MANI IN ALTO, QUESTO È UN MARKETING
«Abbiamo un piano con un punto cardine: | trasformare i consigli per gli acquisti in un ordine, | affossando i programmi di qualità | perché l’utente intelligente si sa | che non ama la pubblicità» rappa alla grande Caparezza, insofferente all’ordine costituito del marketing di piazza.
Anche persone di comprovata intelligenza, al giorno d’oggi, bevono come verità sacrosanta i dettami del marketing. A livello lavorativo, siamo giunti a considerare come indiscutibili dogmi markettari quali l’acquisto compulsivo, gli orari di lavoro inesistenti, l’essere sempre positivi (anche quando palesemente vorremmo sussurrare «dammi una lametta che mi taglio le vene») e soprattutto ad avere sempre un bel sorriso stampato sulla faccia e un entusiamo “coinvolgente”, dove il problem solving è caratteristica fondamentale anche quando a crearti problemoni è l’azienda stessa.
«La pubblicità ha spinto questa gente ad affannarsi per automobili e vestiti di cui non hanno bisogno. Intere generazioni hanno svolto lavori che detestavano solo per comperare cose di cui non hanno veramente bisogno» riassume Chuck Palahniuk nel romanzo «Fight Club», da cui hanno tratto un bel film ribelle, con una analisi molto attinente al vero.
Quante volte andiamo (tutte/i?) nei supermercati di domenica, a fare la fila per il cellulare di ultima generazione, di quelli che da listino si fregiano del prezzo di mille euro, compresi auricolari wireless che da soli costano quanto un cellulare di fascia media, oppure per fare la spesa quando invece abbiamo il frigo pieno? E poi c’è “zio” Fiorello a ricordarci come è piùùùùùùù bello essere in famiglia se si possiede una Wind Family?
Il grande fotografo Henri Cartier-Bresson lo disse con estrema chiarezza: «La pubblicità è il braccio armato di un sistema che senza di essa crollerebbe. Ci costringe a comprare». Bresson usò un’immagine molto guerresca che – da buon narratore per immagini – “sviluppa e stampa” in modo indelebile nell’anima una metafora da paura: la società controlla la mente delle persone con le tecniche del marketing pubblicitario, usando le conoscenze della neuroscienza e della neurolinguistica oltre che della psicologia di massa.
Quasi da paura: è come vivere in uno Stato totalitario che annulla le coscienze e le assoggetta ai propri meccanismi senza alcuna remora, tanto gli esseri umani non sanno che farsene della propria libertà nel dopo-lavoro, fino a quando non sono i pubblicitari a dirglielo.
Il fondatore della Apple nonché guru del marketing di se stesso, Steve Jobbs, non vede (ovviamente?) le cose in questo modo: «Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario».
Seguendo il cuoricino e non i “consigli per gli acquisti” cerchiamo di tornare padroni del nostro tempo e occupiamoci di attività creative, lottando per condizioni di lavoro migliori, più giuste ed eque per tutti. Utopico?
La filosofa italiana Gloria Origgi pare essere più concreta: «Politica e marketing sono due attività profondamente differenti, una basata sulla partecipazione dei cittadini, l’altra sulla persuasione dei consumatori. Le due attività hanno negli anni usato tecniche sempre più simili, come la pubblicità e varie forme di propaganda diventando spesso agli occhi del pubblico indistinguibili. Così degli abili uomini di marketing sono riusciti a sfruttare il sistema politico e il meccanismo elettorale per farne uno strumento di auto-promozione. A cosa serva poi l’auto-promozione è un altro problema: a salvare i conti delle proprie aziende, a guadagnare l’immortalità, a soddisfare aspirazioni di gloria… sicuramente non a fare politica». Origgi ragionava così in un discorso più ampio dove paragonava Trump a Berlusconi.
Lo scrittore George Orwell aveva ben riassunto la natura della pubblicità, in modo assai lapidario, quasi da cimitero: «La pubblicità è il rumore di un bastone in un secchio di rifiuti».
Rimestando questo secchio di rifiuti nella speranza che ci sia qualcosa di riciclabile saremmo “positivi” come ci insegnano i markettari che lavorano per obiettivi e vengono pagati solo se li raggiungono, quasi soldati coscritti.
Concludo con il fumettista Leo Ortalani: «Per me il marketing era quando mio babbo andava al supermercato e tornava con l’auto carica di tonnellate di cibo e suonava e tutti noi tre fratelli si andava giù ad aiutarlo a portare su le borse. Terzo piano senza ascensore. Però, fisicamente, a distanza di anni, facciamo ancora la nostra figura». Il papà del papà del personaggio Ratman la sapeva lunga… almeno in fatto di muscoli per salire le scale.
Ma io insisto nella perfidia: quante/i di noi si troverebbero spaesati non avendo gli ipermercati dove andare a passare il tempo?
20/7/2018 www.labottegadelbarbieri.org
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