L’ultima fabbrica. In un libro operaio la lunga agonia dell’ex-Ilva di Taranto

Taranto c’è l’acciaieria più grande d’Europa. Si affaccia sul mare, ha un’estensione due volte maggiore della città che la ospita e ci lavorano dentro circa quindicimila operai tra diretti e in subappalto. O meglio, ci lavoravano. Oggi, buona parte di questi attende che qualcosa succeda e con loro la città intera. Dopo la gestione dei Riva, interrotta nel 2012 dal sequestro degli altoforni da parte della magistratura, c’è stata un’amministrazione straordinaria dello stato, un acquisto da parte della multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal, una joint venture tra la multinazionale e il ministero dello sviluppo economico e ora una nuova amministrazione straordinaria. In questi dodici anni si sono bruciate risorse pubbliche, si è inquinato, ci sono state malattie in fabbrica e in città, e incidenti mortali, lavoratori fuoriusciti, altri che hanno continuato a lavorare, altri ancora che hanno vissuto di cassa integrazione. Tutti sono rimasti in attesa mentre la fabbrica si consumava, produceva poco, continuava a inquinare e a non dare prospettive. Le promesse di ripartenza e ambientalizzazione si sono confermate solo promesse.

La nuova amministrazione straordinaria è arrivata all’inizio di quest’anno: poco prima che la fabbrica si spegnesse definitivamente, hanno detto. Gli amministratori hanno ripristinato le funzionalità di un altoforno e programmato l’attivazione di un altro che è ora fermo. I lavoratori, però, raccontano che sono costretti a far funzionare gli impianti senza strumenti e pezzi di ricambio. Da due nastri se ne fa uno, si prendono pezzi dagli impianti fermi, si aggiusta alla meglio, si continua a produrre a ritmo ridotto. A fine aprile, ai cancelli della fabbrica gli operai sembravano stanchi: “I parchi sono vuoti, mang le bullun, le uant accattn [non comprano manco i bulloni, i guanti]”.

Non so se le cose siano cambiate molto dentro la fabbrica nei mesi scorsi. In certi reparti, però, la cassa integrazione di alcuni si accompagna agli straordinari di altri, le banchine del porto sembrano mezze vuote, i coils pronti a partire sono pochi. Gli amministratori hanno ristabilito la funzionalità della flotta di navi dell’ex-Ilva che pare siano un asset cruciale per la vendita. I lavoratori sono divisi dalle ondate successive di ristrutturazioni proprietarie: quelli dell’indotto se la passano peggio di tutti, mentre quelli di “Ilva in AS” restano in cassa integrazione. I sindacati fanno comunicati e assemblee, provano a gestire gli altri tavoli di crisi del territorio; gli ambientalisti denunciano livelli di emissioni inquinanti pericolose nonostante la produzione al minimo, si organizzano, manifestano, interpellano magistrati e media. Tutto sembra fermo per l’ennesima volta, tutto è uguale agli ultimi dodici anni, tutto è in attesa. Queste settimane, però sono cruciali per il futuro della fabbrica e della città. E questa volta è diverso, hanno detto dal ministero dello sviluppo Made in Italy.

A luglio, sindacati e ministero hanno firmato un accordo per la cassa integrazione da agganciare a un piano di manutenzione e ripartenza. Con la trattativa i sindacati hanno ottenuto una riduzione del numero di cassaintegrati tarantini, e qualche promessa sulla loro formazione e su un piano di lavoro che dovrebbe far tornare tutti in fabbrica entro l’estate del 2026. L’accordo l’ho sentito raccontare alla festa provinciale tarantina dell’Usb proprio da alcuni dei firmatari, poche ore dopo il loro incontro ufficiale a Roma. I rappresentanti del sindacato più radicale pareva tirassero un sospiro di sollievo alla tavola rotonda con il presidente della Regione, Emiliano, e il ministro Urso. Pragmatismo e occupazione, patriottismo e lotta di classe, acciaio, nuvole e picchi di benzene.

Pochi giorni dopo quella firma si è aperto il bando per le manifestazioni di interesse dei gruppi industriali interessati all’acquisto di ciò che resta dell’ex-Ilva. Il bando si è chiuso nei giorni scorsi, quindici gruppi hanno fatto le loro proposte, alcuni – forse la maggior parte – sono interessati soltanto ad alcuni pezzi della fabbrica e dei suoi asset. I sindacati hanno rintuzzato dichiarandosi contrari a vendite frammentate che darebbero minori sicurezze di un acquirente unico. Chiedono poi che lo stato resti come garante nella nuova proprietà. Dal governo sembrano essere di un’altra opinione. L’aria da grandi intese di fine luglio, a settembre è già finita, resta l’attesa.

A settembre è anche arrivata la decisione della Corte d’appello di Taranto che ha invalidato le condanne di primo grado del processo Ambiente Svenduto. Il processo ripartirà da zero presso la sede di Potenza. Sono tutti innocenti, di nuovo, fino a nuova prova contraria, con il rischio che molti reati vengano prescritti.

UN LIBRO OPERAIO
Settimane critiche, insomma, come è ormai da anni in città. In questo tempo sospeso è uscito un romanzo di letteratura operaia, La settimana decisiva. Memorie dall’ultima fabbrica. Lo ha pubblicato la casa editrice Bookabook e lo ha scritto Fabio Boccuni, operaio manutentore elettrico del reparto Treno Nastri 1, Rsu e dirigente della Fiom di Taranto.

Ho conosciuto Boccuni qualche mese fa a un presidio sindacale contro i morti sul lavoro. L’ho poi rincontrato per caso alla sede dell’Arci di Taranto, tra il dipinto sul muro del viso sorridente di Alessandro Leogrande e la biblioteca militante che raccoglie la stanza. Ci siamo dati appuntamento per parlare del suo libro, della fabbrica e della città in una di quelle sere di fine estate in cui puoi ancora bere un paio di birre fredde all’aperto.

Boccuni è nato e cresciuto a Taranto in una famiglia proletaria e numerosa. È entrato in fabbrica a poco più di vent’anni, dopo il diploma tecnico industriale e un po’ di lavoro nero svolto per un mastro edile locale. La sua storia è quella di una generazione, l’ultima per la quale la fabbrica siderurgica è sembrata una promessa. Certo non era un sogno ma dava sicurezza, un contratto, i contributi, la malattia, la mensa a prezzo calmierato, un lavoro non troppo pesante, certo pericoloso, ma probabilmente meno faticoso che portare il mastello di cemento e i mattoni al capomastro tutto il giorno.

Il protagonista de La Settimana decisiva è Luca Russo e anche lui, come l’autore, è operaio di una fabbrica siderurgica in crisi che i movimenti ambientalisti della città vogliono far chiudere per la nocività delle sue produzioni. Luca Russo ha scritto un libro che è finalmente al vaglio di una casa editrice. Il romanzo, quindi, segue la struttura del memoriale di un operaio immaginario. Parla di un’infanzia felice, ordinata dalle estati a casa del nonno Pietro, operaio in pensione della stessa fabbrica siderurgica. Il nonno Pietro è il simulacro di una classe che non c’è più ma allo stesso tempo una presenza formativa per il giovane Luca. Il memoriale poi ripercorre il passaggio di Russo in fabbrica, il periodo di precarietà iniziale, la sindacalizzazione, l’attività da rappresentante, il fermo degli impianti imposto dalla magistratura, le manifestazioni che seguono, la lunga cassa integrazione. Si parla di lavoro, di incidenti, di sfruttamento, di elezioni sindacali e di scioperi ma con un certo distacco. Il memoriale sembra voler mettere in ordine le vicende collettive e complicate che sono capitate al protagonista piuttosto che farcele rivivere. Luca, al contrario di nonno Pietro, è un operaio fuori tempo massimo, un operaio a metà. Si allontana dal sindacato e finisce a vivere di cassa integrazione a causa della vertenza infinita della sua fabbrica. Si porta il marchio della tuta blu sui generis di cui la letteratura sul meridione è piena. Walter Tobagi chiamava le tute blu tarantine metalmezzadri per dire che anche nella crisi del settore questi operai legati alla terra vivevano bene di economia contadina sommersa. La sociologia ha poi attribuito a questa condizione la carente formazione di una coscienza di classe degli operai del sud. Questi soggetti liminali, troppo individualisti per farsi avanguardia o corpo collettivo, avevano ricevuto lo sviluppo in dono d’altrove, non avevano avuto il tempo di maturare una cultura industriale per farsi avanzamento sociale. E oggi, nonostante il loro presunto attaccamento alla terra, sembrano essere incapaci di superare il ricatto tra lavoro e salute, verso una transizione ecologica giusta. La realtà che racconta Bucconi però, al contrario di questa letteratura sul meridione, non è una storia di mancanze quanto di lotte perse, di avanzamenti a metà, una storia di periferia dove le conquiste richiedono ancora più forza collettiva che nei centri. E se la forza della generazione operaia di nonno Pietro aveva portato diritti e avanzamenti, per quanto parziali, la classe operaia di Luca è spappolata e divisa, i tentativi di ricostruirla si infrangono tra precarietà e individualismo. Il memoriale traccia una storia di “picchetti flebili”, di operai sotto ricatto e tradimenti di classe per avanzamenti di carriera, di crumiri e colleghi che gridano che “lo sciopero non serve a nulla”. E non hanno tutti i torti i colleghi, ammette Russo, che dopo l’ennesimo incidente mortale in fabbrica lascerà il sindacato: “Era da almeno vent’anni che un buon accordo [sindacale] era considerato quello che perdeva meno”.

A questo si aggiunge la città stanca dell’inquinamento e lo stigma che si portano gli operai. Le tute blu avvelenano i quartieri, gli ambientalisti prendono terreno e non le mandano a dire. Dopo un tentativo fallito di unire operai e classi popolari contro la nocività, Russo racconta la faglia che si allarga tra fabbrica e città. Gli amici d’infanzia uniti nei ricordi delle partite a calcetto di estati lontane e senza pensieri, si ritrovano su fronti diversi, divisi tra fabbrica e città, sindacato e movimenti, azione collettiva e carriere personali.

Se il memoriale di Russo ripercorre la vita del protagonista fin dall’infanzia, il tempo presente del libro narra una settimana del 2027. Si tratta, anche in questo caso, di una “settimana decisiva”. A giorni arriverà il parere dell’editore sulle sorti del libro. Ma Russo attende anche altre notizie che lo riguardano. Il presente ci parla della ritirata in una dimensione privata e solitaria dell’operaio scrittore. Il protagonista impegna l’attesa rivedendo le bozze e passeggiando per la città piena di turisti distratti. È arrivata primavera, la città si prepara al consueto concertone alternativo del Primo Maggio che gli ambientalisti del libro – come quelli veri di Taranto – organizzano ogni anno in protesta contro i sindacati confederali e allo scopo di far chiudere la fabbrica. A differenza degli altri anni però, in quel 2027 la fabbrica di Luca Russo si è davvero spenta, per decreto e per mercato, e sembra ormai destinata alla dismissione. Il “gigante dai piedi di argilla”, pieno di paure, ha perso. Gli ambientalisti hanno vinto. Ma tutto è ancora sospeso e al protagonista non resta che rimuginare sulle ferite della sua classe, sull’orgoglio collettivo diventato vergogna, in attesa che l’ultima fabbrica e le sue ultime tute blu lascino spazio a un mondo nuovo che non è ancora arrivato.

Il libro di Boccuni usa la forma romanzo per raccontare vicende conosciute, davvero accadute, e narrate finora sempre dal punto di vista degli altri. Ed è pure un’opera scritta da un lavoratore che parla del suo lavoro, della sua fabbrica. Come ogni pezzo di letteratura operaia, pubblicare questo libro non è stato facile. Boccuni mi racconta di aver contattato decine di case editrici senza successo. “Non ricordo chi diceva che un operaio che scrive un libro sulla fabbrica è destinato a scrivere un libro solo, perché quello sa. E questo potrebbe essere il mio destino”. Ma questo libro si sentiva di scriverlo per colmare un vuoto di prospettiva. È stato anzi più difficile scriverlo che trovargli una sistemazione. “Il periodo decisivo è stato durante il Covid. Non perché ho scritto in quei mesi, ma perché ho letto molto”. Leggere Paolo Volponi e Vitaliano Trevisan, mi dice, lo ha convinto a scrivere la storia dal punto di vista di Luca Russo: “Avevo pensato addirittura di scriverlo dal punto di vista della fabbrica”, mi spiega.

Nonostante il gran numero di pubblicazioni su Taranto e la sua acciaieria, mancava un romanzo che parlasse di una classe operaia meridionale scritto da chi di lavoro di fabbrica ci vive. Quella di Boccuni però, è una storia operaia senza vittoria né riscatto. Certo, l’ultima fabbrica si è finalmente spenta, hanno vinto i movimenti ambientalisti, però questa vittoria sospesa non consola nessuno. Nel libro si prospetta un’economia precaria di turismo, sfruttamento e individualismo. La salvezza è per pochi, il successo è individuale e ristretto. Al protagonista non resta che prendere le misure al tempo vuoto da operaio in dismissione, senza sindacato né classe con i quali combattere la sua personale solitudine. La sua storia è finita, eppure, la città sembra incapace di crearne una sua, dopo aver perso la sua classe operaia o quel che ne era rimasto per strada. (francesco bagnardi)

27/9/2024 https://www.monitor-italia.it/

Immagine: disegno di cyop&kaf

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