LOTTA ALL’HIV
SECONDO BOLLETTINO
Nessuna trasmissione da partner HIV-positivo in terapia in uno studio internazionale su coppie gay
In uno studio condotto su 343 coppie gay sierodiscordanti, in cui cioè solo uno dei due partner è HIV-positivo, non si è verificato neanche un singolo evento di trasmissione dell’HIV su un totale di 16.889 rapporti sessuali anali non protetti: è quanto si è appreso oggi alla 9° Conferenza Internazionale sull’HIV dell’International AIDS Society (IAS 2017).
Scopo dello studio Opposites Attract era verificare se il virus dell’HIV si trasmette nelle coppie di maschi gay in cui il partner HIV-positivo è in terapia antiretrovirale e con viremia completamente soppressa. Il 98% dei partner HIV-positivi di Opposites Attract presentavano carica virale non rilevabile.
Per lo studio sono state arruolate e seguite al follow-up coppie gay in Australia, a Bangkok e a Rio de Janeiro.
I risultati di Opposites Attract vanno a corroborare le evidenze già prodotte dallo studio PARTNER, secondo cui gli individui HIV-positivi che assumono una terapia antiretrovirale efficace, ossia in grado di sopprimere completamente la replicazione virale, non trasmettono l’HIV attraverso i rapporti sessuali. Complessivamente, nei due studi non è stato osservato neanche un singolo evento di trasmissione del virus su quasi 40.000 rapporti anali non protetti tra maschi gay.
Questi dati rafforzano ulteriormente la tesi “irrilevabile = intrasmissibile” – o “U=U” (Undetectable equals Untransmittable), come recita la tagline dell’iniziativa Prevention Access Campaign, nell’ambito della quale è stata stilata una dichiarazione di consenso sottoscritta sia da NAM che dall’International AIDS Society (IAS), che ha appunto organizzato la Conferenza internazionale sull’HIV http://www.ias2017.org/ in corso questa settimana a Parigi.
Nel corso di una conferenza stampa su carica virale e infettività tenutasi nella giornata di lunedì, il prof. Anthony Fauci, direttore del National Institute for Allergies and Infectious Diseases degli Stati Uniti, ha dichiarato: “Gli uomini di scienza non usano volentieri la parola “mai”, parlando dell’eventualità di un rischio. Ma credo che in questo caso si possa affermare che il rischio di trasmissione da parte di una persona HIV-positiva che assume correttamente il trattamento e ha una carica virale non rilevabile possa essere talmente basso da non poter essere misurato, il che equivale a dire che non possono trasmettere l’infezione. È una situazione insolita, in cui la mole di evidenze scientifiche è tale da consentirci di parlare di un fatto.”
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Comunicato stampa di NAM su questo studio
Abstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza
Bambina HIV-positiva in remissione da otto anni e mezzo senza farmaci
Una bambina sudafricana di nove anni mantiene sotto controllo la carica virale HIV da otto anni e mezzo senza l’aiuto della terapia antiretrovirale, si è appreso alla Conferenza.
La bambina fa parte dello studio clinico CHER, mirato a raffrontare l’efficacia di due diverse strategie terapeutiche per i bambini HIV-positivi. L’infezione le è stata diagnosticata quando aveva un mese di vita, e il mese successivo le è stata subito somministrata la terapia antiretrovirale (ART), randomizzandola in un gruppo di giovani pazienti che hanno assunto i farmaci per 40 settimane.
Oggi la bambina ha nove anni e mezzo, e da quando ha sospeso l’assunzione dei farmaci la sua carica virale non è più tornata rilevabile. Anche i suoi reservoir virali, ossia le cellule contenenti materiale genetico del virus (HIV DNA), sono rimasti stabili da allora.
La bambina è in grado di opporre una risposta immunitaria all’HIV. È possibile che il virus si annidi ancora nel suo organismo in quantità piccolissime, ma nonostante l’impiego di varie tecniche diagnostiche non sono state rilevate cellule virali in grado di replicarsi.
I ricercatori sono stati molto attenti a non definire la bambina “curata” dall’HIV, e ancora non hanno spiegazioni certe sul perché la piccola sia riuscita a mantenere irrilevabile la carica virale per un periodo di tempo così lungo senza terapia.
Si tratta del terzo caso di un bambino che è stato sottoposto alla terapia antiretrovirale molto precocemente dopo la nascita, ha interrotto l’assunzione di farmaci mesi o anni dopo e si è mostrato in grado di tenere a bada l’HIV per un lasso di tempo prolungato. Una di queste tre è tutt’ora in remissione, a undici anni dall’interruzione della terapia.
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Risultati incoraggianti per l’inibitore dell’integrasi sperimentale bictegravir
Una combinazione monocompressa contenente l’inibitore dell’integrasi sperimentale bictegravir è risultata efficace tanto quanto due terapie standard per il trattamento dell’HIV: lo attestano due studi presentati alla Conferenza, entrambi condotti su pazienti che iniziavano per la prima volta il trattamento.
Nel primo studio sono stati messi a confronto bictegravir e dolutegravir, entrambi assunti con emtricitabina/tenofovir alafenamide (TAF). I risultati di questo studio di fase 3 rappresentano un aggiornamento dei dati di un precedente studio di fase 2, già presentato.
Alla 48° settimana, la combinazione con bictegravir è risultata non inferiore al regime contenente dolutegravir: avevano infatti ottenuto l’abbattimento della carica virale rispettivamente l’89 e il 93% dei partecipanti. Nel braccio del bictegravir si sono registrate interruzioni del trattamento lievemente più frequenti (3 contro 1%), che tuttavia in genere non erano dovute alla scarsa efficacia terapeutica o a problemi di tollerabilità. I fallimenti virologici sono risultati rari. Cefalea e diarrea sono stati gli effetti collaterali più frequentemente riferiti.
Un secondo studio ha invece studiato l’efficacia della stessa combinazione con bictegravir raffrontandola con quella del Triumeq, un farmaco combinato a base di dolutegravir, abacavir e lamivudina.
Alla 48° settimana i tassi di soppressione virale ottenuti con le due combinazioni sono risultati similari (92 contro 93%), il che va a dimostrare la non-inferiorità del farmaco sperimentale. I fallimenti virologici sono risultati rari per entrambi i regimi.
Per quanto riguarda gli effetti collaterali, gli esiti sono invece risultati a favore della combinazione con bictegravir.
Sono attualmente in corso anche studi che indagano sicurezza ed efficacia del bictegravir in pazienti già trattati in precedenza; per il 2018 si attendono inoltre i risultati di uno studio sulle donne, e sono in progetto anche studi che coinvolgeranno bambini e adolescenti.
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Abstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza
Praticabilità ed efficacia del trattamento dell’epatite C in Africa
Con il trattamento del virus dell’epatite C (HCV) a base di antivirali ad azione diretta (DAA) si possono ottenere in Africa tassi di cura paragonabili a quelli che si osservano nei paesi industrializzati: lo dimostrano i risultati di uno studio presentato alla Conferenza.
Secondo gli autori, è un dato che ribadisce l’opportunità di potenziare l’offerta di test e trattamento per l’HCV nei contesti con risorse limitate.
Ai delegati presenti alla Conferenza è stata presentata l’analisi primaria di questo studio condotto in Camerun e Costa d’Avorio, che ha dato risultati estremamente incoraggianti.
A un gruppo di pazienti con genotipo 1 e 4 è stato somministrato sofosbuvir/ledipasvir (Harvoni) per 12 settimane, mentre un altro gruppo con genotipo 2 ha assunto sofosbuvir più una dose di ribavirina calcolata in base al peso corporeo.
Complessivamente si è osservata una risposta virologica sostenuta nell’89% dei partecipanti, e ben nel 78% di quelli affetti da cirrosi.
Sono tassi di cura paragonabili a quelli che si registrano in Europa e Nord America.
I costi resteranno tuttavia un ostacolo non indifferente per l’accesso ai DAA nei contesti con risorse limitate. Ci sarà bisogno di fare pressioni per assicurare la disponibilità di farmaci generici e sarà necessario anche l’appoggio dei finanziatori internazionali.
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Abstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza
Test HIV fai-da-te e maschi gay
L’offerta di kit per il test fai-da-te gratuiti è un modo efficace per far sì che i maschi gay eseguano il test HIV più frequentemente per aumentare i tassi di diagnosi: è quanto emerge da uno studio presentato alla Conferenza.
Per questo studio, condotto negli Stati Uniti, sono stati arruolati oltre 2000 maschi gay HIV-negativi e altri uomini che fanno sesso con uomini (MSM). I partecipanti sono stati assegnati in maniera randomizzata a un braccio di intervento oppure un braccio di controllo: quelli del primo braccio hanno ricevuto via posta quattro test fai-da-te da eseguire nell’arco di 12 mesi, mentre a quelli del braccio di controllo non è stato dato nulla.
Ogni tre mesi, i partecipanti hanno risposto a un questionario volto a indagare il loro comportamento in materia di test HIV.
È risultato che coloro che hanno ricevuto i kit gratuiti si sottoponevano al test più frequentemente: il 79% ha riferito di averlo fatto almeno tre volte nel periodo preso in considerazione dallo studio, contro il 22% del gruppo di controllo.
Nel braccio di intervento sono stati in totale 22 gli uomini a cui è stata diagnosticata l’infezione, il doppio rispetto a quelli del braccio di controllo. Questi ultimi avevano qualche probabilità in più di essere agganciati alle cure rispetto agli uomini che avevano ricevuto i kit gratuiti, ma la differenza non è risultata statisticamente rilevante.
Uno studio pilota condotto dal Terrence Higgins Trust, la nota organizzazione britannica per la lotta contro l’HIV, ha mostrato che la distribuzione gratuita di questi kit per il test fai-da-te ai maschi gay è sia praticabile che ben accolta.
Durante un periodo di sei settimane sono stati distribuiti circa 5000 kit, e oltre due terzi degli individui che ne facevano richiesta aveva riferito di avere comportamenti sessuali a rischio.
Oltre 3000 uomini hanno accettato di condividere i risultati del test attraverso una pagina internet sicura, e per 28 di loro (1%) l’esito è stato reattivo. Ventidue di questi uomini sono stati contattati telefonicamente, e tutti avevano già fatto richiesta di effettuare il test di conferma.
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Test HIV fai-da-te e sex worker donne
Una serie di studi presentati alla Conferenza hanno mostrato come l’offerta del test fai-da-te sia praticabile e ben accolta anche per le sex worker nei contesti con risorse limitate.
È quanto emerge dai risultati di indagini condotte in Zimbabwe, Zambia, Uganda e Kenya.
La prevalenza dell’HIV tra le sex worker dello Zimbabwe è ben il 50%, ma soltanto i due terzi di loro sono consapevoli di essere HIV-positive: il 43% assume la terapia antiretrovirale e solo un terzo è in soppressione virale. Si tratta di dati ben al di sotto dell’obiettivo 90-90-90.
A 600 donne che si erano rivolte a una centro per la salute sessuale per sex worker è stata offerta la possibilità di eseguire il test fai-da-te. Solo poco più della metà di loro (precisamente il 54%) ha accettato. Il test non doveva necessariamente essere portato a casa: anzi, la maggior parte di loro (il 96%) ha scelto di eseguirlo in una stanza appositamente messa a disposizione dal centro. Poco meno di un terzo delle donne che hanno eseguito il test ha avuto un esito reattivo, e il 99% di loro hanno fatto richiesta del test di conferma.
Dai questionari di follow-up è emerso che tutte le partecipanti hanno trovato il test facile da usare e hanno detto di fidarsi del risultato; il 98% ha dichiarato di sentirsi più a proprio agio se nessuno era presente nel momento in cui apprendevano l’esito. Per la distribuzione dei kit, il luogo più adatto secondo gran parte delle intervistate sarebbe proprio una struttura medica.
In Uganda e Zambia sono stati condotti degli studi randomizzati mirati a individuare le modalità più efficaci per la distribuzione del test fai-da-te. Il reclutamento è avvenuto per tramite di altre (talvolta ex) sex worker (le cosiddette “peer educators”). Le partecipanti sono state randomizzate in tre bracci: uno a cui il kit per il test fai-da-te veniva consegnato direttamente; uno che riceveva dei coupon da utilizzare in un centro medico o in farmacia per ottenere il kit; e infine uno a cui venivano solo date informazioni sul test standard.
In ognuno dei paesi sono state reclutate un migliaio di donne.
Lo studio si è svolto in un periodo di quattro mesi e ha riportato tassi molto alti di adesione al test: 95-100% nel braccio della distribuzione diretta; 84-97% nel braccio che riceveva i coupon; e infine 87-89% nell’ultimo braccio.
L’aggancio alle cure, tuttavia, è risultato più debole tra coloro che hanno eseguito il test fai-da-te, rispetto a chi riceveva le informazioni standard.
Uno studio condotto in Kenya ha mostrato invece che un buon modo per incoraggiare l’esecuzione del test fai-da-te da parte delle sex worker e anche di camionisti uomini (spesso loro clienti) era l’invio di messaggi sul cellulare.
I partecipanti ricevevano dei promemoria via SMS. Quelli nel braccio di intervento venivano informati della possibilità di eseguire il test fai-da-te, mentre quelli del braccio di controllo ricevevano solo un invito a fare il test standard.
Tra le sex workers, 16% di quelle del braccio di intervento hanno eseguito il test, contro il 6% di quelle del gruppo di controllo; per quanto riguarda i camionisti, hanno eseguito il test il 4% dei partecipanti del braccio di intervento contro l’1% di quelli del braccio di controllo.
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Un’azione urgente contro lo criptococco
È necessaria un’azione urgente per ampliare l’accesso alla flucitosina, un antimicotico impiegato nel trattamento della meningite criptococcica nelle persone HIV-positive in stadio avanzato della malattia.
I risultati di uno studio presentato alla Conferenza rivelano che i pazienti trattati con flucitosina hanno tassi di mortalità ridotti.
Si stima che il 15% dei decessi HIV-correlati (181.000) nei paesi a basso e medio reddito siano da ascrivere alla meningite criptococcica, e che il 6% delle persone HIV-positive con una bassa conta dei CD4 (inferiore a 100) sia positivo al test dell’antigene criptococcico.
L’infezione può essere trattata con una gamma di antimicotici: l’amfotericina B, il fluconazolo o la flucitosina.
La terapia d’elezione è un ciclo di amfotericina B e flutocisina della durata di due settimane. L’amfotericina B viene somministrata in ospedale per via endovenosa. La disponibilità di flutocisina, invece, è estremamente limitata in Africa.
I ricercatori hanno messo a confronto diversi regimi che potrebbero essere più realisticamente adottabili nell’Africa sub-sahariana, conducendo uno studio randomizzato su oltre 700 partecipanti arruolati in quattro paesi africani tra il 2013 e il 2016:
• solo per via orale: fluconazolo più flucitosina per due settimane;
• una settimana: amfotericina B più flucitosina, oppure fluconazolo per sette giorni, seguito da ulteriori sette giorni di terapia con fluconazolo.
• due settimane: amfotericina B più flucitosina, oppure fluconazolo per 14 giorni.
Quando associata all’amfotericina B, la flucitosina è risultata di superiore efficacia rispeto al fluconazolo. Il regime con amfotericina B più flucitosina per una settimana è stato quello con il minor tasso di mortalità a dieci settimane (24%).
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Abstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza
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