Madri che si dimettono, indignarsi non basta più
In questi giorni, improvvisamente, abbiamo scoperto di avere un problema con le donne. O meglio, con la genitorialità.
L’Ispettorato nazionale del lavoro ha pubblicato la sua relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri e, nelle ultime ore, si sono moltiplicati gli interventi, le dichiarazioni, gli articoli. Quasi come fosse una notizia.
Purtroppo, invece, la relazione di quest’anno non dice niente di nuovo rispetto a quella dell’anno precedente o rispetto a qualunque altro studio, report, analisi sia stato fatto su questo tema negli ultimi dieci anni. In Italia, essere madre è una colpa. Si conferma sostanzialmente la proporzione 73% donne e 27% uomini, con questi ultimi in netto aumento rispetto al 2017 (22,8%) e soprattutto rispetto al primo anno di rilevazione, il 2011 (2,9%). Anche se, leggendo bene i dati, le motivazioni tornano a restituirci un problema di conciliazione quasi esclusivamente femminile: su 13.947 convalide totali riferite ai lavoratori padri, 11.488 hanno come motivazione il “passaggio ad altra azienda”.
È necessario riequilibrare tempo, energie e risorse dei carichi di cura, certo. Per quanto la cultura non si cambia con le leggi, è innegabile che le leggi possono aiutare: ad esempio, introducendo incentivi per la partecipazione dei padri alla gestione familiare (a iniziare da un aumento dei giorni di congedo obbligatorio e da un’indennità dignitosa per i congedi parentali).
Tuttavia, sarebbe errato pensare che vi sia solo un tema di condivisione. È evidente, anche dalle risposte date dai genitori nella relazione dell’Ispettorato, che c’è ancora un enorme tema di conciliazione. E, dunque, di servizi.
Iniziamo dagli asili nido: Uil ha fatto uno studio sulle rette e, anche qui, il risultato è tutt’altro che sorprendente. Gli asili costano troppo. Ma spesso, prima ancora di essere un problema economico, è un problema di accesso: nel nostro paese ci sono solo 24,7 posti disponibili ogni 100 bambini (l’obiettivo europeo è del 33%). Con differenze territoriali enormi: dal 47,1% della Valle d’Aosta all’8,6% in Campania.[1] Secondo una ricerca Anci, per arrivare all’asticella fissata dall’Ue si dovrebbero costruire 9.064 nuove sezioni di asilo nido, per un fabbisogno complessivo di quasi 2,2 miliardi.
Ma sarebbe miope pensare di risolvere la questione “servizi” occupandosi solo degli asili nido. Guardiamo alla scuola primaria: secondo gli ultimi dati Miur, il tempo pieno è ancora scarsamente diffuso e, anche qui, si registrano differenze notevoli a livello territoriale. Se nel Lazio il tempo pieno è disponibile nel 58,4% delle classi, in Piemonte nel 57% e in Toscana nel 55,6%, muovendoci verso Sud troviamo una differenza che non è eccessivo definire incostituzionale: 28,5% in Calabria, 22,3% in Campania, 18,7% in Puglia e addirittura 12% in Molise e 11,6% in Sicilia.
È evidente, dunque, che se in un’ipotetica famiglia leccese il figlio di 7 anni esce da scuola alle 13.30, non sarà sufficiente che i due genitori abbiano concordato un’equa divisione di compiti: uno dei due deve rinunciare ad avere un lavoro a tempo pieno. Non è difficile immaginare chi sarà a chiedere il part-time, anche a causa della nota disuguaglianza di genere nelle retribuzioni. Ecco che ogni pezzo del complesso e purtroppo ricco mosaico della disparità tra uomini e donne nel nostro paese si tiene insieme, rafforzando una situazione di profonda iniquità.
Non rimane certo fuori da questo quadro l’elemento culturale – che, anzi, ne è a fondamento. Leggere ancora oggi dichiarazioni come “se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso deve preoccuparsi” o “i bambini maschi non giocano con le bambole” è grave: doppiamente, se viene detto da una persona che ha anche un ruolo di formatore e che, essendo volto noto della televisione, entra nelle case di milioni di famiglie italiane.
Cosa fanno le istituzioni, in primis, e cosa facciamo tutti noi, per combattere ed estirpare questi stereotipi? Quanto investiamo nella formazione dei bambini ma anche e forse soprattutto degli adulti, su questi temi?
Non è possibile meravigliarsi dei dati pubblicati dall’Ispettorato del lavoro, se si ha una minima consapevolezza della condizione delle donne nella nostra società, sotto ogni profilo. Chiariamoci: è giusto dare a quei dati spazio e rilevanza, perché è anche questo un modo per diffondere quella stessa consapevolezza.
Tuttavia, soprattutto chi ha responsabilità decisionali, a qualunque livello, non può più limitarsi alla denuncia. Per anni l’alibi è stato “non ci sono i soldi”. Invece, come sempre, il problema è che non si è mai ritenuto questo problema come meritevole di finanziamenti adeguati, destinati puntualmente altrove. Le risorse ci sono, basta pensare ai fondi comunitari. Tra Fondo sociale europeo e Fondo europeo di sviluppo regionale, i finanziamenti non ancora impegnati per il periodo 2014-2020 ammontano a 37,9 miliardi di euro. La Commissione ha acconsentito a una riprogrammazione di questi fondi, per aiutare a far fronte alle emergenze nate dalla crisi, prima sanitaria e poi economica, innescata dalla diffusione del Covid19.
Servono competenze, progettualità e soprattutto la reale volontà politica di non fermarsi al commento dei dati che certificano la gravità della condizione delle donne in Italia ma di agire realmente per porvi rimedio.
Note
[1] Rapporto Istat 2020 “Nidi e Servizi Educativi per l’Infanzia”
Ivana Veronese
1/7&2020 http://www.ingenere.it
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