe nulla da ridire).

Come si può allora pensare ad un esercito comune? Come si può pensare che un “europeo” possa accettare di farsi ammazzare per ordine di uno straniero, di farsi dire dove e per chi andare a morire o mandare a morire i propri figli? Questo valga per chi crede alla fantasia – direi piuttosto alla furbesca ipocrisia – dei nostri politici liberal-progressisti (meglio, tutto sommato la rozza   antidemocraticità di Calenda e della Picierno) che affermano, per tenere tutto insieme, per restare tutti insieme, che il riarmo europeo possa essere qualcosa di diverso dal semplice riarmo dei singoli Stati. La costruzione di un esercito “europeo” rappresenterebbe addirittura, specie se pagato con un debito pubblico comune, un ulteriore passo in avanti verso la costruzione dell’unione politica.  Questo, paradossalmente, mentre si lavora alacremente all’aumento della frammentazione culturale e sociale, all’ulteriore indebolimento di quel senso di appartenenza necessario alla nascita di uno Stato, spingendo l’Unione Europea ancora più ad est, fino all’Ucraina e alla Georgia, paesi i cui cittadini non sono certamente più simili a un tedesco o a un francese di quanto non lo siano i russi.

L’unione politica europea, nell’idea e nella prassi dei nipoti di Ventotene, anziché salire dalle fondamenta, può procedere più utilmente in direzione opposta, venendo giù dal tetto. Il primo mattone, ci venne raccontato fino allo sfinimento, fu l’eliminazione delle valute nazionali e l’introduzione dell’euro. A nulla servì l’acuta osservazione dei pochi intellettuali che da sinistra (ripeto, da sinistra, non dalla Lega!) già negli anni Novanta del secolo scorso avvertirono del pericolo di tendenze disgreganti, del possibile aumento delle distanze e delle tensioni, all’interno e tra gli Stati, causate dalla rinuncia alla sovranità monetaria, a quella fiscale, alla manovra del tasso di cambio. In un mondo che non avesse pensato ed agito al rovescio ciò sarebbe avvenuto dopo aver creato un bilancio pubblico centrale di dimensioni tali da consentire trasferimenti paragonabili a quelli (enormi) che vennero effettuati dalla Germania dell’Ovest a quella dell’Est, o che si effettuano normalmente tra le regioni forti a quelle deboli di un medesimo Stato. Per fare questo sarebbe stato necessario uno Stato che poggiasse su un forte e diffuso senso di appartenenza. Facciamo fatica tra italiani a sentirci simili, figurarsi tra europei. O Maastricht o morte, dunque. Il resto sarebbe venuto più avanti, al traino della moneta unica. Così fu detto, così fu fatto.

Ma sarebbe davvero potuto arrivare il resto? Ovviamente no. Se l’unificazione monetaria storicamente non ha mai preceduto quella politica una ragione deve pur esistere.  Come si può pensare di regalare i poteri della politica monetaria – che influiscono sulla vita di tutti attraverso i tassi di interesse, il tasso di cambio, i prezzi –  a persone selezionate al proprio interno dal potere finanziario, il cui operato sia sottratto, addirittura per legge, al controllo democratico? Un simile marchingegno è concepibile solo se il controllo politico è escluso ab origine, dalla non creazione del soggetto che dovrebbe esercitarlo. Solo se manca l’unione politica, se non c’è uno Stato che possa tassare, indebitarsi, spendere, compensare con i trasferimenti, controllare e, perché no, orientare l’operato dei burocrati (perché questo sono in un mondo normale i banchieri centrali), può esistere una banca centrale unica e indipendente.

Trovino pace, dunque, i seguaci dei liberal-progressisti: l’euro non è stato introdotto per procedere, sia pure a fatica e nel solo modo all’epoca possibile, verso l’unificazione politica. Al contrario, è nato proprio perché l’unificazione politica non venisse realizzata.

Prima l’euro, dunque, realizzato attraverso l’austerità e i sacrifici imposti ai lavoratori (riforme delle pensioni, moderazione salariale, precariato) fatti passare dagli stessi liberal-progressisti che ora invocano il riarmo, con la promessa di un futuro migliore per tutti, di un benessere diffuso che tuttavia non è mai arrivato, o meglio, è arrivato in poche mani e in quelle è rimasto. Un benessere che ha dunque alimentato le differenze, le ingiustizie, le ostilità sociali, l’indifferenza per la politica delle classi subalterne, la fedeltà e il sostegno interessato e culturalmente aggressivo, di quelle economicamente privilegiate o comunque non danneggiate. E ora, gli stessi politici euro-entusiasti, talvolta ormai ottuagenari, si rifanno avanti e  propongono il riarmo, spacciandolo, a condizione sia europeo, per un ulteriore passo verso l’unificazione politica. Senza il minimo imbarazzo si uniscono a quanti dichiarano di volerlo realizzare, il riarmo, con la spesa pubblica in deficit, l’esatto contrario dell’austerità. In eccezione, dunque, alle regole di Maastricht che continueranno tuttavia a governare la spesa per la scuola, la sanità, le pensioni.

Ma se l’austerità era necessaria alla sopravvivenza dell’euro, perché e in che modo il suo contrario dovrebbe ora aiutarla? L’unica possibile risposta porta dritti al vituperato (almeno fino a ieri) Keynes: se l’aumento della domanda aggregata per armamenti si rivolgerà alla produzione europea (ma oggi compriamo armi soprattutto dagli americani) aumenterà il PIL dei paesi europei politicamente più forti, quelli che hanno un settore militare importante e tecnologicamente avanzato,  che sono rapidamente in grado di rafforzarlo ulteriormente convertendo produzioni civili in crisi e che possono far pesare un contributo enorme all’incremento totale della spesa pubblica europea. Aumenteranno le entrate fiscali e ciò renderà sostenibile l’incremento del loro debito pubblico, non quello di tutti. Riuscite ad immaginare chi in Europa otterrà una fetta consistente delle commesse militari?

Quando i singoli Stati, c’è da giurare molto presto, si saranno finalmente riarmati si può star certi che le decisioni “europee” verranno prese dai più forti, nel loro esclusivo interesse. E’ stato così con l’euro in tempo di pace, sarà così per l’esercito “europeo” in tempo di guerra. Sempre poi che le armi non servano ad ammazzarci tra di noi, tra “europei”, com’è avvenuto per secoli.

Nulla cambia, dunque. Le élite si adattano per sopravvivere e mantenere ruolo e privilegi economici e politici. La “pace con la forza”, la difesa dell’eroica Ucraina, dei valori democratici  che essa incarnerebbe nel resistere all’orco russo e all’ondata di fascismo suprematista americano (ricordo che la condizione per iniziare i negoziati per aderire all’Unione Europea è il rispetto dei diritti umani e delle minoranze!): ecco il nuovo collante del popolo “europeo”.

Spacciare il riarmo come l’unico strumento in grado di difendere la democrazia e i valori europei, come un ulteriore passo verso l’unione politica dopo quello compiuto con l’introduzione dell’euro, è, almeno in Italia, la strada imboccata dalla propaganda liberal-progressista per tappare la bocca al dissenso e per far accettare il riarmo da chi dovrà pagarne le conseguenze, economiche e non. Perché, come disse una volta Gianni Agnelli, ci sono politiche costose sul piano sociale che la sinistra è in grado di realizzare più facilmente della destra. Qualcosa di socialmente più costoso del riarmo è davvero difficile da immaginare.

Andera Imperia

24/3/2025 https://www.lafionda.org/

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