L’umanità è scomparsa
Alberto, Mariarita, Giulia, Flavia, Federica, Antonella Vincenzo, Samuele, Najla, Anna, Adou, Valentina, Stefania. Medici, psicoterapeuti, mediatori interculturali, operatori di MEDU. Siracusa, Pozzallo, Augusta, Roma e tutti i luoghi di approdo nell’Italia di questo secolo. “Diversi corpi stessa mente”: ecco a cosa mi hanno fatto pensare questi racconti di sé nell’incontro con altri sé. Donne e uomini con vite personali e professionali diverse, che provano a raccontarci quello che teste, pance, anime differenti hanno visto e sentito negli anni in cui hanno provato, e tutt’oggi provano, a dare una risposta alla domanda “e noi dove siamo?”. Ed è proprio nelle differenze che disegnano questo libro che emerge con prepotenza la mente, il cuore, la determinazione comune: ascoltare l’inascoltabile, provare a dare una cura, provare a trasformare gli effetti disumani su corpi e menti causati da una povera, abbrutita umanità. Professionisti addestrati ed allenati ad ascoltare ogni storia terribile e disumana. Ma lo sarete mai veramente? mi viene da chiedermi leggendo i vostri racconti.
Ognuno con un diverso scavare in quello che è stato sentito. Ognuno con una forza diversa nel dare aria ad una cassaforte in cui piano, piano, parola, dopo parola, sguardo dopo sguardo, mano dopo mano, si sono accumulati dolori invece che tesori.Dolori della vita degli altri e i dolori della propria. Per alcuni mettere su carta sembra essere quasi un percorso catartico, per altri più un dovere di memoria. Ma comunque l’importante tentativo di condividere e testimoniare quello che, da essere umani, si possa provare al racconto della disumanità esercitata dal nostro simile. “Si riemerge insieme a rivedere le stelle” si legge in un passo del libro. Ed è proprio il “farlo insieme” che esprime meglio il senso della comune determinazione: cercare in ciò che si ascolta qualcosa di sé, o cercare in sé qualche cosa del dolore degli altri. Guarire insieme da ferite che stanno sui corpi di chi le ha subite e di chi, insieme a loro, prova a dargli una voce e non lasciare che sussurrino al cuore di spezzarsi. E in quelle pagine è come se ognuno, medici e pazienti, facessero insieme la propria rivoluzione di umanità. I primi per provare a rispondere ai tanti perché che questa generazione dovrebbe porsi, i secondi per tornare a credere che l’uomo non sia solo quello che hanno visto tra deserti, mari, prigioni e nuove terre.
Perché i sommersi e i salvati a cui questo libro è dedicato, sono le quattordicimilasettecentoquarantaquattro vite sepolte nelle acque del mare Mediterraneo e tutti quelli che sono riusciti ad arrivare sull’altra sponda. Ma i sommersi e i salvati siamo anche tutti noi, chi decide che tutto questo è troppo per poter essere anche solo guardato e chi prova a guardare oltre e dare il proprio contributo per creare un nuovo collettivo senso di essere umani. Decidiamo di sommergere quando scegliamo di schedare, numerare, prendere impronte digitali invece che ricordare nomi, credere a storie, ascoltare paure e incoraggiare i sogni. È qui che il Senso di Umanità inizia ad imbarcare acqua.
Nelle storie ascoltate e credute si delineano le linee ricurve del disegno dei flussi di persone che si muovano su questa terra rotonda, il disegno di quello che oggi viene chiamato il fenomeno migratorio, quel fenomeno antico quanto il mondo, ma che oggi fa tanta paura. E fa paura non per ciò che questo movimento di esseri umani- donne, uomini e bambini- si porta dietro- prigionie, torture, stupri, violenze, traffici, violazione dei diritti umani e indifferenza- ma per quello che potrebbe causare a “noi” che siamo altro da “loro” e alla nostra sicurezza. I dati contenuti nel testo sono molto eloquenti. Negli ultimi 5 anni sono approdati nei nostri porti circa 645.700 esseri umani. Molti? Certo. Ma se confrontati ai 16,2 milioni che solo nel 2017 sono stati costretti a lasciare il proprio paese, sembrano ancora così tanti quelli arrivati in Italia? E se in Italia ne sono arrivati- per andare poi in Europa- solo una piccala parte rispetto al totale, gli altri dove sono andati? L’85% si è spostato nei paesi limitrofi in via di sviluppo: Turchia, Pakistan, Uganda, Libano, Iran. Nessun paese dell’Europa in cima alla lista, solo la Germania al 6 posto.
Chi ha raccolto queste storie – quasi 3000 e oltre – ha provato, oltre che a descrivere le dimensioni di questo esodo epocale, a dargli una collocazione nella grande mappa del mondo. Ha provato a ricostruire le rotte di questi interminabili viaggi, di chi scappa per il diritto a sopravvivere alla morte per fame e chi scappa per sopravvivere alla morte per guerra; chi è un migrante economico e chi un avente diritto a protezione. (Ma davvero ancora oggi possiamo pensare che sopravvivere alla fame sia un diritto minore che sopravvivere alla guerra?). Sono rotte che nel retro di copertina tracciano una ragnatela che copre metà dell’Africa subsahariana, in cui sono ben evidenti le principali città di transito nei c.d. paesi di seconda frontiera, Sudan e Niger. Rotte che poi, alla fine, confluiscono tutte nelle città-prigioni della Libia. E poi continuano, a volte, attraverso il nostro mare. Una sorta di via crucis, come è chiamata nel libro, le cui stazioni sono una successione di estorsioni, rapimenti, torture, umiliazioni, privazioni e morte. Tappe obbligate per arrivare, forse, ad un futuro migliore. “La via dell’inferno”, che la devono percorrere tutti i migranti che si muovono lungo la rotta occidentale, è quella tappa che va, attraverso il cimitero del Sahara, da Agadez a Sabah, gestita da una rete di autisti e trafficanti che conducono direttamente i migranti nelle prigioni e centri di tortura della Libia. Coloro che invece partono dai paesi del corno d’Africa, per molti anni hanno attraversato il Sinai sperando di poter raggiungere Israele e da qui l’Europa, ma campi di prigionia, torture e rapimenti hanno dirottato, anche per loro, la scelta sulla rotta libica. Secondo le stime OIM, a dicembre 2017 in Libia si trovavano tra i 700.000 e 1 milione di migranti. In parte in campi di detenzione ufficiali, in parte nei luoghi informali di prigionia.
E sono di questi luoghi tra le più indicibili tragedie umane di questo secolo. Violenze fisiche, psicologiche, sessuali, privazioni, trattamenti inumani. Torture. Su donne, uomini e bambini che non sono più esseri umani, ma oggetti, animali, pezzi di carne. Convivenza con la morte e con il suo odore che non si dimentica, soprattutto quando è di una persona che ami. Profonde ferite su corpi e vite. Vite che però non si arrendono e attraversano il nostro mare e poi sbarcano, finalmente. E qui raccontano quello tutto quello appena descritto. E qualcuno lo raccoglie e ne fa testimonianza oltre che una porta aperta per tentare una cura. Per provare a dare una via d’uscita al dolore di quelle torture subite da quasi il 90% dei migranti curati da MEDU. E oltre a tutto questo indicibile che succede in Libia, in questo libro c’è anche la scelta della speranza. Lo si legge nella ricostruzione della storia di una bambina di 5 anni, Helen. Lei non l’ha mai raccontata a nessuno, ma la dr.ssa Valentina l’ha forse sentita passando il tempo sdraiata con lei sul pavimento dell’hotspot di Pozzallo. Adesso Helen vive nell’hotspot e spera di avere presto una storia da raccontare al mondo lontana dalla paura-forte. Lo si legge nella storia dei piedi di Ismael e di Giulia che per tanto tempo li ha sognati di notte. Incontrare qualcuno che ci da un vasetto di crema per i piedi gonfi e freddi, un vasetto che è tutto per noi e per quello sorridere. Come fa il cuore dolente del mondo a non farsi toccare, a non accendersi come una miccia per lo strazio, la tenerezza o l’incontro di uno sguardo perso? Bisogna diventare porto, dice Giulia, per non crollare a queste domande. Bisogna diventare tutti interi, con il cuore, con il corpo, con la mente e con l’anima. E bisogna decide di sperare.
Lo si legge nei diari che concludono questo libro, cronaca di due anni di sbarchi. Perché lo sbarco “è quel posto in cui capisci che il battito leggero di una farfalla a Pozzallo può veramente provocare un uragano, anche in Africa”. E nonostante la barbarie a cui ogni storia di questo libro ci riporta, ogni personaggio, sia questo chi ha ascoltato o chi ha raccontato, sembra incoraggiarci a trovare sempre un po’di gioia per rendere onore alla vita e credere ancora nell’essere umano.
Giulia Dagliana
Coordinatrice del Centro OMS sulla sicurezza e la qualità delle cure, Centro Gestione Rischio Clinico, Regione Toscana.
6/3/2019 www.saluteinternazionale.info
MEDU. L’umanità è scomparsa. Sulle rotte migratorie del XXI secolo . Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2018
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