Logistica, il tallone d’Achille sono salari e appalti

Di Marco Veruggio

La consueta kermesse della logistica italiana organizzata il 12 novembre dall’Osservatorio Gino Marchet del Politecnico di Milano ha fornito dati, scenari e spunti di riflessione sullo stato del settore, ma anche indizi, più nel sottotesto di alcuni interventi, su ciò che possono attendersi dal futuro i lavoratori mentre discutono un delicato rinnovo contrattuale.

Oltre al costo del denaro e delle locazioni le imprese lamentano l’aumento del costo del lavoro, +4,3% nel 2024 (gli ultimi scatti salariali del vecchio contratto), a cui si sommano gli effetti della contrattazione di secondo livello (un «aumento dei costi senza ricevere nulla in cambio») e temono che la trattativa per il rinnovo contrattuale introduca «nuove rigidità».

A Milano una delle frasi più ricorrenti è stata «aumentare l’attrattività delle nostre aziende». La sensazione è che le imprese oggi incontrino qualche difficoltà in più nel trovare personale o comunque nel “fidelizzarlo” abbastanza da riuscire a estrarne i tassi di produttività desiderati. Interessanti a proposito alcune parole spese sull’assenteismo, in crescita (dal 4% all’8% tra il 2019 e oggi secondo una delle relazioni, addirittura al 16% secondo il rapporto dell’Osservatorio sull’evoluzione del mercato), ma soprattutto in fase di trasformazione: non più “l’assenteismo di un tempo, quello dei fannulloni”, ma lavoratori immigrati che si mettono in malattia per fare il secondo lavoro (implicita ammissione che i salari sono insufficienti). Del resto fonti sindacali confermano che le imprese faticano a trovare soprattutto camionisti – secondo la Cgil in Italia ne mancano 20.000 – ma in alcune province del nord anche conducenti di furgoni e magazzinieri, al punto che alcuni uffici del personale hanno cominciato a chiedere qualche curriculum al sindacato.

Un recente rapporto dello European Trade Union Institute ha evidenziato un trend internazionale di carenza di manodopera, in particolare proprio nei settori meno pagati e con una quota più elevata di soggetti deboli – immigrati, donne, giovani – ma invita alla cautela, precisando che potrebbe essere un fenomeno di breve durata. Tuttavia a Milano l’impressione che ho avuto è che alcune imprese temano una dinamica più persistente. L’insistenza sul tema dell’automazione e della robotizzazione, anche nelle piccole-medie imprese, quelle per cui di solito l’investimento in tecnologia è reso antieconomico proprio dalla disponibilità di lavoro a basso costo, con l’introduzione di sistemi robot-as-a-service (robotica in affitto) che consentono di dosare la composizione organica del capitale, variando la quota di lavoro umano e di automazione, mi pare una conferma che in qualche misura e pur con differenze sensibili da luogo a luogo la preoccupazione aleggi.

I dati più interessanti riguardano la struttura del settore, con le catene di fornitura che si accorciano a seguito delle reinternalizzazioni e del minor ricorso ai subappalti e, corrispondentemente, una diminuzione delle piccole imprese (sotto i 5 milioni di fatturato ne mancano all’appello 45). Il convitato di pietra alla convention è la magistratura, le cui inchieste sono tra le cause del fenomeno. Di recente la Procura di Milano ha descritto con dovizia di particolari una struttura industriale in cui i grandi gruppi “esternalizzano” il lavoro sporco che consente loro di aumentare la produttività e abbattere i costi intensificando lo sfruttamento del lavoro ed evadendo/eludendo il fisco.

I giudici in particolare sottolineano due aspetti: 1) falsi contratti di appalto ad aziende che in realtà non esercitano alcun controllo sulla propria forza-lavoro, ma di fatto esercitano un’intermediazione illegale di manodopera, col committente che si scarica indebitamente l’Iva pagata sui finti appalti: il caso Amazon, dove i driver della ditta d’appalto sono diretti attraverso una piattaforma Dsp del committente mediante una app del committente installata su uno smartphone del committente, è forse il più palese e ha portato al sequestro di 120 milioni di euro; 2) l’omesso versamento dell’Iva da parte di questi fornitori di manodopera, tanto più frequente quanto più si scende nella catena dei subappalti o il parziale versamento effettuato facendosi scontare bonus edilizi della cui origine è lecito dubitare.

Le inchieste, come del resto alcune testimonianze di lavoratori che ho raccolto di recente, rivelano un sottobosco di piccole imprese locali pronte a fallire quando i debiti superano  la soglia di emergenza e a trasferire i dipendenti ad altre ditte di uguale natura. Ditte che spesso hanno molteplici oggetti sociali e intestate a figli e nipoti poco più che teenager, a presunti manager dai nomi esotici, a personaggi che campano facendo il barbiere e arrotondano facendo il dirigente d’azienda oppure ancora a dipendenti che scoprono per caso di essere stati nominati amministratori o a rappresentanti sindacali che sono al contempo presidente e vicepresidente (altro che Mitbestimmung!). Imprese spesso celebrate dalla stampa locale, che ricevono premi per la preziosa ricaduta sociale del loro operato sul territorio e intrattengono rapporti con politici e amministratori in un territorio grigio tra economia legale e non.

Del resto non è una prerogativa della sola logistica, ma un tratto distintivo del capitalismo italiano fondato sul mito del “piccolo è bello”. Basti pensare alla situazione scoperchiata dalle denunce della Fiom sugli appalti Fincantieri, ma anche alle inchieste sulla grande distribuzione, la vigilanza privata e il food delivery o al tessile a Prato. O, ancora, alle pagine di Gomorra dedicate allo smaltimento dei rifiuti delle fabbriche del nord nella terra dei Fuochi e all’abito indossato da Angelina Jolie alla notte degli Oscar, ma confezionato in una sartoria clandestina ad Arzano da un sarto arrivato di notte chiuso nel bagagliaio dell’auto e pagato 600 euro al mese.

Un sottobosco che appare impermeabile alla modernizzazione capitalistica, lontano anni luce dalle meraviglie dell’IA e della robotica, dalle prospettive salvifiche della transizione energetica, e da cui i manager della logistica evidentemente sono meno scandalizzati che dagli «accordi di secondo livello imposti in maniera quasi ricattatoria, ad esempio con lo sciopero bianco», dalla «facilità con cui i lavoratori ottengono certificati di malattia, mentre le aziende faticano a ottenere visite fiscali puntuali ed efficaci» o dal fatto che «per i lavoratori extracomunitari attrattività delle imprese significa solo soldi e questo innesca il calcio mercato tra le aziende, in cui vince chi paga di più».

La rottura delle trattative per il rinnovo del contratto della logistica, con uno sciopero fissato il 9-10 dicembre – uno dei punti in discussione è proprio l’abolizione del livello di inquadramento più basso, circa 1.400 euro lordi – riflette il paradosso dell’attrattività con le castagne secche teorizzata dai manager della logistica e indica la possibilità di compiere un passo avanti in un settore in cui negli anni passati lotte pur localizzate e condotte da piccoli sindacati hanno prodotto risultati inattesi e dove emergono fattori potenzialmente favorevoli per i lavoratori e il sindacato, inclusa la possibilità che il fronte si allarghi.

Sulla situazione nella logistica in questi giorni abbiamo intervistato anche Gianni Boetto di Adl Cobas, puoi leggere l’articolo qui. Della rilevanza della logistica nel contesto socio-economico attuale invece ha scritto Sergio Fontegher Bologna, si legge qui.

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