Macron vieta gli sguardi sulla polizia
Le piazze francesi tornano a riempirsi mentre si approva il 24 Novembre il progetto di legge sulla «sécurité globale»: un testo fortemente voluto dal governo e dai sindacati di polizia che, tra le altre cose, punisce con una sanzione di 45mila euro e un anno di prigione la diffusione dell’«immagine del viso o di ogni altro elemento di identificazione» di un poliziotto o gendarme in servizio con lo scopo di «attentare alla sua integrità fisica o psichica».
Secondo Gerald Darmanin, Ministro dell’Interno e mandante del progetto di legge, questa limitazione del diritto di informazione è una tutela per le forze dell’ordine, che riceverebbero costantemente minacce e ritorsioni. Al di là del fatto che non esistono prove riconosciute e nemmeno cifre ufficiali in proposito e che da un punto di vista giuridico sono già previste sanzioni in materia, è evidente che il bersaglio del provvedimento è la possibilità per i cittadini di denunciare in tempo reale gli abusi polizieschi, una pratica che si è largamente diffusa prima nei quartieri popolari e poi con il movimento dei Gilet Gialli. L’annuncio del progetto prevedeva la necessità di accreditarsi come giornalisti presso la prefettura per poter coprire le manifestazioni. Gli articoli di legge ormai approvati all’Assemblea Nazionale non vietano espressamente di filmare (un emendamento decorativo garantisce il «diritto di informare»), ma attribuiscono agli agenti la facoltà di mettere in stato di fermo (garde à vue) chi filma, sulla base del sospetto che possa diffonderlo non per esercitare un diritto di informazione bensì per istigare a un delitto contro l’agente in questione. Certo sarà il tribunale a giudicare se questo è il caso o meno, ma intanto il fermo è effettivo e svolge una funzione «dissuasiva».
A questa garanzia di opacità, il progetto di legge aggiunge e legittima l’uso di nuovi mezzi di sorveglianza: dall’accesso a telecamere all’uso di droni (già impiegati al di fuori di ogni protocollo legislativo dalla polizia parigina nonostante la condanna del Consiglio di Stato) le cui immagini verranno trasmesse in diretta alla prefettura con possibilità di riconoscimento facciale in tempo reale.
Questo progetto di legge non emerge dal nulla, ma fa parte di una torsione autoritaria di lungo corso: iniziata con lo Stato di emergenza in seguito agli attentati al Bataclan nel 2015, esplosa in risposta ai cicli di lotte contro la «loi travail», al movimento dei Gilet gialli, alle mobilitazioni contro la riforma delle pensioni, e prolungatasi recentemente con la recrudescenza islamofoba a seguito del tragico omicidio del professore di liceo Samuel Paty. Si tratta di una riforma a carattere fortemente regressivo, che viene discussa contemporaneamente alla riforma della ricerca (Lpr) e del reato di «separatismo» religioso (attualmente in discussione al Consiglio di Stato), in un momento in cui ogni mobilitazione è resa difficile dal lockdown.
In questi ultimi anni filmare la polizia è diventata un’arma di difesa utilizzata in contesti diversi: tanto nelle manifestazioni, represse sempre più brutalmente, quanto nei quartieri popolari, tradizionalmente esposte a una violenza sistemica e razzista. Il progetto di legge è prima di tutto una risposta a queste pratiche di autodifesa, che in molti casi possono inibire il comportamento violento della polizia e costituiscono le sole prove giuridiche di tutela delle vittime. Per esempio, a marzo del 2020 è stata lanciata un’applicazione per filmare e documentare le violenze poliziesche, l’app Urgence Violences Policières. L’iniziativa è nata dal collettivo Urgence notre police assassine, che riunisce militanti e familiari delle vittime, e permette di registrare l’intervento delle forze dell’ordine senza che queste possano subito cancellare i video o sequestrare il cellulare.
Il contesto autoritario da cui nasce la riforma si intuisce dai numeri delle vittime della brutalità poliziesca durante le manifestazioni dei Gilet gialli. Indicativamente, solo tra Novembre 2018 e Aprile 2019 si contavano già 23 manifestanti che avevano perso un occhio a seguito degli spari di flashballs, 5 che avevano perso una mano a causa delle granate di dispersione e una donna a Marsiglia, Zineb Redouane, uccisa da un tiro di lacrimogeno mentre chiudeva le imposte del suo appartamento. La controinformazione ha giocato un ruolo di testimonianza importante durante queste lotte. Basti pensare all’affaire Benalla, un incaricato della sicurezza del gabinetto presidenziale di Emmanuel Macron che il primo maggio 2018 affiancava nella completa informalità la polizia durante i pestaggi a place de la Contrescarpe: la vicenda è divenuta nota grazie alle riprese del giornalista indipendente Taha Bouhafs. Ma la produzione di immagini – girate non solo da giornalisti ma anche dai manifestanti stessi nel corso dei diversi «atti» dei Gilet gialli – è andata oltre la semplice testimonianza per diventare la rappresentazione di come il potere del governo riposi unicamente sulla polizia.
Il movimento dei Gilet gialli, costantemente criminalizzato dai media ufficiali e dal loro disprezzo di classe, ha saputo conquistare un’egemonia e produrre una vera «crisi mediatica» che ha investito lo Stato e il giornalismo ufficiale che si vuole oggettivo. Come scriveva il collettivo di fotografia sociale La Meute «i fotografi della stampa non fanno che testimoniare dello stato del mondo – quello che ci importa è di cambiarlo […] Nel momento in cui l’immagine è diventata un mezzo totalmente accessibile, sia dal punto di vista della consultazione che di quello della sua produzione, abbiamo la necessità di rimettere in discussione l’egemonia dominante, di Stato, sulla nostra cultura mediatica». Attraverso questa accumulazione di sguardi si sono costituite nuove simbologie e sono cambiati radicalmente i sentimenti collettivi anche nei confronti delle forze dell’ordine, che non sono più considerate solo un’istanza dell’ordine pubblico ma una diretta espressione dell’autoritarismo politico.
Al termine del primo lockdown, le immagini dell’infermiera in camice bianco e viso insanguinato, trascinata per i capelli da un celerino durante la manifestazione del 16 Giugno, ha messo fine alla patetica retorica di unità nazionale tentata dal discorso di Macron sulla «guerra contro il virus». Tra tutte le guerre civili in corso, Macron ha certamente perso quella delle immagini. La legge «sécurité globale» ne è la testimonianza.
Per altro verso, è bene ricordare che la controinformazione non è un fenomeno esclusivamente legato alle manifestazioni, ma fa parte delle pratiche quotidiane di autodifesa contro la violenza razzista che si vive nei quartieri popolari. Diverse ricerche nelle scienze sociali hanno considerato le banlieues dei laboratori di brutalità poliziesca, sottolineando la circolazione di mezzi, saperi e agenti tra i territori colonizzati e queste «colonie interne». Per fare un esempio, l’attuale polizia dei quartieri popolari Bac (Brigade Anti Criminalité) affonda le sue radici e metodi nelle Brigades Nord Africaines dedicate al controllo degli immigrati arabi a Parigi nel periodo della decolonizzazione, includendo progressivamente tra i propri agenti ex-militari di stanza in Algeria.
Questa violenza poliziesca razziale, benché costantemente «invisibilizzata» attraverso un apartheid sociale e urbano, ha anch’essa dovuto condurre una «guerra delle immagini» contro gli abitanti dei quartieri. Si tratta di uno scontro di lungo corso, che sarebbe interessante conoscere e ricostruire a partire da chi, nelle banlieue, ha prodotto le proprie immagini: dal Collectif Mohamed nato a Vitry e Aubervilliers tra il 1979 e il 1981, all’agenzia audiovisuale Immigration Média (Agence Im’Média) costituita nel 1983, alle riprese delle azioni e mobilitazioni del Mib (Mouvement Immigration Banlieue) durante gli anni Novanta, fino alle testimonianze dei comitati di «giustizia e verità» attuali. Si tratta di esperienze che hanno usato l’immagine sia come testimonianza che come rappresentazione politica di una vita nei quartieri popolari da sempre scandita dalle violenze poliziesche.
È questa lunga sedimentazione storica ad aver fatto sì che le manifestazioni lanciate dal Comité Adama – dal nome del giovane di 24 anni ucciso durante un fermo di polizia a Beaumont-sur-Oise il 19 Luglio 2016 – potessero sincronizzarsi immediatamente con lo slogan statunitense I can’t breathe!. L’ampiezza delle mobilitazioni di questa primavera aveva indirettamente forzato il ministro Castaner a prendere una posizione critica sulla tecnica di immobilizzazione usata dalla polizia che aveva condotto al soffocamento di Adama, Lamine Dieng e molti altri giovani (la «clé d’étranglement»). Il principale sindacato di polizia, Alliance, era subito insorto contro questa dichiarazione, spingendo Castaner a ritrattarla. Nel contesto di crescente ostilità generale nei confronti della forze dell’ordine, c’è stato un maggiore margine per richiamare l’attenzione su come la brutalità sia tutt’altro che eccezionale nei quartieri popolari. Il 6 dicembre 2018 è circolato online un video fatto da un poliziotto a un gruppo di 151 studenti del liceo di Mantes-la-Jolie, banlieue a nord-ovest di Parigi, arrestati per aver tentato di occupare la scuola. Questi ragazzi venivano mostrati inginocchiati e con le mani dietro la nuca. «Ecco una classe che si comporta bene» constatava il poliziotto nel video. Il fatto di poter pensare di riprendere una scena simile mostra chiaramente la certezza di impunità di cui godono le forze dell’ordine nel momento in cui si rivolgono a certe categorie di popolazione.
In un doppio movimento che vieta di guardare e impone di essere osservati, la «loi de sécurité globale» pretende di ristabilire un’asimmetria di sguardi tra la piazza e la polizia, tra il controllato e il controllore. Ma quali misure saranno prese per impedire che centinaia (o migliaia) di persone usino i loro cellulari in una manifestazione o per frenare e controllare il flusso delle immagini nella rete? Come sarà possibile dissimulare e negare la violenza che in Francia, come altrove, regge i rapporti di classe e razza? Negli sguardi contro la polizia sta la difficile ricerca di una libertà che non sia fondata sulla disciplina: una libertà sganciata dalla sicurezza.
Martino Sacchi e Duccio Scotini vivono a Parigi, sono ricercatori e seguono con interesse gli sviluppi dei movimenti sociali degli ultimi anni.
27/11/2020 https://jacobinitalia.it
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