L’odio per la donna più forte dell’amore per i figli
dramma dei padri separati» è il titolo con cui Il Mattino di Napoli ha dato notizia dell’uomo che ha ucciso i due figli per poi suicidarsi a Margno in Valsassina il 27 giugno 2020.
Molti dei femminicidi conosciuti finora sono avvenuti nel momento in cui una donna ha deciso di separarsi e quello che ormai dovrebbe essere arrivato alla coscienza anche dei maschilisti più refrattari, è che a muovere la violenza vendicativa dell’uomo è l’intollerabilità del fatto che una donna possa decidere liberamente della sua vita. Mario Bressi non ha ucciso la moglie, ma è riuscito comunque a distruggerla strappandole in quel modo selvaggio i figli.
Il dramma, in questo caso, è constatare che la potenza dell’odio per la donna che è venuta meno ad aspettative considerate «dovute» è più forte dell’amore per quei figli che ha deciso dovessero essere «per sempre insieme» con lui nella morte, come si legge nel suo ultimo post.
Non serve una preparazione psicanalitica, per capire quanto sia legata l’idea proprietaria su cui si è retta storicamente la famiglia – la dipendenza psicologica, giuridica, morale, affettiva, che essa struttura, tra marito e moglie, madre e figli – con le pulsioni aggressive che vi crescono dentro inevitabilmente, e che in taluni casi provocano gli effetti nefasti che conosciamo.
C’è una responsabilità più odiosa di quella dell’uomo che uccide uccidendosi, e quella di una società – di maschi prima di tutto, ma anche di donne – che non pronuncia una parola, non muove un passo, non fa il minimo gesto perché questa infamia che si protrae da secoli sia almeno portata allo scoperto, analizzata per la centralità che ha nella vita di tutti, per il peso che ancora sostiene nel dare alla sfera pubblica la sua apparente autonomia, il suo arrogante disinteresse per quel retroterra dove, in nome dell’amore, si consumano una quantità enorme di lavoro e di energie femminili?
Eppure non è di oggi la consapevolezza che il privilegio maschile nella società comincia nelle case, che il potere dell’uomo sulla donna passa, prima di tutto, da quell’appropriazione del corpo femminile – sessualità, capacità generativa e lavorativa – che ancora oggi ha nella famiglia il suo fondamento «naturale», nella «norma eterosessuale» la sua copertura ideologica. Nonostante che gli omicidi quotidiani – di donne, prevalentemente, ma non solo – abbiano cancellato da tempo la sua immagine tradizionale di luogo sacro, focolare dell’amore, culla di teneri affetti, riposo del guerriero, la famiglia resta il grande rimosso dell’insicurezza sociale, delle paure reali o ingigantite ad arte, la zona di passioni «inspiegabili» per una cultura di massa che, per un altro verso, pretende di portare tutto allo scoperto, e che oggi penetra più o meno cinicamente, per ragioni scientifiche commerciali, politiche, moraliste o religiose, fin nelle pieghe più insondabili della nascita, della morte, della maternità, della malattia.
All’interno delle case, in nuclei famigliari sempre più ristretti, si gioca ancora la partita del potere, dell’ingiustizia, dello sfruttamento, più resistenti a ogni cambiamento, per la radice antica e per la complessità, contraddittorietà, delle esperienze che vi sono implicate.
Anziché limitarsi a deprecare la violenza, a invocare pene più severe per gli aggressori e più tutela per le vittime, forse sarebbe perciò importante gettare uno sguardo proprio là dove non vorremmo vederla comparire, in quelle zone della vita personale e pubblica che hanno a che fare con gli affetti più intimi, con tutto ciò che ci è più famigliare, ma non per questo più conosciuto. Nessuno sembra trovare inquietante che il corpo su cui l’uomo si accanisce – violentando, sfruttando, uccidendo, assoggettando – sia quello che gli ha dato la vita, le prime cure, le prime sollecitazioni sessuali, un corpo che rincontra nella vita amorosa adulta e con cui sogna di poter rivivere l’originaria appartenenza intima a un altro essere, l’unità a due della nascita. Ma è anche il corpo che lo ha tenuto in sua balìa nel momento della maggiore dipendenza e infermità, un corpo che poteva dargli la vita o la morte, accudimento o abbandono. Confinando la donna nel ruolo di madre, facendola custode della casa, degli affetti, della sessualità, l’uomo ha costretto anche sé stesso a restare eterno bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata. La libertà di cui gode situandosi nella vita pubblica è condizionata dal supporto di sopravvivenza materiale e affettiva che gli hanno assicurato le donne, la casa, la famiglia. La comunità storica degli uomini si costituisce come fuga dal femminile, ma anche da bisogni infantili che restano tuttavia fermi, in una immobilità senza tempo.
La famiglia è il luogo che istituzionalizza l’infanzia, che prolunga l’amore nella sua forma originaria estendendola alle relazioni adulte, e che proprio per questo non ha mai smesso di essere in contrasto con la civiltà, le sue esigenze di allargamento del cerchio della vita. La famiglia, la coppia, sono vissute come rifugio, ma anche come prigione, luogo chiuso del possesso, dell’appartenenza, e per ciò stesso minacciato dalla possibilità della perdita, del venir meno di legami considerati indispensabili per la propria sopravvivenza. Si può uccidere una donna perché troppo inglobante o perché si sottrae alla presa. In tutti i casi è la forma stessa infantile in cui è stato tenuto l’amore, e il rapporto tra i sessi, a generare pulsioni aggressive. L’identificazione della donna con la madre è come se avesse permesso all’uomo di protrarre ben oltre l’infanzia quel potere materiale e psicologico che essa ha esercitato su di lui bambino. Il potere che viene dal rendersi indispensabile all’altro è tutt’ora per la donna il più forte contrappeso alla mancata realizzazione come individua e come cittadina a tutti gli effetti.
Ma c’è un’altra osservazione da fare: quello che accade nelle case è strettamente legato a quello che accade nella vita pubblica, da cui le donne sono state escluse da millenni e in cui, nonostante leggi di parità e pari opportunità, continuano a entrare con fatica. Le donne sono state identificate col corpo, con la maternità, la sessualità, un corpo che l’uomo ha considerato una sua proprietà, una risorsa da sfruttare a suo vantaggio, su cui ha sempre esercitato un controllo.
Lo stupro, l’omicidio, sono le forme estreme della violenza contro le donne, ma sarebbe un errore considerarle isolatamente – tanto più che esiste una legge che li punisce –, come se non fossero situate in una linea di continuità con una cultura – maschilista, sessista, patriarcale che dir si voglia – che, nonostante le garanzie costituzionali, le leggi, i «valori» democratici, stenta o fa resistenza riconoscere la donna come persona. La donna resta – purtroppo anche nel modo di pensare e sentire di molte donne, per ragioni di adattamento e sopravvivenza – una funzione sessuale e procreativa. È il corpo che assicura piacere, cure, continuità della specie. Non è un caso che una delle ragioni di maggiore allarme, per una civiltà che avverte segnali di crisi, che si sente accerchiata dall’immigrazione crescente, dall’odio di altri popoli, è la denatalità.
Dobbiamo cominciare a dire che la violabilità del corpo femminile – la sua penetrabilità, uccidibilità – non appartiene all’ordine delle pulsioni «naturali», o alla «bestialità», agli usi «barbarici» dello straniero, ma sta dentro la nostra storia, greca, romana, cristiana, a cui oggi si torna a fare riferimento, idealizzandola, per differenziarla dalla presenza in Europa della cultura islamica. La cancellazione della donna come persona fa tutt’uno con la nascita della pòlis, con la demarcazione di un confine netto tra ruolo del maschio e della femmina, tra la casa e la città, la famiglia e lo Stato. È legata, all’origine, con l’esercizio di un potere sovrano, potere di vita e di morte, che l’uomo ha esercitato su di lei e su altri corpi vili, come lo schiavo e il prigioniero.
La cittadinanza delle donne, oltre a essere tuttora incompleta, ha continuato a convivere con l’idea di un femminile-corpo vile, non a caso collocato nell’elenco dei «soggetti bisognosi» da controllare e proteggere. L’emancipazione risulta spesso così insoddisfacente perché si presenta come lo sforzo per sfuggire a un femminile svalutato, insignificante, impotente.
Quindi combattere la violenza sessista nelle sue forme manifeste e invisibili comporta che, oltre alle pene previste dalla legge, si tenti di prendere il problema alla radice: snidare la cultura che la produce, incarnata nelle istituzioni, nella morale, nella religione, nelle norme non scritte della tradizione, nelle usanze familiari e comunitarie, ma anche e soprattutto negli habitus mentali sedimentati dal millenario dominio maschile, interiorizzati dalle donne stesse. Vuol dire, per esempio, fare in modo che la donna non sia più identificata col corpo (sessualità, maternità): colei che sarebbe, «per natura», addetta alla cura dei corpi, di bambini, malati, anziani; il che significa condanna alla fatica, alla sofferenza, ma anche al potere dell’indispensabilità. Bisogna che gli uomini, che danno la morte con tanta facilità, imparino quanto costa mettere al mondo e crescere la vita, curare la malattia e i disagi della vecchiaia. Dovrebbero essere presenti negli asili nido e nei primi ordini di scuola, dove è ancora esclusiva o predominante la presenza femminile.
Ma dovremmo anche cominciare a considerare violenza la cancellazione che del rapporto tra i sessi fa la classe politica e la cultura alta, prima ancora che il senso comune. Gli stessi politici, intellettuali, che sbandierano come un trofeo della nostra civiltà la «libertà» delle donne, contro l’arretratezza di altri popoli e culture, non sono poi disposti ad aprire alcuno spazio affinché questa libertà possa essere effettivamente esercitata. Il rapporto tra uomo e donna non è ancora entrato nell’agenda politica col posto che merita, e quando si apre uno spiraglio, lo si colloca sotto la voce «politiche familiari», o «pari opportunità»: tutela di un soggetto debole, svantaggiato, a rischio.
C’è poi il problema della comunità straniere che vivono nel nostro paese, della difficile situazione in cui si vengono a trovare le donne immigrate, strette tra la repressione-protezione del proprio ambito di appartenenza, e un modello di libertà femminile che noi stesse critichiamo, e che comunque urta contro le loro convinzioni, i loro modi di vita. Ma è importante che questo non diventi ancora una volta un paravento, un alibi, per la nostra cultura, l’occasione per spostare all’esterno un problema che le appartiene, come se il patriarcato fosse solo il segno della «barbarie» di altri. I fatti dicono il contrario: la cadenza quotidiana degli omicidi in ambito familiare fa meno notizia che la violenza all’esterno, a opera di immigrati, ma è il dato più rilevante, e non solo quantitativamente. Per avviare un rapporto di reciprocità con donne di altre culture, se non si vuole che sia solo di tipo solidaristico, è necessario da parte nostra essere disposte a mettere in discussione la nostra civilissima civiltà, per tutto ciò che ancora esita a portare allo scoperto del dominio maschile e dei suoi effetti.
La violenza contro le donne è la risposta che l’uomo ha dato al primo incontro con il diverso, in cui si mescolano desiderio e paura, amore e odio; è l’impronta originaria che si riscontra in ogni incontro/scontro che i gruppi umani hanno avuto e hanno con l’altro, l’esterno, lo straniero, il potenziale nemico. Il razzismo e il sessismo sono imparentati. Non a caso le culture, i popoli considerati «inferiori», sono stati sempre rappresentati come «effeminati» (gli ebrei, gli arabi).
Di questi nessi tra forme diverse di dominio e sfruttamento, va dato merito alla rete Non Una Di Meno di averli messi finalmente a tema in modo esplicito e posti al centro dell’azione politica. Se il femminismo si può considerare oggi il principale riferimento per un processo di liberazione comune a molteplici soggettività, è perché le sue pratiche – il partire da sé, l’attenzione al corpo, ai sentimenti, all’immaginario, alle formazioni inconsce, all’interiorizzazione di quegli stessi bisogni che vengono coltivati dall’apparato di dominio – permettono di interrogare le contraddizioni che si aprono quando le diverse appartenenze, di sesso, genere, razza, classe, ecc. vengono calate nel vissuto personale, nell’esperienza dei singoli. Sappiamo che si può essere al medesimo tempo anticapitalisti e sessisti, omofobi. Se è importante l’«alleanza dei corpi», di cui parla Judith Butler, altrettanto necessaria è l’invenzione di una lingua capace di ragionare con la memoria profonda di sé, la lingua intima dell’infanzia e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni. Una pratica attenta al rapporto individuo-collettivo, ma anche inconscio-coscienza, sentimenti e ragione, è quello che c’è di più distante dalle forme organizzate che ha avuto finora la politica, con capi, gerarchie, arroccamenti identitari.
Lea Melandri
*Lea Melandri è giornalista, attivista, saggista e insegnante. Dagli anni Settanta è stata un’attivista del movimento delle donne. Ha scritto diversi libri, tra i quali L’Infamia originaria e Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia. Ha diretto prima la rivista L’erba voglio e poi Lapis. Percorsi della riflessione femminile. Ha curato rubriche su vari giornali italiani, come Ragazza In, Noi donne, Extra Manifesto, L’Unità. Dal 2011 è presidente della Libera Università delle Donne di Milano, di cui è stata promotrice fin dal 1987.
29/6/2020 https://jacobinitalia.it
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