Ma i servizi non possono essere un’azienda
L’accademico Gregorio Arena ci ha insegnato che gli Enti di Terzo Settore hanno una natura bifronte: «Da un lato sono cittadini associati che la Repubblica (intesa come apparato istituzionale) deve sostenere quando svolgono attività di interesse generale. Dall’altro lato, cioè dal punto di vista dei cittadini attivi, sono “Repubblica” e quindi devono essi stessi “favorire” le autonome iniziative dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale».
Si tratta di una considerazione che, non a caso, giunge al termine di un progetto che ha coinvolto le principali sigle associative lombarde, chiamato Trame di futuro. Un’iniziativa, cui ne sono seguite altre analoghe, dedicate alla riflessione e al confronto su ciò che unisce e caratterizza una serie di realtà che hanno storie, caratteristiche, organizzazioni e attività molto diverse fra loro, quali ad esempio, tra le altre, l’Auser, le ACLI, la LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
Proprio quanto avvenuto nell’area dei servizi sociali e sociosanitari dell’area disabilità in Regione Lombardia in questi ultimi vent’anni, può essere un buono spunto di riflessione per comprendere il rapporto dialettico e a volte conflittuale tra la dimensione imprenditoriale e quella sociale che caratterizza l’attuale fase di vita degli Enti di Terzo Settore.
Quasi un mercato
L’insieme degli Enti di Terzo Settore in Lombardia deve confrontarsi con un sistema di regole di funzionamento e di finanziamento che spinge le organizzazioni a dotarsi di un’organizzazione di tipo imprenditoriale. Come è noto, il “modello di welfare lombardo” prevede la definizione di un “quasi mercato” dei servizi sociosanitari e socio assistenziali: gli enti pubblici e quelli privati sono messi sullo stesso piano, permettendo, teoricamente, alla persona di scegliere di quale servizio usufruire e quindi determinando anche il finanziamento.
L’idea di fondo è che la competizione fra gli enti gestori per acquisire e mantenere nuovi utenti spinga il sistema al miglioramento continuo, analogamente a quanto avviene nel campo dell’economia di mercato pura. In questo contesto il ruolo pubblico è quello di definire le condizioni richieste agli enti per entrare nel “quasi mercato” (criteri di accreditamento), di stabilire e monitorare la spesa pubblica (funzione di programmazione e acquisto) e di verificare la qualità dei servizi offerti (funzione di controllo). Anche in questo sistema agli enti privati viene chiesto comunque di assumere una funzione pubblica.
Gli esiti di questo modello di welfare nella vita dei servizi e delle persone sono già stati ampiamente indagati. Nel campo della disabilità, ad esempio, abbiamo certamente assistito ad un’estensione dei servizi offerti e ad una loro maggiore presenza omogenea nel territorio, almeno per quanto riguarda il settore semiresidenziale.
Gran parte di queste “unità di offerta” sono gestite da Enti di Terzo Settore, in prevalenza Cooperative Socialìi, ma anche Fondazioni e Associazioni che sono state coinvolte, seppure in modo altalenante, anche nelle attività di programmazione di carattere regionale e locale.
Da “sociali” a “sanitari”
A partire dagli Anni 2000, abbiamo assistito a un incremento della qualità del servizio offerto, almeno dal punto di vista assistenziale. Si tratta di un sistema che, progressivamente, ha modificato però la propria natura, adottando modalità di gestione mutuate dall’ambito ospedaliero: una scelta non dichiarata, ma attuata nei fatti, sia perché una parte significativa delle risorse che sostiene i servizi proviene da fondi sanitari, ma anche perché si tratta di regole e procedure che possono essere facilmente controllate in modo “oggettivo”, cioè automatico e in modo impersonale, semplicemente adottando delle check list.
La progressiva sanitarizzazione dei servizi sociosanitari ha coinvolto, seppure in modalità differente, anche gli interventi di carattere più schiettamente socioassistenziale che, pur con contenuti differenti, vengono finanziati e controllati secondo un sistema che risponde alla medesima matrice ideologica.
Uno degli esiti più facili da rilevare è che, in questa rete di unità di offerta, le persone con disabilità possono entrare con una discreta facilità, almeno fino a quando trovano posti liberi, ma invece non ne escono quasi mai. Il sistema, infatti, non prevede e non prescrive alcuna modalità di progressiva emancipazione delle persone dalla dipendenza dei servizi e degli operatori in favore, ad esempio, di processi e percorsi di inclusione sociale o lavorativa di alcun genere. Il risultato è che nonostante in soli quattro anni (2005-2009) i “posti” disponibili finanziati da Regione e Comuni nei servizi diurni siano stati triplicati, questi si siano saturati rapidamente, mantenendo nel tempo il fenomeno delle liste di attesa.
Distorsioni sanitarie
Oltre agli effetti sociali e nelle vite delle persone, l’adesione, spesso acritica, a questo modello di gestione delle politiche sociali (che non è comunque un’esclusiva lombarda) ha determinato altri effetti distorsivi nella vita e nell’identità stessa dei servizi e dei loro enti gestori.
I “Centri”, che oggi chiamiamo in modo molto variegato a seconda della loro tipologia, ma anche della loro collocazione territoriale, nascono e si sviluppano negli Anni Ottanta, come risposta e sostegno alla scelta che le famiglie delle persone con disabilità compivano di rifiutare l’istituzionalizzazione dei loro figli e di far frequentare loro le scuole comuni, di tutti. Una volta terminate le scuole, i ragazzi con disabilità, diventati nel frattempo giovani e adulti, non trovavano nella società (come del resto continuano a non trovare oggi) la stessa capacità di accoglienza dimostrata dal mondo della scuola. Chi non riusciva a inserirsi nel mondo del lavoro rimaneva, e continua a rimanere, “in carico alle famiglie”.
I “Centri” nascono quindi con l’obiettivo di provare a continuare il lavoro di inserimento e integrazione sociale (che oggi chiamano inclusione) avviato con la scuola: non come contenitori di persone, ma come punti di partenza e di transito verso altri percorsi e altri luoghi. Non a caso la prima denominazione di queste realtà nella città di Milano negli Anni Ottanta era quella di CTR (Centri Territoriali Riabilitativi) e le persone con disabilità passavano una parte significativa della giornata in spazi ordinari della società e della comunità. Non si tratta di idealizzare un passato lontano dove certo non sono mancati errori e problemi, anche di uno certo spessore, ma di misurare le differenze, i cambiamenti.
Si tratta di prendere atto che le modalità di funzionamento, finanziamento e controllo dei servizi hanno modificato, quasi geneticamente, la natura del loro intervento.
Uno degli effetti del “quasi mercato” è stato quello di imporre, nei fatti, un modello di gestione imprenditoriale, basato sull’efficienza, gestionale e economica. Ad esempio, viene dato per scontato che, nel momento in cui si apre un nuovo servizio, si debba arrivare rapidamente alla saturazione dei posti per poterlo rendere sostenibile da un punto di vista economico. Allo stesso modo, sono le regole di finanziamento del “vuoto per pieno” a definire quanti giorni una persona con disabilità possa non frequentare il Centro (o non essere presente in Residenza), per poter andare in vacanza o semplicemente fare altro (la spesa, un giro in centro o anche solo alzarsi tardi).
Ma sono molte le regole esplicite o implicite a rappresentare e definire il funzionamento di un servizio in base alle prestazioni che vengono effettuate, con una certa preferenza per quelle definibile di carattere terapeutico o riabilitativo. Il tutto rimanendo indifferenti al crearsi di situazioni paradossali se viste con un occhio esterno.
Solo a titolo di esempio, nelle unità di offerta sociosanitarie non si possono avere animali da compagnia, ma si può fare la pet therapy; le persone con disabilità non possono entrare liberamente in cucina per farsi un caffè, ma possono partecipare a laboratori di pasticceria, fatto salvo il divieto di mangiare quello che si è preparato… La stessa persona con disabilità che alla sera assume dei medicinali da genitori, spesso anziani, nel tempo di permanenza al Centro dovrà sempre fare riferimento a un infermiere per la “somministrazione delle terapia” (e pazienza se questo renderà sempre più difficile organizzare attività esterne …).
Questo effetto distorsivo ha evidenti conseguenze negative prima di tutto sulla vita delle persone con disabilità, come in quella degli operatori sociali, ma anche, come abbiamo visto, sulla sostenibilità del sistema stesso. Un sistema che, a distanza di anni, appare imballato e alla ricerca di nuove vie. Anche per questo motivo la stessa Regione Lombardia ha pensato di approfittare delle nuove risorse provenienti dallo Stato per implementare un nuovo pilastro di intervento basato fortemente sulla domiciliarità. Il tutto, però, senza mai mettere in discussione le basi che reggono i servizi storici.
Giovanni Merlo
Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Il presente contributo è un estratto dal volume “Dirigere servizi alla persona. Competenze e metodologie” (Edizioni Dapero, 2021), che raccoglie quanto prodotto nell’omonimo corso promosso dalla Fondazione ESAE di Milano e dalla Fondazione Cariplo che ne ha finanziato il progetto. Il testo che qui pubblichiamo è già apparso in “Persone con disabilità.it” e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
21/11/2021 http://www.superando.it
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