L’omicidio lavorativo
L’opera meritoria di Carlo Soricelli, curatore dell’«Osservatorio Nazionale di Bologna morti sul lavoro» (http://cadutisullavoro.blogspot.it) ci permette di avere un aggiornamento pressoché continuo del numero delle vittime sui luoghi di lavoro in Italia. L’osservatorio è di fondamentale importanza anche perché indica quali siano, secondo la sua originale metodologia di raccolta dei dati, i morti per cause lavorative, aldilà di quelle che sono le statistiche ufficiali (ma spesso carenti per difetto) fornite dall’INAIL predisposte con criteri essenzialmente assicurativi che sono variati nel tempo come varia la loro elaborazione. Da sempre quello dei decessi per causa del lavoro è una drammatica realtà purtroppo presente nel nostro paese ma che negli ultimi anni si è aggravata anche a seguito delle problematiche conseguenti alla nota crisi pandemica. Infatti la necessità di recuperare il lavoro perso a causa dei forzati periodi di sospensione (ma anche per altre cause difficili da indagare e comunque non indagate) ha troppo spesso portato a trascurare tutte le grida d‘allarme (non ultimo quello del Presidente della Repubblica) circa la scandalosa carenza delle norme di sicurezza sui luoghi di lavoro sono (colpevolmente) rimaste lettera morta e non hanno sortito alcun effetto concreto, se non generiche e spesso ipocrite recriminazioni.
Di fronte a tali drammi troppo spesso neppure vengono individuati i responsabili; altre volte i processi a loro carico sono celebrati (quasi sempre con inaccettabili ritardi dovuti ad un sistema giudiziario notoriamente inefficiente) ma si concludono con pene soventemente inadeguate e non proporzionate al tragico evento. A tale proposito basti ricordare la recente sentenza del Tribunale di Prato dove si è svolto il processo a carico dei datori di lavoro di una giovane operaia tragicamente deceduta a causa della colpevole mancata attivazione del sistema di sicurezza del macchinario sul quale stava lavorando. Ebbene tale processo, nella sostanza, neppure è iniziato in quanto il Tribunale pratese ha accolto la richiesta di patteggiamento proposta dagli imputati e tutto si è risolto con condanne assolutamente non adeguate (due anni di reclusione per la titolare dell’azienda e un anno e sei mesi per il marito, riconosciuto come gestore di fatto dell’attività), motivate con la circostanza che i familiari della vittima già erano stati risarciti.
Alessandro Rombolà
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23/1/2023
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