Ma rimane un delitto rubare quando si ha fame
Guardiamolo questo nostro Paese com’è ridotto, governato nell’incompetenza di chi ha il solo ruolo di cameriere di ceti dominanti: una povertà assoluta che coinvolge oltre 4 milioni e mezzo di residenti, con la maggioranza delle famiglie che percepisce meno del reddito medio.
Lo sappiamo da Gramsci che “ogni Stato è una dittatura” [1]. Quello attuale, imperniato formalmente sulla democrazia e sul lavoro, sulla pari dignità sociale e sulla rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano libertà ed eguaglianza dei cittadini [2], si mostra sempre più palesemente per essere espressione degli interessi dei ceti dominanti. Come strumento di accumulazione di capitale e impoverimento generale; di “miserabile accumulazione”, per usare un termine molto efficace utilizzato dal prof. Maurizio Donato in unarticolo scritto per La Città Futura.
Di fronte a questa condizione di impoverimento del Paese, lo Stato rinuncia sempre più a mantenere per sé il ruolo di soggetto per la protezione sociale dei cittadini. Il sostegno, anche da parte del governo, alla contrattazione tra aziende e lavoratori che affida il welfare all’impresa, ne è un chiaro esempio. Ora si rende una questione privata anche la protezione individuale, dopo essere passati “da un modello di comunità inclusiva, ispirato allo «Stato sociale», a uno Stato esclusivo, ispirato alla «giustizia penale» o al «controllo della criminalità»”[3]. E così ridotti, i governi stanno bene attenti a “scegliere con cura i bersagli che sono presumibilmente in grado di contrastare e contro cui possono sparare le loro salve retoriche” [4]: i più poveri, gli ultimi, gli immigrati, gli emarginati, sulla cui pelle vengono sempre più frequentemente e artatamente costruite minacce da emergenza sociale da contrastare con sempre più soffocanti misure di ordine pubblico.
Per avere un’idea della scala di valori adottata da uno Stato espressione dei gruppi sociali più benestanti, basti guardare al fatto che nelle nostre leggi i poveri, gli esclusi, gli emarginati non sono nemmeno menzionati. Solo nel codice penale, di derivazione del fascista codice Rocco, “l’unico riferimento indiretto, non per tutelare ma per reprimere, è alla realtà dell’accattonaggio” [5]. Nella stessa direzione si sono mossi tutti i provvedimenti di ordine pubblico, dall’istituzione dei sindaci sceriffo fino all’ultimo, indecente, decreto Minniti-Orlando. Nel frattempo, nella ricerca di voti e consenso speculando sui disagi, la paura e la rabbia popolare, si discute di allargare la possibilità di difendersi da soli, in una fuga a destra fino ad abbracciare, nei fatti, le richieste della Lega Nord diSalvini. Il segretario nazionale del PD, Matteo Renzi, ad esempio, pare vada ripetendo che non si può “lasciare la sicurezza alla destra e poi meravigliarci se nelle periferie scelgono la Lega o Grillo. Dobbiamo andare a prenderci quei voti”.
La strada che si percorre è quella di rendere, sempre più, la giustizia un fatto privato. Un regolamento di conti tra chi ha da difendere un patrimonio personale e chi vive ai margini. Un rafforzamento della tutela tutta rivolta ai beni materiali individuali, mentre si indebolisce la tutela per i beni pubblici, per la salute, per il lavoro, per il diritto alla casa. D’altronde, “decidere se e quando una condotta costituisce un reato non è infatti mai una scelta neutrale. Ad influire sulla catalogazione dei comportamenti come permessi o proibiti sono l’ideologia dominante, i rapporti economici, le emergenze politiche”. Fateci caso: “a essere sanzionati più severamente sono in genere i fatti che destano maggiore allarme sociale fra i benestanti” [6]. Desta più allarme sociale e viene richiesta più severità per i reati tipicamente commessi da chi si trova ai margini della società che per quelli perpetrati da chi nella società ha un peso. Così, ci si accanisce più per uno scippo che per un illecito fiscale; più per una rapina in una gioielleria che per la rapina della salute per un disastro ambientale o per la scarsa sicurezza nei luoghi di lavoro. Eppure, quanti furti bisognerebbe mettere insieme per arrecare il danno sociale di una sola evasione fiscale di una grande azienda? E non vale di più la salute pubblica di un bottino di gioielli e oro?
E intanto, quale strumento di legittima difesa ha realmente un lavoratore precario, vessato o un disoccupato? Quale legittima difesa può opporre un bisognoso per difendere la propria dignità? Praticamente nessuno, se si pensa a cosa sono stati ridotti i diritti dei lavoratori; se si pensa all’abbandono a cui sono lasciate le persone in stato di necessità; se si pensa che, se da una parte si allarga l’istituto della legittima difesa per difendere i beni materiali individuali, dall’altra la legittima difesa dallo stato di bisogno è praticamente sempre punibile. Ciò in quanto l’orientamento della giurisprudenza sostiene che “la miseria non giustifica quasi mai la commissione di reati”, perché “solo quando il danno è imminente e certo e può verificarsi da un momento all’altro il pericolo è attuale e la violazione della legge è giustificata” [7]. Pertanto, mentre si allargano le possibilità perché si possa sparare ed uccidere un uomo per difendere la proprietà di un anello d’oro o di un quadro, si sostiene che non è sempre giustificabile, ad esempio, il furto di una pagnotta di pane quando non si hanno i soldi per acquistarla se la fame non sta per ucciderti da un momento all’altro; mentre si discute se sia giusto o meno sparare ad un ladro in fuga, non ci si sogna neppure di mettere in dubbio che l’occupazione di una casa disabitata sia reato pure se si è agito per garantire il diritto ad avere un tetto sulla testa e non morire di freddo in strada.
Nel frattempo, e attraverso la repressione delle lotte sociali, lo Stato mantiene per sé la protezione delle condizioni che tengono fermi gli attuali rapporti sociali, cioè quelle condizioni che aggravano la povertà, la precarietà, l’emarginazione mentre rafforzano le posizioni sociali di quanti accrescono le proprie ricchezze con lo sfruttamento di chi è costretto ad una vita di scarto. Come a dire: crepino pure i poveracci, e comunque che non si disturbino coloro che li mantengono nella condizione di subalternità.
Continuano, insomma, a insegnarci “la meraviglia verso la gente che ruba il pane” con giustificazioni da imbonitori quali: la corsa alla modernizzazione dello Stato, la necessità di ridurre le spese, la competizione individuale spacciata come stimolo necessario al miglioramento delle proprie condizioni, ma che in realtà è spietatodarwinismo sociale. Una condizione pre-novecentesca, dal momento che pure Victor Hugo, ne I Miserabili si chiedeva retoricamente se una società possa avere “il diritto di far pagare ai suoi membri da una parte la sua imprevidenza irragionevole e dall’altra la sua spietata previdenza; e di tenere per sempre un poveretto tra una deficienza e un eccesso: deficienza di lavoro, eccesso di castigo”.
No, non ne ha il diritto. E noi “verremo ancora alle vostre porte e lo grideremo ancora più forte”.
Carmine Tomeo
13/5/2017 www.lacittafutura.it
Note:
[1] A. Gramsci, L’Ordine Nuovo, 1 marzo 1924
[2] Cfr. Costituzione della Repubblica Italiana, Principi fondamentali, artt. 1 e 3
[3] Z. Bauman, Vite di scarto, Editori Laterza, 2003
[4] Ivi
[5] E. Pazé, Giustizia, roba da ricchi, Saggi Tascabili Laterza, 2017
[6] Ivi
[7] Ivi
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