LOTTA ALL’HIV
TERZO BOLLETTINO
Sarà avviato entro l’anno un nuovo studio su un vaccino per l’HIV
Inizierà il prossimo autunno un ampio trial clinico su un vaccino per l’HIV che coinvolgerà 2600 giovani donne in Sudafrica, Zambia, Zimbabwe, Malawi e Mozambico, è stato annunciato alla 9° Conferenza dell’International AIDS Society.
Questo nuovo studio indagherà sicurezza ed efficacia di un vaccino sperimentale denominato HVTN 705, che consta di due somministrazioni del vettore adenovirale ad26. Gli adenovirus sono una famiglia di virus piuttosto comune, nota principalmente perché causa di malattie come il raffreddore – anche se il vettore dovrebbe essere innocuo da questo punto di vista. Seguono due ulteriori somministrazioni dell’adenovirus e un booster della proteina dell’involucro gp 140.
I risultati degli studi preliminari fanno sperare che il vaccino possa provocare un’efficace risposta immunitaria anti-HIV.
Malgrado i grandi passi avanti compiuti in termini di cure e trattamento per l’HIV, c’è ancora urgente bisogno di un vaccino, è stato ribadito alla Conferenza.
I ricercatori confidano di essere sulla buona strada per arrivare alla messa a punto di un vaccino. È già in corso anche un altro ampio studio su un vaccino sperimentale denominato HVTN 702.
La ricercatrice sudafricana Glenda Gray ha dichiarato: “Ho la sensazione che abbiamo raggiunto un momento cruciale nella ricerca di un vaccino contro l’HIV”.
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L’OMS raccomanda di iniziare la ART entro una settimana dalla diagnosi di HIV
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha emanato nuove linee guida in cui si raccomanda che a chiunque riceva una nuova diagnosi di HIV venga offerta la possibilità di iniziare la terapia antiretrovirale (ART) entro una settimana. Chi si sente pronto dovrebbe essere messo in condizione di iniziare ad assumere i farmaci addirittura il giorno stesso della diagnosi.
Le nuove raccomandazioni si basano sui risultati di uno studio secondo cui iniziando il trattamento il giorno della diagnosi c’erano maggiori probabilità di rimanere in cura e di ottenere l’abbattimento della carica virale dopo 12 mesi.
Ma ulteriori ricerche presentate questa settimana alla Conferenza hanno evidenziato quanto sia importante, in questi casi, un’adeguata preparazione del paziente. In uno studio svolto in Uganda, infatti, si è riscontrato che chi iniziava il trattamento lo stesso giorno della diagnosi era notevolmente più soggetto ad abbandonare il percorso terapeutico rispetto a chi invece attendeva qualche giorno o settimana.
“L’inizio della ART, soprattutto molto a ridosso della diagnosi, deve essere preceduto e supportato da un intenso counselling”, ha sottolineato uno degli autori dello studio.
Uno studio separato condotto a Città del Capo evidenzia un’associazione tra il grado di informazione sulla ART da parte del paziente e il suo sentirsi pronto a intraprendere le terapie. Un altro fattore che contribuisce a preparare meglio il paziente è conoscere qualcuno la cui salute è migliorata proprio grazie alla ART. Gli autori hanno inoltre rilevato che, per preparare il paziente a un inizio così subitaneo delle terapie, è importante affrontare le preoccupazioni dei pazienti in buone condizioni di salute circa i possibili effetti collaterali dei farmaci.
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La PrEP resta efficace anche con l’uso intermittente
Dall’analisi dei risultati di un ampio studio sulla profilassi pre-esposizione (PrEP) emerge che i farmaci hanno mantenuto la loro efficacia preventiva contro l’HIV anche quando assunti in modo intermittente.
I risultati dello studio Ipergay avevano già dimostrato che le probabilità di contrarre l’infezione da parte di gay e altri uomini che fanno sesso con uomini calavano drasticamente con l’assunzione della PrEP.
Questo studio, invece, mirava specificamente a investigare l’uso intermittente (detto anche ‘on demand’) della PrEP – ossia un uso mirato, solo a ridosso di quando si prevede di avere rapporti sessuali. Il regime di trattamento consisteva nell’assunzione di una doppia dose di PrEP nelle 24 ore precedenti un rapporto presumibilmente a rischio, e di una dose singola ognuno dei due giorni seguenti.
Molti dei partecipanti allo studio, tuttavia, assumevano i farmaci così spesso che erano di fatto in PrEP continua.
I ricercatori si sono allora concentrati sul rischio di infezione tra gli uomini che usavano la PrEP in modo effettivamente intermittente. Ne è risultato che nessuno di loro ha contratto l’infezione, e una rigorosa analisi statistica dei dati sembra indicare che l’uso intermittente sia efficace tanto quanto quello continuo.
“Il nostro contributo, pur essendo un substudio con un numero di ore/persona limitato, va ad aggiungersi alla mole di evidenze già disponibili sull’efficacia della PrEP intermittente”, ha commentato uno degli autori.
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Verso l’obiettivo 90-90-90: gap nella diagnosi per giovani e uomini
Malawi, Zambia e Zimbabwe hanno tassi molto elevanti di copertura delle terapie antiretrovirali (ART) e soppressione virale, ma per raggiungerel’obiettivo 90-90-90 c’è ancora molto lavoro da fare per aumentare l’adesione al test HIV.
Alla Conferenza sono stati presentati studi condotti in tutti e tre i paesi sopracitati, da cui è emerso che i giovani erano in generale la fascia di popolazione con più probabilità di ignorare di avere un’infezione da HIV, mentre tra gli adulti questa probabilità era più elevata tra gli uomini piuttosto che tra le donne.
Uno studio condotto nello Zambia nel 2016 ha evidenziato che, tra le persone consapevoli del loro stato di positività all’HIV, l’85% assumeva la ART; di queste, l’89% aveva ottenuto l’abbattimento della carica virale. Ma soltanto due terzi della popolazione zambiana che si stima abbia un’infezione da HIV è consapevole del proprio stato sierologico, e le donne lo sono più degli uomini (68 contro 62%).
Sostanzialmente simile è risultata la situazione dello Zimbabwe. Un’indagine del 2015-16 ha riscontrato che il 73% delle infezioni stimate è diagnosticato; tra le persone consapevoli di avere un’infezione da HIV, l’87% era in terapia e di queste un altro 87% aveva raggiunto valori non rilevabili di carica virale. Gli individui al di sotto dei 35 anni avevano probabilità decisamente più elevate di non essere consapevoli del proprio stato sierologico rispetto a quelli di età più avanzata, e gli uomini avevano quasi il doppio delle probabilità rispetto alle donne.
Da un’indagine condotta nel 2016 sulle donne in Malawi, infine, è emerso che è diagnosticato il 73% delle infezioni stimate; ma la consapevolezza dello stato sierologico variava notevolmente a seconda dell’età, passando dal picco dell’80% nelle over-35 a un mero 42% nella fascia compresa tra i 16 e i 19 anni. Dati simili sono stati osservati anche per quanto riguarda i tassi di adesione al trattamento e soppressione virale.
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Inibitore dell’integrasi sicuro anche in gravidanza
Due studi separati indicano che l’assunzione di un regime antiretrovirale contenente un inibitore dell’integrasi sarebbe sicura anche in gravidanza.
Gli inibitori dell’integrasi sono ampiamente impiegati nella terapia di prima linea. Quelli presentati alla Conferenza sono i due primi ampi studi volti a indagare la sicurezza di raltegravir e dolutegravir durante la gravidanza.
Il primo studio, condotto nel Botswana, non ha evidenziato sostanziali differenze nei tassi di eventi avversi alla nascita in donne trattate con due regimi, uno a base di dolutegravir e uno a base di efavirenz. Anche i tassi di parti pre-termine sono risultati comparabili, così come il rischio che il bambino nascesse sottopeso.
Uno studio separato condotto da ricercatori francesi ha invece testato la sicurezza dell’assunzione di raltegravir da parte di donne in gravidanza. I medici hanno esaminato 479 bambini esposti a raltegravir in utero tra il 2009 e il 2015, non trovando tracce di correlazione tra il farmaco e difetti alla nascita.
Le gravidanze esitate in feto nato morto e aborti spontanei tardivi sono risultate rare (1 e 0,4%, rispettivamente). I parti pre-termine si sono attestati al 14% dei parti totali. Si sono inoltre verificati due eventi di infezione perinatale da HIV.
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Il test fai-da-te
L’offerta dei test per l’autodiagnosi, i cosiddetti autotest o test fai-da-te, possono essere un utile strumento per raggiungere anche le persone più riluttanti a sottoporsi al test tradizionale: è quanto si evince da un’indagine condotta nello Zambia.
Nello studio è stato osservato che l’inclusione del test fai-da-te all’interno di un programma di offerta del test porta-a-porta ha determinato un aumento dei tassi di adesione da parte di gruppi di popolazione storicamente difficili da raggiungere, come gli individui di sesso maschile e i giovani, ma anche da parte di persone che si erano precedentemente rifiutate di eseguire il test.
L’autodiagnosi è gradita soprattutto da persone per cui costituiscono un problema i tempi di attesa nelle strutture mediche, oppure da chi teme lo stigma, ma i partecipanti hanno percepito la soluzione fai-da-te come vantaggiosa anche in termini di riservatezza, controllo e praticità.
Gli autori sperano che l’autotest possa rappresentare una soluzione per coinvolgere gruppi tradizionalmente restii a sottoporsi al test come i lavoratori maschi e le popolazioni girovaghe.
Un altro studio si è concentrato invece sull’impatto sull’adesione al test della distribuzione secondaria di kit per il test fai-da-te, per esempio dandoli alle donne da passare ai loro partner maschili, o sperimentando la distribuzione tra amici.
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Abstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza
Nuovi modelli di cura dell’HIV: diradare le visite mediche
Le visite mediche più diradate nel tempo sono meno scomode da rispettare per le persone che necessitano di cure per l’HIV, e inoltre consentono agli operatori sanitari di avere più tempo libero: sono le conclusioni di alcuni studi presentati alla Conferenza.
Gli studi hanno preso in considerazione le prescrizioni di terapia antiretrovirale (ART) a più mesi, in cui cioè i pazienti ricevevano la prescrizione per un quantitativo di farmaci sufficiente per svariati mesi, anziché doversi presentare ogni trenta giorni per una nuova prescrizione. È emerso tuttavia che non per tutti i pazienti è consigliabile recarsi dal medico meno frequentemente, e che sono ancora necessari dei perfezionamenti perché questo sistema funzioni senza problemi.
Nel Malawi, sono stati considerati eleggibili per la prescrizione a più mesi i pazienti in terapia antiretrovirale da almeno sei mesi con carica virale inferiore alle 1000 copie/ml e buoni livelli di aderenza terapeutica. Un’indagine condotta presso i centri medici locali, tuttavia, ha evidenziato che anche il 40% dei pazienti non eleggibili ricevevano comunque prescrizioni sufficienti per svariati mesi. Oltre il 75% dei pazienti tecnicamente ineleggibili che usufruivano comunque delle prescrizioni a più mesi presentavano una carica virale superiore alle 1000 copie/ml, e il 39% non era in terapia da abbastanza tempo. La mancata conoscenza del sistema è stata la ragione principale per cui i pazienti ineleggibili hanno ricevuto questo tipo di trattamento o per cui, al contrario, pazienti tecnicamente eleggibili non hanno avuto la possibilità di usufruirne.
Un altro studio ha indagato invece l’impatto delle prescrizioni a più mesi nei pazienti più giovani. Sono stati raccolti dati su 15.000 bambini e adolescenti siti in sei paesi africani. I pazienti passati al nuovo sistema dovevano presentarsi dal medico ogni 60 giorni, contro i 39 giorni del sistema standard. Tra i pazienti passati al nuovo sistema si sono registrati risultati positivi.
Un’altra soluzione per ridurre la frequenza delle visite presso le strutture mediche è rendere possibile il ritiro delle prescrizioni presso le sedi delle associazioni attive sul territorio. Tuttavia, i pazienti che hanno continuato a recarsi dal medico per ottenere la prescrizione avevano più probabilità di restare in cura e di raggiungere la soppressione virale rispetto a quelli che sfruttavano invece questo canale alternativo.
27/7/2017 www.lila.it/it
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