LOTTA ALL’HIV
QUARTO BOLLETTINO
PrEP per le adolescenti del Sudafrica
Nell’Africa sub-sahariana, il 23% di tutte le nuove infezioni da HIV si registrano tra nelle giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni. Le ragazze sono molto più vulnerabili all’HIV rispetto ai loro coetanei maschi. Nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 19 anni, in Sudafrica, i maschi affetti da HIV sono lo 0,7%, mentre tra le femmine si raggiunge il 5,6%. Nella fascia tra i 20 e i 24 anni, invece, i dati si attestano al 5,1% per i maschi contro il 17,4% delle femmine. Senza contare che in alcune parti del paese la prevalenza è ancora più elevata.
In Africa meridionale c’è dunque urgente bisogno di strategie di prevenzione che risultino sufficientemente accettabili per i giovani, e specialmente per le giovani. L’offerta della profilassi pre-esposizione (PrEP) è una delle opzioni attualmente al vaglio in svariati paesi.
Da uno dei primi studi volti a indagare accettabilità, sicurezza e impiego della PrEP tra le adolescenti in Africa risulta che si tratta di un’opzione sicura e ben tollerata, anche se nel corso dei 12 mesi del programma sono stati osservati cali in termini di impiego e aderenza.
Presentando i risultati del progetto PlusPills alla 9° Conferenza internazionale sull’HIV dell’International AIDS Society (IAS 2017) in corso questa settimana a Parigi, Katherine Gill della Desmond Tutu HIV Foundation ha spiegato che le adolescenti sudafricane hanno bisogno di avere un accesso alla PrEP coadiuvato da interventi mirati di counseling per l’aderenza e frequenti visite mediche, aggiungendo che anche i regimi a ridotta frequenza di somministrazione, se convalidati, potrebbero essere un’opzione interessante per questo gruppo di popolazione.
Yogan Pillay del Dipartimento Nazionale per la Sanità del Sudafrica ha riferito di cinque studi dimostrativi che hanno già fornito dati preliminari sulle modalità più efficaci per un’offerta della PrEP più mirata sulle adolescenti e le giovani donne.
L’adesione alla PrEP è risultata molto variabile da uno studio all’altro e a seconda del contesto sociale da cui provenivano le ragazze, venendo accettata in percentuali che oscillavano tra il 36 e il 98%. Anche nei dati su continuità d’impiego e aderenza si sono osservate differenze notevoli: la percentuale di partecipanti che riferivano di assumere costantemente la PrEP o che presentavano sufficienti livelli ematici di farmaci variava infatti dal 40 al 70%.
Dall’esperienza, finora, emerge la necessità di adottare un approccio improntato alla flessibilità nei programmi di offerta di PrEP ad assunzione orale mirati alle giovani sudafricane. Sono ragazze che vivono in contesti molto diversi tra loro, e di conseguenza la PrEP non è uno strumento di prevenzione di uguale efficacia per tutte.
Uno dei problemi più ricorrenti per le giovani partecipanti, e una delle ragioni principali di interruzione nell’assunzione dei farmaci, è stata la paura degli effetti collaterali. Tra gli altri motivi addotti, le ragazze hanno dichiarato che non gradivano le dimensioni o il sapore della pillola, o ancora che semplicemente si dimenticavano di assumerla ogni giorno.
Pillay ha sottolineato che il ricorso alla PrEP e l’aderenza da parte di queste ragazze dipendono strettamente dagli sforzi compiuti per fare informazione all’interno delle loro comunità. È necessario dunque combattere lo stigma legato all’attività sessuale delle giovani e legittimare la PrEP come forma di prevenzione. I genitori o le altre figure di riferimento delle ragazze hanno un’influenza fondamentale nella loro decisione di assumere la PrEP.
Il governo sudafricano spera di mettere a disposizione la PrEP presso le cliniche presenti negli atenei universitari e negli istituti di istruzione superiore e di formazione professionale, oltre che nei centri di pianificazione familiare. Occorre fare ogni sforzo perché il personale di tali cliniche sappia comportarsi con la sensibilità necessaria in materia di PrEP e non stigmatizzi coloro che ne fanno uso, ha aggiunto Pillay.
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PrEP per via iniettiva
Una formulazione iniettabile a base di cabotegravir da assumere ogni 8 settimane è in grado di mantenere livelli ematici sufficienti a offrire protezione dall’HIV sia negli uomini che nelle donne: lo attestano i risultati dello studio HPTN 077, presentato alla Conferenza. È stato invece abbandonato un altro farmaco candidato al trattamento per via iniettiva, la rilpivirina ad azione prolungata.
L’efficacia dei farmaci antiretrovirali per la profilassi pre-esposizione (PrEP) è fortemente dipendente dall’aderenza. Per alcune persone è più facile assumerli regolarmente se basta andare a farsi un’iniezione ogni mese o due, piuttosto che doversi ricordare di prendere le pillole ogni giorno o anche solo quando prevedono di avere rapporti sessuali.
Lo studio HPTN 077 sta indagando sicurezza, tollerabilità ed accettabilità di un inibitore dell’integrasi sperimentale, il cabotegravir ad azione prolungata, pensato per la somministrazione per via iniettiva. Essendo uno studio di fase 2a, non si prefigge invece di valutarne l’efficacia a livello di prevenzione. (Alla Conferenza sono stati però presentati dati molto promettenti sul cabotegravir ad azione prolungata nelle terapie antiretrovirali.)
La somministrazione avviene una volta ogni otto settimane, per iniezione intramuscolare. Le iniezioni sono risultate ben tollerate: soltanto un partecipante su un totale di 199 ha abbandonato lo studio a causa di una reazione nel sito di iniezione.
Malgrado, come detto, lo studio non mirasse a stabilire l’efficacia preventiva del cabotegravir, va segnalato che nessuno dei partecipanti ha contratto l’HIV nel periodo in cui ricevevano iniezioni regolari. Solo in uno di essi si è osservata una sieroconversione 48 settimane dopo che aveva eseguito l’ultima iniezione, quando ormai i livelli ematici del farmaco erano irrilevabili.
È ora in corso uno studio più ampio, denominato HPTN 083, volto a raffrontare l’efficacia per la profilassi pre-esposizione del cabotegravir somministrato per iniezione con quella del Truvada (tenofovir/emtricitabina) assunto per via orale.
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I costi di produzione dei farmaci di prima linea per HIV, epatiti virali e tubercolosi non superano i 90 dollari: perché pagare di più?
I trattamenti per HIV, epatite B e C e tubercolosi potrebbero costare meno di 90 dollari all’anno l’uno, avendo la possibilità di utilizzare farmaci generici, ha riferito alla Conferenza Dzintars Gotham dell’Imperial College di Londra.
È quanto risulta da un’analisi dei prezzi delle materie prime utilizzate nei farmaci necessari al trattamento di ognuna di queste tre patologie e i costi di produzione di ogni prodotto.
L’indagine ha evidenziato che con soli 78 dollari statunitensi è possibile produrre una quantità sufficiente per un anno della combinazione di tenofovir, emtricitabina ed efavirenz utilizzata nella terapia antiretrovirale di prima linea; la produzione di un ciclo di trattamento per l’epatite C può invece costare tra i 47 e i 79 dollari.
Anche se i costi delle terapie anti-HIV sono drasticamente calati da quando, nel 2001, in India è iniziata la produzione di versioni generiche dei farmaci antiretrovirali, a causa di vincoli brevettuali questi farmaci non sono ancora disponibili in tutti i paesi. Nei prossimi anni, però, giungeranno a scadenza le coperture brevettuali di alcuni dei farmaci chiave impiegati nelle terapie antiretrovirali e sarà dunque possibile il ricorso ai generici.
Per raggiungere gli obiettivi globali di copertura del trattamento HIV e di soppressione virale, di eradicazione dell’epatite C e riduzione dell’incidenza di tubercolosi e tubercolosi farmaco-resistente, sarà necessario ampliare notevolmente il bacino di pazienti trattati per ognuna di queste patologie. L’abbattimento dei costi dei medicinali è dunque un fattore chiave per rendere economicamente sostenibile l’attuazione di ampi programmi di trattamento per HIV ed epatiti virali.
I trattamenti saranno meno onerosi man mano che scadranno i brevetti e sempre più paesi saranno in grado di ottenere equivalenti generici per i farmaci impiegati per trattare HIV ed epatite virale, hanno detto gli studiosi. Anche laddove sono ancora in vigore i brevetti, la consapevolezza dei reali costi di produzione dovrebbe consentire ai governi di pretendere dalle case farmaceutiche prezzi più abbordabili, concordano gli oratori che hanno preso parte a un simposio dedicato alla questione dei prezzi dei farmaci.
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Circoncisione medica maschile: quali benefici per le donne?
È ormai assodato che la circoncisione è in grado di proteggere gli uomini dall’infezione da HIV; scarseggiano invece le evidenze riguardo gli eventuali benefici per le donne. Quasi dieci anni fa, una meta-analisi non aveva trovato elementi per ritenere che la circoncisione maschile potesse ridurre il rischio di contrarre l’HIV anche per le donne.
In uno studio presentato alla Conferenza di Parigi e condotto su un gruppo di donne sudafricane il cui partner sessuale più recente era circonciso, è risultato però che le partecipanti erano meno soggette all’infezione, il che lascia supporre che i programmi per la circoncisione medica maschile effettivamente giovino anche alle donne.
I dati evidenziano nelle donne con partner circonciso un rischio ridotto di papillomavirus umano, ulcere genitali, herpes simplex di tipo 2, sifilide, vaginosi batterica e T vaginalis, probabilmente a causa del fatto che il cambiamento nell’anatomia del partner maschile rende meno probabile la trasmissione di questi agenti virali.
Nel caso dell’HIV, tuttavia, è più verosimile che la circoncisione porti alle donne dei benefici indiretti, riducendo in generale la prevalenza HIV negli uomini sottoposti all’intervento.
Il nuovo studio è stato condotto su un campione di uomini e donne siti nella provincia del KwaZulu-Natal, in Sudafrica, e ha riscontrato tassi di HIV meno elevati nelle donne con partner circonciso (42%) rispetto a quelle con partner non circonciso (54%). Incrociando questo dato con altri fattori, l’analisi dei risultati mostra che le donne con partner circonciso avevano il 30% di probabilità in meno di contrarre l’HIV. Queste donne sono inoltre risultate meno soggette all’herpes simplex di tipo 2.
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Effetti collaterali degli antiretrovirali di uso comune
Il tenofovir disoproxil è uno degli antiretrovirali più frequentemente impiegati nel trattamento dell’infezione da HIV, e proprio per questa ragione i suoi effetti collaterali – rari ma importanti – possono potenzialmente colpire un elevato numero di pazienti.
Occorre per esempio tenere sotto stretto monitoraggio la funzionalità renale dei pazienti che assumono tenofovir, soprattutto se in combinazione con ritonavir, è stato sottolineato questa settimana alla Conferenza.
La sindrome di Fanconi è una particolare insufficienza renale causata dall’eccessiva perdita di alcune sostanze che normalmente dovrebbero essere riassorbite dall’organismo e che invece vengono espulse attraverso le urine, come fosfati (costituenti delle ossa), amminoacidi e bicarbonato, il che causa un pericoloso innalzamento dell’acidità nel flusso ematico (acidosi).
Il dott. Nicholas Medland della Monash University di Melbourne, Australia, ha riferito alla Conferenza che la sindrome di Fanconi è risultata un effetto collaterale “poco comune, ma non raro”, con l’1,25% dei partecipanti al suo studio (un paziente su 80) che l’aveva sviluppata nell’arco di un decennio. Il dato più importante è che la sindrome può comparire inaspettatamente anche in pazienti non considerati a rischio di malattia renale.
In alcuni studi il tenofovir è stato anche associato alla perdita di densità ossea. Tuttavia, Dominique Costagliola dell’ente nazionale francese di ricerca INSERM ha dichiarato di non aver rilevato associazioni tra il tenofovir o altri antiretrovirali e rischio di fratture del tipo normalmente correlato a una ridotta densità ossea.
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Trattamento della coinfezione con il virus dell’epatite C: l’opzione pangenotipica
Un nuovo regime pangenotipico di AbbVie a base di glecaprevir e pibrentasvir è risultato in grado di eliminare il virus dell’epatite C (HCV) in quasi tutti i pazienti con coinfezione HIV/epatite C che hanno preso parte allo studio EXPEDITION-2, è stato riferito durante la relativa presentazione alla Conferenza.
Il trattamento si è dimostrato altamente efficace, con il 98% dei partecipanti che presentava una carica virale HCV RNA stabilmente irrilevabile alla 12° settimana dal termine del trattamento (SVR12).
Entro agosto si attende l’approvazione del glecaprevir/pibrentasvir (Maviret) da parte della Food and Drug Administration degli Stati Uniti. Nel frattempo la combinazione ha già ricevuto parere positivo dal Comitato per i prodotti medicinali a uso umano (CHMP) dell’Agenzia Europea per i medicinali (EMA) e dovrebbe essere autorizzato all’immissione sul mercato nell’Unione Europea nei prossimi mesi.
“Questi risultati fanno pensare che il regime a base di glecaprevir/pibrentasvir possa essere ideale come opzione di trattamento pangenotipico per le prime otto settimane nei pazienti con coinfezione HCV/HIV-1 non affetti da cirrosi”, hanno concluso gli autori.
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