L’uccisione delle persone con disabilità primo capitolo della “soluzione finale”
Ormai da molti anni «Superando.it» dedica ampio spazio allo sterminio delle persone con disabilità durante il regime nazista e nel corso della seconda guerra mondiale, tramite quello che venne definito come il Programma Aktion T4, terribile “prova generale”, ma anche primo capitolo della cosiddetta “soluzione finale”, nei confronti della popolazione ebraica e di tante altre persone. Si tratta di un tema che seguiamo in occasione della Giornata della Memoria del 27 gennaio, ma anche in vari altri momenti. In tal senso, segnaliamo ad esempio una delle migliori ricostruzioni, da noi pubblicata qualche anno fa, quale quella curata da Stefania Delendati, con il titolo di Quel primo Olocausto.
Oggi diamo spazio ad un’altra ottima ricognizione, opera di Domenico Massano, che spiega appunto come «l’omicidio delle persone con disabilità, oltre ad essere stato il primo, sia stato con buona probabilità è servito anche il modello e la “prova generale” per i successivi».
Il genocidio nazista non si è verificato in un vuoto. Esso fu soltanto il metodo più radicale per escludere alcune classi umane dalla comunità nazista tedesca. La linea politica di esclusione seguì e si sviluppò nel corso di oltre cinquant’anni di opposizione scientifica all’eguaglianza fra gli uomini (H. Friedlander, Le origini del genocidio nazista. Dall’eutanasia alla soluzione finale, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 3).
Nel 1920 apparve un libro dal titolo L’autorizzazione all’eliminazione delle vite non più degne di essere vissute, in cui gli autori, Alfred Hoche (1865-1943), uno psichiatra, e Karl Binding (1841-1920) un giurista, svilupparono un concetto di “eutanasia sociale”: il malato incurabile, secondo Hoche e Binding, era da considerarsi non soltanto portatore di sofferenze personali, ma anche di sofferenze sociali ed economiche. Da un lato il malato provocava sofferenze nei suoi parenti e, dall’altro, sottraeva importanti risorse economiche che sarebbero state più utilmente utilizzate per le persone sane. Lo Stato, dunque, arbitro della distribuzione delle ricchezze, doveva farsi carico del problema che questi malati rappresentavano. Ucciderli avrebbe così ottenuto un duplice vantaggio: porre fine alla sofferenza personale e consentire una distribuzione, più razionale e utile, delle risorse economiche (1). Tuttavia, la motivazione economica non appariva ancora sufficiente per passare dalla teorizzazione alla pratica della soppressione delle «vite indegne di essere vissute». Il nazismo avrebbe completato le teorie “economiche” aggiungendovi il suo progetto razziale.
Già al tempo della pubblicazione del Mein Kampf, fra il 1924 e il 1926, Hitler aveva dichiarato che la sacra missione razziale del popolo tedesco era quella di «raccogliere e conservare […] i più preziosi fra gli elementi originari di razza e […] di sollevarli con lentezza, ma in modo sicuro, in una posizione di predominio». Hitler fu chiarissimo sulla necessità della sterilizzazione («i mezzi medici più moderni»), a sostegno di una visione immortalizzante della razza mediata dallo Stato («un futuro millenario»). Per lui il rischio era assoluto: «Se non è più presente la forza per lottare per la propria salute, cessa il diritto di vivere in questo mondo di lotta» (2).
Il nazismo predicava un progetto di “igiene della razza” su base “eugenetica”, vale a dire coltivava l’idea di ottenere un miglioramento della “razza” germanica coltivando e favorendo i caratteri ereditari favorevoli, “eugenici”, e impedendo lo sviluppo dei caratteri ereditari sfavorevoli, “disgenici”. All’interno di questo progetto non trovavano ovviamente posto i malati incurabili e le persone con disabilità o con disturbi psichici. Queste persone erano sostanzialmente una minaccia non soltanto per l’economia tedesca, ma, cosa ancor più grave, un terribile pericolo di degenerazione per la razza tedesca nel suo complesso. È opportuno, però, ricordare che se «l’eugenetica condusse, a lunga scadenza agli orrori dell’olocausto hitleriano», questa deriva criminale trovò il suo “humus vitale” nella teorizzazione e nell’istituzionalizzazione dell’eugenetica in moltissimi Paesi democratici (Stati Uniti, Svezia, Svizzera…) (3).
Il movimento nazionalsocialista giunse al potere nel gennaio del 1933, con la nomina di Hitler come Cancelliere da parte del Presidente del Reich. Il 14 luglio 1933 fu promulgata la legge sulla sterilizzazione, con il macchinoso nome di Legge per la prevenzione di nuove generazioni affette da malattie ereditarie. Tale norma aprì l’offensiva contro le persone con disabilità e servì da pietra angolare per la legislazione eugenetica e razziale del regime. Alle politiche di sterilizzazione furono affiancate politiche di eugenetica positiva, ossia d’incoraggiamento e promozione delle nascite ritenute “positive” per il regime.
Relativamente a queste misure promozionali di soggetti “puri”, è doveroso ricordare il progetto Lebensborn o “Fonte della vita”. Himmler aveva dato vita a questo istituto al fine di «creare nelle SS […] un’élite biologica, un nucleo razziale da cui la Germania potesse attingere per rinvigorire un’eredità ariana ora pericolosamente diluita attraverso generazioni di mescolanza razziale».
Nell’ambito del progetto nazista che doveva sfociare nell’omicidio delle “vite non degne di essere vissute”, un’attenzione particolare venne dedicata alla preparazione dell’opinione pubblica fin dagli Anni Trenta, attraverso un oculato e mirato programma propagandistico. Le organizzazioni naziste prepararono opuscoli, poster e film, dove si mostrava il costo di mantenimento degli istituti medici preposti alla cura dei malati incurabili, e in cui si affermava che il denaro risparmiato poteva essere speso con più profitto per il “progresso” del popolo tedesco “sano”.
Nel 1939, secondo quanto testimoniato dal dottor Brandt al processo di Norimberga, il padre di un bambino, di nome Knauer, si rivolse alla Cancelleria del Fuhrer (KdF), pregandolo di autorizzarlo a ricorrere all’eutanasia: «Hitler mi incaricò di occuparmi di quella faccenda e di partir subito per Lipsia, per costatare sul luogo se le cose che gli erano state dette rispondevano a verità. Si trattava di un bambino che era nato cieco e sembrava idiota, e a cui inoltre mancavano una gamba e parte di un braccio […]. I medici sostennero che mantenere in vita un bambino simile era veramente ingiustificato. Qualcuno osservò che era più che naturale che negli istituti di maternità, in casi simili, i medici stessi di propria iniziativa somministrassero loro l’eutanasia, senza star tanto a discutere» (4). Brandt, dopo il consulto con i medici, fece uccidere il bambino.
In seguito al “Caso Knauer”, Hitler autorizzò Philipp Bouhler, direttore della Cancelleria del Fuhrer, e Karl Brandt, a istituire un programma di soppressione dei bambini portatori di difetti fisici e/o mentali. Verso l’estate del 1939 la pianificazione era stata terminata e le prime uccisioni avvennero nell’ottobre dello stesso anno. Per l’uccisione furono creati i cosiddetti “reparti per l’assistenza esperta dei bambini”. Il primo di essi fu aperto nella clinica di Heinze a Brandenburg-Gorden e, nella Circolare che ne annunciava la creazione, si dichiarava che «sotto esperta supervisione medica il reparto di psichiatria infantile a Gorden fornirà tutti gli interventi terapeutici disponibili resi possibili da recenti scoperte scientifiche». Furono istituiti altri ventidue reparti simili in tutta la Germania, sul modello di quello di Gorden (5). L’attuazione della politica di eutanasia infantile fu così lasciata agli specialisti, ai medici dei reparti infantili, la scelta della tecnica di soppressione era lasciata alla loro discrezione.
Dopo la sterilizzazione obbligatoria e l’uccisione dei bambini, l’uccisione degli adulti rappresentò l’ulteriore passo la cui autorizzazione e copertura “legale” arrivò con una lettera che Hitler stesso indirizzò a Bouhler e Brandt nell’ottobre 1939 (successivamente retrodatata al 1° settembre 1939): «Al capo [della Cancelleria] del Reich Bouhler e al dottor Brandt viene affidata la responsabilità di espandere l’autorità dei medici, che devono essere designati per nome, perché ai pazienti considerati incurabili secondo il miglior giudizio umano disponibile del loro stato di salute possa essere concessa una morte pietosa» (6).
La sede dell’organizzazione fu stabilita al civico numero “4” della Tiergartenstrasse. Proprio da questo indirizzo fu ricavato il nome in codice per l’operazione di eutanasia: T4. Così come per l’eutanasia infantile, la seconda sezione del KdF (la citata Cancelleria del Fuhrer al cui vertice vi era Bouhler), diretta da Victor Brack, fu quella cui venne assegnato il compito di coordinare l’eutanasia degli adulti affidandone direttamente allo stesso Brack la direzione e il coordinamento. Egli assunse lo pseudonimo di “Jennerwein”, e insieme al suo collaboratore Werner Blackenburg, che utilizzava lo pseudonimo di “Brenner”, iniziò il reclutamento del personale che doveva integrare quello già presente e scelse personalmente tutti gli uomini e le donne che avrebbero dovuto far parte della T4. Tutto il personale aderì volontariamente.
In seguito furono fondati sei centri di uccisione, anche se, nel corso dello sviluppo del programma, lavorarono insieme non più di quattro centri. I primi due, istituiti nel gennaio 1940, cui come a tutti gli altri fu poi assegnata una sigla in codice, furono quelli di Brandeburgo (B), dove si erano tenuti gli esperimenti, e di Grafeneck (A). A maggio del 1940 fu aperto il centro di Hartheim (C) e a giugno quello di Sonnenstein (D). A settembre del 1940 Bernburg (Be) sostituirà Brandeburgo e a dicembre Hadamar (E) sostituirà Grafeneck. Queste sostituzioni si resero necessarie, viste le crescenti critiche provenienti dalla popolazione, e spinsero i dirigenti della T4 a prestare maggiore attenzione alla segretezza e alla dissimulazione dell’operazione, come con l’istituzione dei centri di smistamento in cui i pazienti facevano tappa prima di essere portati alla destinazione finale (7).
“Centro di uccisione” è la definizione che Henry Friedlander utilizza per definire gli istituti destinati alla soppressione delle persone selezionate, perché ritiene che sia la più adeguata per descrivere «luoghi in cui gli esseri umani erano uccisi con una procedura che prendeva a modello la produzione industriale», distinguendoli dai campi di concentramento poiché in questi ultimi gran parte dei prigionieri moriva per fame, malattie, lavori forzati e/o esecuzioni sommarie (8).
Nei centri di uccisione l’utilizzo di farmaci per via iniettiva, come testimonierà Karl Brandt, fu sperimentato con scarso successo, sia per i tempi del decesso, sia perché la morte con questa procedura era giudicata “inumana”. Fu così fatta la proposta dell’impiego del monossido di carbonio e lo stesso Brandt, in un successivo colloquio con Hitler, gli consiglierà l’impiego del gas come metodo più umano di uccisione delle vittime. La scelta, il numero e l’organizzazione del personale rispondevano a un’esigenza strettamente correlata all’uccisione delle persone, ossia, come ben descrive Friedlander: «Se la camera a gas fu un’invenzione della Germania nazista, una creazione ancora più rilevante fu il metodo approntato per trascinare le vittime nelle camere a gas, ucciderle e disfarsi dei loro corpi, come in una catena di montaggio. […] Ogni partecipante poteva sentirsi ridotto al rango di non più di una piccola rotella in una grande macchina medica che aveva la sanzione ufficiale dello stato» (9).
La concomitanza di diversi fattori, quali l’impossibilità di mantenere il segreto sull’operazione, le crescenti proteste della cittadinanza, i sermoni di denuncia del vescovo Clemens August von Galen, e il probabile raggiungimento del numero di vittime previsto (10), portò Hitler a ordinare la sospensione dell’operazione T4 il 24 agosto 1941. Tale ordine, tuttavia, se da una parte obbligò dirigenti e responsabili a ridimensionarne l’impianto organizzativo, dall’altra non ebbe l’effetto di sospendere gli omicidi, bensì esclusivamente quello di imporre un cambiamento del metodo con cui erano effettuati.
Si aprì così una nuova fase, comunemente definita di “eutanasia selvaggia”, e in cui i medici potevano decidere di loro iniziativa chi doveva o no morire e come ucciderlo. Non si uccidevano più le persone nelle camere a gas, si uccidevano nelle corsie degli ospedali, con farmaci e/o per inedia (11). Le professioni sanitarie, in particolare gli psichiatri, assunsero il comando delle operazioni e ponderarono attentamente i modi “scientificamente” migliori per uccidere i pazienti.
Parallelamente al proseguimento delle uccisioni delle persone con disabilità negli ospedali, vi fu, inoltre, anche la prosecuzione del progetto di ampliamento del raggio d’azione della T4, le cui pratiche erano state esportate già nella primavera del 1941, prima dell’ordine di sospensione di Hitler, nei campi di concentramento sotto la sigla 14f13, e si erano estese in modo indiscriminato a un vasto numero di prigionieri e, in particolare, agli ebrei.
Nell’ambito dell’operazione 14f13, assistiamo all’ampliamento delle potenziali vittime, attraverso un passaggio che appare significativo e l’anello di congiunzione più chiaro tra lo sterminio dei disabili e quello degli ebrei. Oltre alle persone con disabilità e agli inabili al lavoro, in precedenza selezionati e uccisi, gli ebrei diventano infatti una categoria di persone da uccidere, pur con l’inutile formalità, come si è visto, della visita medica.
Con la conclusione della T4, inoltre, il personale impiegato nel progetto di eutanasia fu reclutato per portare avanti le azioni di sterminio coordinate e gestite dalle SS. Particolarmente significative in tal senso sono le valutazioni che lo storico Edouard Husson fa sui collegamenti tra il programma T4 e Reinhard Heydrich, braccio destro di Himmler e, probabilmente, l’artefice e il principale ideatore della “soluzione finale”. Il coinvolgimento delle SS e l’interesse di Heydrich sugli sviluppi del programma T4, fin dal suo inizio, erano legati all’idea che il sistema “eutanasia” avesse tutte le caratteristiche di una “soluzione definitiva”, e che ci fosse la possibilità di ampliarlo ad altri gruppi di persone, non appena ve ne fossero stati i presupposti.
Nel novembre del 1941, un centinaio di funzionari e medici impiegati nella T4 furono inviati in Polonia, per lavorare, sotto le direttive di Odilo Globocnik e Adolf Eichmann, alla realizzazione del campo di sterminio di Belzec. Quest’ultimo, insieme a Sobibor e Treblinka, faceva parte di un unico progetto finalizzato allo sterminio degli ebrei di Polonia, che prenderà il via nel 1942 e sarà definito “Aktion Reinhard” in relazione al nome del suo ideatore, morto nel giugno 1942 (12). Nel mese di dicembre 1941 arrivò a Belzec anche Christian Wirth, che aveva avuto una parte centrale nella realizzazione della prima camera a gas a Brandeburgo. Wirth fu poi promosso ispettore di tutti e tre i centri, subordinato solo a Globocnick.
Dopo la fine di “Aktion Reinhard” nel 1943, il gruppo della T4, composto da ben novantadue persone, sotto la direzione di Wirth si trasferì sulla riviera adriatica, occupando e cercando di trasformare la vecchia Risiera di San Sabba, vicino a Trieste, in un campo di sterminio.
Secondo diversi autori vi fu una stretta relazione tra lo sterminio delle persone con disabilità e la soluzione finale attuata dai nazisti e finalizzata all’eliminazione degli ebrei. In particolare secondo Friedlander, gli ebrei non furono l’unico gruppo di persone selezionato con criteri biologici, ma tale criterio fu applicato anche alle persone con disabilità, secondo il medesimo crescendo che passò attraverso la definizione di normative discriminatorie, l’attuazione di politiche ostracizzanti e in ultimo la realizzazione del programma di omicidio di massa per l’eliminazione definitiva.
Seguendo con attenzione la cronologia delle operazioni di sterminio naziste, si può ragionevolmente concludere che essendo stato l’omicidio delle persone con disabilità il primo, precedendo quello degli zingari e quello degli ebrei, con buona probabilità è servito anche da modello e “prova generale” per i successivi. Il successo dell’operazione convinse i gerarchi nazisti che era possibile indurre uomini e donne comuni a uccidere un gran numero di persone innocenti, con la copertura e la cooperazione delle strutture burocratiche e culturali/scientifiche. Lo sterminio delle persone con disabilità, quindi, secondo Friedlander non fu solo la premessa della soluzione finale, ma il suo primo capitolo (13).
Nell’opera di Raul Hilberg La distruzione degli Ebrei d’Europa”, Christopher R. Browning evidenzia come il numero delle pagine e gli approfondimenti legati all’argomento siano stati considerevolmente aumentati tra la prima edizione del 1961 e quella, riveduta e ampliata, del 1985, in cui l’Autore afferma che «l’eutanasia era la prefigurazione concettuale e nello stesso tempo tecnica e amministrativa della “soluzione finale” che sarebbe stata attuata nei campi di sterminio» (14) e (15).
Se il nazismo contribuì allo sviluppo parossistico di questi nuovi meccanismi di potere, è importante rilevare come gli stessi siano, tuttavia, presenti in tutte le società moderne che funzionino secondo le modalità del bio-potere (16). Occorre sviluppare un’analisi approfondita di questi meccanismi, proprio a partire dalla loro manifestazione estrema. Il rischio di banalizzarli o dimenticarli non solo sarebbe ingenuo, ma, forse, sarebbe un nuovo passo verso la loro tacita accettazione e verso le loro potenziali derive.
Note:
(1) J. Rifkin, Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, Milano, Baldini & Castoldi, 2000, passim.
(2) R.J. Lifton, I medici nazisti, Milano, Rizzoli, 2002, p. 43.
(3) R. De Franco, Nel nome di Ippocrate. Dall’olocausto medico nazista all’etica della sperimentazione contemporanea, Milano, FrancoAngeli, 2001, p. 114.
(4) A. Mitscherlich, F. Mielke, Medicina disumana. Documenti del “Processo dei medici” di Norimberga, ed. it. 1967 (I ed. 1949, II ed. 1960), Milano, Feltrinelli, p. 138.
(5) G. Moriani, Pianificazione e tecnica di un genocidio, Roma, Franco Muzzio, 1996, p. 71.
(6) Ibidem, p. 72.
(7) Friedlander, Le origini del genocidio nazista cit., p. 123.
(8) Ibidem, p. 454.
(9) Ibidem, p. 129.
(10) R.J. Evans, Il Terzo Reich in guerra, Milano, Mondadori, 2014, passim.
(11) Lifton, I medici nazisti cit., p. 134.
(12) M. Burleigh, W. Wippermann, Lo Stato razziale, Milano, Rizzoli, 1992, p. 148.
(13) Friedlander, Le origini del genocidio nazista cit., p. X.
(14) C. R. BROWNING, Le origini della Soluzione finale, Milano, il Saggiatore, 2012, p. 205.
(15) R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Torino, Einaudi, 1999, p. 985.
(16) M. Foucault, Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 225.
Segnaliamo che a fianco del testo di Stefania Delendati, Quel primo Olocausto (a questo link), è presente l’intero elenco dei numerosi contributi da noi pubblicati sul tema dello sterminio delle persone con disabilità durante il regime nazista e la seconda guerra mondiale.
24/1/2022 http://www.superando.it
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Mai dimenticare lo sterminio di quelle vite ritenute “indegne di essere vissute”
«Nel triste elenco delle vittime della Shoah non vanno mai dimenticate le persone con disabilità che, colpite dal programma Aktion T4, furono le prime vittime dello sterminio, sterilizzate forzatamente a partire dal 1933 e dal 1940 uccise nelle prime camere a gas, appositamente installate negli istituti psichiatrici del Terzo Reich. È una storia dell’orrore tra gli orrori che non può più essere derubricata in una narrazione indistinta e che, invece, merita una propria collocazione anche storiografica, per colmare il vuoto di studi accademici che in passato l’hanno caratterizzata e di cui ancora oggi subiamo gli esiti»: lo aveva scritto lo scorso anno su queste pagine, in occasione della Giornata della Memoria del 27 gennaio, Silvia Cutrera dell’AVI di Roma (Agenzia per la Vita Indipoendente), oltreché vicepresidente della FISH Nazionale (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
È una terribile storia, per troppi anni misconosciuta e dimenticata, di cui parliamo da molto tempo sulle nostre pagine e che anche ieri abbiamo rievocato in un ampio approfondimento curato da Domenico Massano (a questo link).
Silvia Cutrera è certamente una delle principali studiose del nostro Paese di quanto subirono le persone con disabilità durante il regime nazista e la seconda guerra mondiale, autrice tra l’altro, con l’AVI di Roma, del documentario Vite indegne: il piano “Aktion T4” e lo sterminio dei disabili, da noi ampiamente presentato a suo tempo. E come accade frequentemente, la stessa Cutrera è impegnata in questi giorni in incontri e appuntamenti di sensibilizzazione e conoscenza sul tema.
Sempre con l’AVI romana, infatti, collabora con il Comune di Bracciano (Roma), a partire da oggi, 25 gennaio, e fino a domenica 30, alla mostra di documenti e foto denominata In Memoriam – Aktion T4: lo sterminio nazista delle persone con disabilità, presso il Chiostro degli Agostiniani, primo evento di altri dedicati all’Olocausto fino al 29 gennaio dalla città laziale.
Parteciperà inoltre, il 27 gennaio, dapprima a un incontro presso la Biblioteca Nazionale di Roma (ore 17.30), intitolato «Prima di tutto vennero a prendere i disabili…». Torturati e massacrati perché “vite indegne di essere vissute”, durante il quale verrà anche proiettato il citato documentario Vite indegne: il piano “Aktion T4” e lo sterminio dei disabili, quindi alla Fiaccolata per gli stermini dimenticati, prevista alle 18 nella Capitale da Piazza dell’Esquilino fino alla Lapide sul Porrajmos e la Shoah (Via degli Zingari, 54).
(S.B.)
Segnaliamo che a fianco del testo di Stefania Delendati, Quel primo Olocausto (a questo link), è presente l’intero elenco dei numerosi contributi da noi pubblicati sul tema dello sterminio delle persone con disabilità durante il regime nazista e la seconda guerra mondiale.
A questo link è disponibile il manifesto della Fiaccolata per gli stermini dimenticati di Roma del 27 gennaio. Per informazioni sugli eventi di Bracciano: urp@comune.bracciano.rm.it; per informazioni sull’incontro del 27 gennaio alla Biblioteca Nazionale di Roma: bnc-rm.ufficiostampa@beniculturali.it.
25/1/2022 http://www.superando.it
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Ernst Lossa e le altre migliaia di persone considerate “non adatte a vivere”
Ben volentieri segnaliamo che la Mediateca della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, che costituisce la componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), in occasione dell’ormai imminente Giornata della Memoria di dopodomani, 27 gennaio, ha arricchito il proprio patrimonio, acquisendo, in versione libro e film (DVD), l’opera Nebbia in agosto, storia legata allo sterminio delle persone con disabilità durante il periodo nazista e che grazie a Silvia Cutrera, avevamo ampiamente presentato qualche anno fa anche sulle nostre pagine, al momento dell’uscita della pellicola in Italia.
Nell’àmbito tra l’altro del progetto L-inc (Laboratorio-inclusione sociale disabilità), la stessa LEDHA aveva partecipato all’inizio del 2020 a un incontro a Cinisello Balsamo (Milano), incentrato proprio su Nebbia in agosto, di cui pure avevamo riferito. Per l’occasione aveva partecipato anche lo psichiatra Michael von Cranach, già direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Kaufbeuren, ove si svolgono le vicende narrate nel libro e nel film. Era stato lo stesso Cranach, alla fine degli Anni Novanta, a documentare la terribile realtà che aveva interessato quella struttura tedesca.
Riteniamo dunque di poter fornire un ulteriore approfondimento informativo a Lettori e Lettrici, riprendendo in modo pressoché integrale il contributo di Silvia Cutrera che avevamo pubblicato nel 2017.
Nebbia in agosto è un film di Kai Wessel che racconta la storia di Ernst Lossa, un ragazzo tedesco considerato dal regime nazista come “non adatto” a vivere.
Intelligente e vivace, ma appartenente all’etnia Jenisch [la terza maggiore popolazione nomade europea, dopo i Rom e i Sinti, N.d.R.], orfano di madre, con una difficile infanzia trascorsa in orfanotrofi e istituti di rieducazione, Ernst fu ricoverato a Irsee, filiale dell’Ospedale Psichiatrico di Kaufbeuren.
Inizialmente monastero benedettino, dal 1209 sotto la protezione di Papa Innocenzo III, distrutto nel 1525 e ricostruito in forma barocca, il Castello di Irsee, dopo vari eventi storici, diventò nel 1849 un istituto di ricovero per persone sofferenti di disturbi mentali e dal 1876 fece parte del nuovo Istituto Regionale Psichiatrico di Kaufbeuren, dove, dal 1939 al 1945, nell’ambito del famigerato Programma Aktion T4, furono uccisi circa 2.000 pazienti considerati “non degni di vivere”.
Sono questi i luoghi che hanno offerto lo scenario per ambientare le vicende di Lossa, ben interpretate e ricostruite all’interno delle camerate, nei letti dei pazienti, nel refettorio, nell’infermeria, nello studio del medico che decideva con un’elegante stilografica chi doveva morire.
Il merito di aver fatto conoscere la storia di Ernst Lossa va al professor Michael von Cranach, che ha pure fornito materiale e consulenza storica. Un esempio da imitare.
Nel 1980, infatti, in un periodo nel quale una nuova generazione di psichiatri, influenzati dalle teorie e dalle proposte di Franco Basaglia, intendeva realizzare la riforma della psichiatria, de-istituzionalizzando i pazienti ricoverati negli istituti, Michael von Cranach divenne direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Kaufbeuren.
Fu subito chiaro che ciò che aveva intenzione di attuare non poteva avere inizio senza fare luce sul terribile passato che riguardava i pazienti uccisi nelle stanze dove quotidianamente egli stesso lavorava. Alcuni infermieri, così come alcuni pazienti, avevano personalmente vissuto tali azioni, e quel passato – del quale a lungo non si era parlato e che era rimasto irrisolto – era presente, come una nebbia, sopra l’intero istituto, paralizzando le necessarie azioni di riforma.
Per Cranach era diventato evidente che portare luce dentro tale buio era il prerequisito di ogni attività innovativa e così, con un gruppo di colleghi, iniziò le ricerche presso gli archivi dell’ospedale, intervistò testimoni, cercò materiale tramite la letteratura e le cartelle cliniche e, in questo modo, ricostruì la storia dell’ospedale durante il nazismo e più tardi, tramite un’esauriente ricerca relativa a tutti gli ospedali della Baviera, il retroscena di quegli eventi (si veda: M. von Cranach e H.-L. Siemen, Psychiatrie im Nationalsozialismus, München, Oldenbourg, 1999).
Nel 1999, in occasione del quadriennale Congresso Internazionale di Psichiatria, che si svolse per la prima volta in Germania dopo la guerra, ad Amburgo, la Società Tedesca di Psichiatria decise, non senza qualche insicurezza ed esitazione, di documentare ciò che accadde durante il nazismo ai pazienti psichiatrici e diede a Cranach l’incarico di realizzarla.
Ne nacque la mostra denominata In Memoriam, che illustra le fasi che portarono all’uccisione delle persone con disabilità dal 1940 al 1945, utilizzando documenti e testimonianze riguardanti singoli casi. Ci troviamo di fronte a casi chiamati per nome, quindi definibili, riconoscibili, che potrebbero essere anche quelli di ciascuno di noi o del vicino della porta accanto.
Incontriamo Ernst Lossa, un ragazzino di 12 anni e lo seguiamo negli ultimi due anni della sua vita. È vivace, forte, agile, svelto, furbo, è servizievole se preso nel verso giusto, ma ha una «fantasia troppo sviluppata che non gli permette di concentrarsi sui compiti», e che farà da ostruzionismo al programma di uccisioni sanitarie.
E sempre documentato nella mostra, si può leggere anche a quali vette di crudeltà si possa arrivare, nell’invenzione, per esempio, della cosiddetta “Dieta E”, una dieta totalmente priva di grassi che provocava la morte per fame, che fu proposta da Valentin Faltlhauser, primario dell’Istituto di Kaufbeuren, e adottata poi nella quasi totalità degli istituti psichiatrici.
Oggi il Castello di Irsee è un eccellente luogo di formazione, dove si svolgono seminari, convegni, iniziative culturali. Quelli che un tempo erano i reparti di morte oggi sono confortevoli stanze alberghiere, i rintocchi del campanile della chiesa barocca scandiscono il trascorrere del tempo e non più la morte dei ricoverati. Dietro la chiesa sono rimaste le tracce dei tragici avvenimenti. Il locale adibito per l’autopsia (sic) è stato conservato, vi sono esposte le attrezzature e gli strumenti per sezionare i cadaveri, un lettino con supporti adatti per agevolare l’espianto del cervello.
Alle pareti tre fotografie di Valentin Faltlhauser che guarda dritto l’obiettivo della macchina fotografica e mostra sospeso tra le sue mani un bambino spastico nudo e piangente. Un po’ più avanti, in un giardino, una scultura e delle incisioni ricordano il crimine nazista.
L’Ospedale di Kaufbeuren, a pochi chilometri di distanza da Irsee, è tuttora un istituto di cura e ricovero psichiatrico, nel giardino laterale un cippo e una scultura fungono da monumento per ricordare le vittime. All’interno, sulle pareti del corridoio antistante lo studio del Direttore, vi sono appese le fotografie degli psichiatri che hanno diretto la struttura. Sotto la fotografia di Faltlhauser una targa ne menziona i crimini.
Segnaliamo che a fianco del testo di Stefania Delendati, Quel primo Olocausto (a questo link), è presente l’intero elenco dei numerosi contributi da noi pubblicati sul tema dello sterminio delle persone con disabilità durante il regime nazista e la seconda guerra mondiale.
25/1/2022 http://www.superando.it
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