L’urlo silenzioso della precarietà
“Ci avete illusi / e poi appesi ad asciugare / in un fazzoletto di sole. / Bella senz’anima / la mia generazione”. Sono versi tratti da Frammenti di un precario (Ed. Les Flaneurs), del giornalista Giuseppe Di Matteo. Evocano l’urlo silenzioso della condizione precaria, diffusa tra le ultime generazioni di lavoratori, la difficoltà di costruire progetti galleggiando su contratti di lavoro che masticano avidi il tempo, erodendo respiro e terreno.
Il lavoro precario non remunera degnamente il maggior rischio corso da un lavoratore che investe i più fecondi anni della propria esistenza in un’azienda, un’università o un ente di ricerca. Sarebbe equo pensare a una maggiore retribuzione, a delle misure paracadute a tutela crescente con gli anni di precariato, per disincentivare l’abuso del ricorso a contratti brevi e favorire l’assunzione a tempo indeterminato; quest’ultimo ormai associato, nella grassa vulgata di questo tempo, alla minaccia del parassitismo.
In uno stesso contesto, mentre alcuni lavoratori rivendicano qualche benefit in più, in forza di una contrattazione collettiva, i precari, pur con mansioni simili, attendono l’inesorabile scadenza del proprio contratto, del tutto privi di potere vertenziale. Isolati, schiacciati da asimmetrie di potere, che consumano la dignità fino al buio dell’epilogo contrattuale: sarà un giorno qualsiasi, probabilmente nuvoloso, in cui dover tornare per strada, con una scatola di cartone, già privati persino dell’accesso alla mail istituzionale. E gli sguardi bassi dei colleghi. E qualche poco consolatoria pacca sulla spalla. È rapida la sfumatura fino alla completa invisibilità, al demansionamento, al cambio di attività. Con famiglia, prole, impegni e uno status di disoccupato troppo maturo e ipertitolato per una ricollocazione. Proprio come un bracciante, quando troppo anziano per esser scelto dal padrone a giornata. Le lavoratrici precarie sono troppo spesso prive di tutele per la gravidanza. Per tacere dei miseri contributi previdenziali. Da precari non si può neanche acquistare un elettrodomestico a rate, senza dover ricorrere alla stampella della garanzia di un genitore o di un nonno. Le ansie della condizione precaria, sebbene simili, non comunicano: sono atomizzate. Anzi, vengono fatte confliggere con sapienza, nell’agone del mutuo confronto prestazionale. Un’incruenta e sottile guerra di poveri senz’anima.
Nell’ambito della ricerca, per anni, sono proliferate tipologie contrattuali degne del Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch: creaturine dai nomi buffi (cococo, cocopro e altre amenità onomatopeiche) che affollano pozzanghere normative di mostriciattoli, destinati a svanire. La lunghissima gavetta di decine di migliaia di ricercatori italiani, dopo molteplici e bizzarre incarnazioni contrattuali, si è rivelata un vicolo cieco. Una generazione di Sisifo, condannati a portare un masso in cima a un monte per vederlo rotolare, proprio quando la meta pareva prossima. Il precario è soggetto a continua valutazione: prima di accedere a un contratto di pochi mesi; prima di ricevere la prima rata (anche dopo due mesi o tre, dall’avvio delle attività), ci saranno – almeno – una valutazione delle attività e varie rendicontazioni; a fine contratto, una relazione sugli esiti conseguiti, talora sotto minaccia di restituzione della paga, già spesa per sopravvivere. Si ha l’impressione di assistere a veri accanimenti burocratici che non avrebbero giustificazione nemmeno se fossero utilizzati per tutti, non solo per i lavoratori e le lavoratrici precarie. Il registro inferiore del mondo del lavoro, quello precario, pronuncia le sillabe della discriminazione.
Nel dibattito sugli investimenti in Scuola e Università, previsti in questa Legge di Bilancio, è addirittura caduto il ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti. Un miliardo fantasma, prima promesso e poi sparito, lo ha obbligato a lasciare il dicastero. Sul fronte universitario, i dati di uno studio di Flc-Cgil (Perché noi no? 2017) mostrano che nell’università italiana è in corso una progressiva e cronica precarizzazione, che vede il personale non strutturato al 56% del totale impiegato.
Secondo un recente studio di Cobas Unisalento (2019), ci sono, in Italia, 6348 Ricercatori a tempo determinato che hanno visto scadere il loro contratto e hanno perso il lavoro dopo anni di ricerca e insegnamento. Carriere falcidiate dalla Legge Gelmini e dai continui tagli ai fondi per le Università.
Eppure, sono centinaia le occasioni in cui la politica si ritrova a battersi il petto, riflettendo sulla necessità di aumentare gli investimenti in scuola, università, Ricerca e Sviluppo (R&D). è fin troppo noto il legame di tali investimenti con la competitività di un paese. Ricorda Yuval Harari, in Sapiens (Ed. Bompiani), che “negli ultimi cinque secoli, gli umani hanno iniziato a credere con sempre maggiore convinzione di poter accrescere le proprie capacità investendo sulla ricerca scientifica. […] Senza tali investimenti non saremmo mai stati in grado di camminare sulla Luna, manipolare geneticamente dei microrganismi o scindere l’atomo”. Il circuito di retroazione della Rivoluzione Scientifica è costruito sul mutuo rinforzo tra scienza, politica ed economia. La disponibilità di nuova conoscenza diventa, per l’istituzione che l’ha finanziata, disponibilità di nuove forme di potere e risorse, dalla cura delle malattie a tecnologie più efficienti. In Italia, gli investimenti in R&D nell’Anno 2017 (Fonte Eurostat) ammontavano all’1,37% del PIL nazionale, a fronte di una media UE del 2,07% e di nazioni virtuose, come l’Austria che nello stesso anno investiva il 3,05% e la Germania il 3.07%. Queste ultime sono proprio tra le nazioni con maggior Pil pro capite, sempre secondo Eurostat. È davvero il caso di rifletterci su.
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