Lotta No Tav: ricordare Venaus in tempi di repressione
Quando le ricorrenze politiche e di movimento celebrano momenti lontani nel tempo c’è sempre il rischio che la memoria si offuschi e che non si ricordi esattamente cosa stiamo celebrando. Probabilmente qualcun* tra chi legge non ricorda cosa fu esattamente l’8 dicembre 2005 in Val di Susa e potrebbe faticare a comprendere perché sia ancora oggi così centrale nella lotta che da quasi trent’anni continua nella valle piemontese.
Al tempo, l’opposizione al raddoppio della Torino-Lione si concentrava nel piccolo comune di Venaus, giusto a qualche chilometro e un paio di tornanti di distanza da Susa. Lì vi era un presidio permanente nella piana che conduce al paese perché proprio a Venaus dovevano avere inizio i lavori della nuova linea ferroviaria, secondo il progetto del tempo.
Nella notte del tra il 5 e il 6 dicembre 2005 uno schieramento imponente di forze dell’ordine sgomberò violentemente il presidio, svegliando presidianti nelle tende a colpi di manganello e venne recintata l’area.
Il movimento No Tav convocò allora un corteo nazionale per due giorni dopo, l’8 dicembre. In quella gelida giornata – a un certo punto iniziò pure a nevicare – una manifestazione popolare di proporzioni incredibili e mai viste fino ad allora in valle, riusci ad abbattere le recinzioni, riprendersi la terra e fare allontanare in modo definitivo le forze dell’ordine. Il presidio di Venaus oggi continua a esistere su quello stesso pezzo di terra. Il progetto si interruppe per qualche anno, ma non venne cancellato, da nessuno governo di qualsivoglia colore.
Quando tornò alla ribalta, alcuni anni dopo, il raddoppio della linea aveva già un altro tracciato. La piana di Venaus era stata considerata un luogo non difendibile e si scelse di costruire il tunnel esplorativo alla Maddalena in Val Clarea, qualche chilometro più su di Venaus. La Clarea è un punto molto più difficile da presidiare perché impervio e molto più agevole invece da difendere da parte delle forze dell’ordine.
Sono passati quindici anni e l’opposizione al Tav continua, perché è continuata la perversione con cui lo Stato ha deciso di imporre quest’opera inutile e devastante e perché il movimento ha saputo evolversi, includere, allargarsi e inventare nuove forme di opposizione.
I giovani che hanno tenacemente animato il presidio dei Mulini di durante l’estate 2020 probabilmente nel 2005 erano alle elementari eppure la storia della valle si costruisce anche grazie a quello che si tramanda di generazione in generazione, da un presidio all’altro.
A quindici anni da quei fatti è innegabile la capacità di resistenza dei valligiani che permette al movimento di essere oggi vivo e proattivo, supportato pure da chi da tutta Italia si è recato costantemente in valle per sostenere la lotta. È altrettanto innegabile che la scure della repressione giudiziaria da parte della Procura di Torino si stia abbattendo duramente sul movimento proprio in questi giorni.
Non è certo la prima volta che accade, basti pensare alle pene inizialmente chieste per il maxi processo per i fatti del 3 luglio 2011, o alle teorie giudiziarie che accusarono per mesi di terrorismo chi aveva fatto bruciare un compressore al cantiere di Chiomonte.
Tuttavia in questo caso colpisce l’accanimento fino alla condanna definitiva per un “reato” inesistente, un casus belli che è quasi ridicolo, che farebbe sorridere se non fosse tragicamente motivo di detenzione per così tante persone. Era il 3 marzo 2012 e da giorni si manifestava a seguito della caduta da un pilone ad alta tensione di Luca Abbà, rincorso dai carabinieri e in quel momento in pericolo di vita.
Il movimento No Tav presidiò allora in modo pacifico un casello dell’autostrada Torino-Bardonecchia, lasciando le macchine transitare senza pedaggio per qualche minuto e poi distribuendo volantini e parlando al megafono. Un’azione popolare, nonviolenta, a viso scoperto, simile a decine di iniziative di protesta di questo tipo.
Per quei fatti Nicoletta Dosio ha trascorso 11 mesi di detenzione, in parte in carcere, in parte ai domiciliari. Dana Lauriola è in carcere con una sentenza di due anni perché è stata considerata una aggravante la sua scelta di rimanere parte del movimento e scegliere di vivere a Bussoleno.
In questi giorni sono scattati i domiciliari con condanne elevate anche per Stella, Mattia e Fabiola, mentre gli altri attivisti e attiviste identificate in quella manifestazione sono in messa in prova presso i servizi sociali.
È evidente che la Procura di Torino non stia punendo un reato (tra l’altro, i soldi persi per mancati introiti dell’autostrada sono già stati restituiti, meno 800 euro). La Procura sta accanendosi in modo simbolico contro le idee che i No Tav hanno sempre portato avanti con coraggio e determinazione – e le motivazioni per il rifiuto alle pene alternative per Dana ne sono una riprova.
La realtà che rischiamo di dimenticare è che normalmente sono regimi totalitari come Turchia o Egitto quelli che reprimono con il carcere le persone per le proprie idee difese in modo nonviolento come è il caso dell’azione al casello. Al momento dell’arresto di Dana più voci si erano levate in protesta, inclusa quella di Amnesty International.
Oggi, con i domiciliari di Fabiola, Mattia e Stella la reazione è purtroppo molto più silenziosa, mentre la gravità di questa persecuzione giudiziaria dovrebbe interessare tutte e tutti perché, quando riduci violentemente lo spazio di espressione democratica per qualcuno, permetti che un domani possa accadere per chiunque.
Nel frattempo anche se il cantiere di Chiomonte è pressoché fermo, avanzano le procedure per iniziare opere accessorie quali il nuovo autoporto di San Didero oggetto di presidi e mobilitazioni in quest’ultimo anno, mentre Conte ha già chiesto che tra i progetti da finanziare con il Recovery Fund dell’Unione Europea vi sia il raddoppio della Torino-Lione
In questo contesto indubbiamente ostile, aggravato dalla pandemia che limita gli spostamenti, il movimento No Tav ha comunque organizzato un programma di iniziative e proteste significativo, tra il cantiere di Chiomonte, e il presidio di San Didero. Mentre si avvicina un nuovo anno di lotta e resistenza appare sempre più chiaro perché lo Stato non voglia permettere alla lotta No Tav di vincere.
La repressione ha luogo perché il sistema di valori quali socialità, democrazia dal basso, ambiente, tutela del territorio, che il movimento rappresenta non è compatibile con il sistema economico sociale e politico in cui viviamo.
Per questo si punisce con il carcere per aver fatto un presidio a un casello di autostrada: per riuscire a punire chi lotta per una idea di vita e di società differente. Proprio per questa ragione, la resistenza in valle è antitetica a una qualsiasi lotta “nimby”, circoscritta cioè a interessi egoistici e locali, ma riguarda invece la vita di tutte e tutti noi, oggi come 15 anni fa.
Riccardo Carraro
8/12/2020 https://www.dinamopress.it
Immagine di copertina da Notav.info
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