Manuale per il prossimo ’68

E’ successo che la prima generazione scolarizzata del dopoguerra ha generato il Sessantotto. Dappertutto nel mondo. In Occidente come a Est – oltrecortinacome si diceva allora – e nei paesi “in via di sviluppo“, sempre per usare una terminologia per nulla neutra. Fu una rivolta globale e complessiva, con parecchie differenze da un capo all’altro del pianeta, ma sempre contro il modello di sviluppo, la morale, i costumi e i consumi. E durò a lungo, specialmente in Italia, costruendo anche istituzioni di movimento, legami politici e organi di controcultura. Giornali, riviste, centri sociali, radio libere, autoproduzioni, gruppi politici della nuova sinistra. Ovunque i giovani erano la maggioranza della società e rivendicavano protagonismo non solo e non tanto contro le generazioni dei padri ma contro i padroni del vapore, dell’istruzione, della cultura, delle città. I movimenti avevano bisogno di decostruire le versioni ufficiali, le teorie che sorreggevano i meccanismi autoritari e di sfruttamento. E passato e futuro si fondevano lungo linee di ricostruzione della memoria dei vinti che diveniva una formidabile cassetta degli attrezzi per le nuove generazioni che lottavano. Anche l’operaio vuole il figlio dottore, recitava una famosa canzone dell’epoca per raccontare lo scandalo delle classi dominanti di fronte all’insorgenza e alle pretese di una gioventù che reclamava con forza di riprendersi la terra, la luna, e l’abbondanza (citando un altro di quei cantori). Era successo, insomma, che la tendenziale massificazione dell’università e dell’istruzione – che doveva essere funzionale alle esigenze dettate dai mutamenti produttivi – s’era trasformata nella scena per l’irruzione di un proletariato giovanile colto e irrequieto, capace di decodificare e smentire la tendenza delle classi dominanti a mistificare la storia e la scienza per giustificare e perpetuare il proprio dominio.

Il dato sociologico, ossia la composizione sociale delle università e dei licei, più l’incidenza della componente giovanile rispetto alla popolazione complessiva, sembra fornire il contesto in cui è stata possibile l’irruzione dei giovani e degli studenti sulla scena politica e culturale. Non che prima di allora i giovani fossero avulsi da ciò che accadeva loro intorno (utile rivedersi il Gramsci della “quistione” dei giovani o “Teppa” di Valerio Marchi ) ma, trattandosi perlopiù dei rampolli delle classi dominanti, la loro apparizione aveva avuto una connotazione di classe precisa: Sian maledetti quei giovani studenti/ che hanno studiato e la guerra voluto,/ hanno gettato l’Italia nel lutto,/ per cento anni dolor sentirà, diceva un canto popolare divenuto famoso durante e dopo la prima guerra mondiale. L’eco del protagonismo degli studenti nelle “radiose” giornate dell’interventismo, il loro distacco dalle condizioni di vita delle classi subalterne, è ancora vivo perfino nel ’68 quando Pasolini scrive la più strumentalizzata delle sue poesie, all’indomani della battaglia di Valle Giulia quando, per la prima volta, un corteo di studenti non arretra di fronte ai caroselli della celere: (…) Avete facce di figli di papà./ Vi odio come odio i vostri papà. / Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio cattivo. / Siete pavidi, incerti, disperati / (benissimo!) ma sapete anche come essere / prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: / prerogative piccolo-borghesi, cari. / Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/ coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti. / Perché i poliziotti sono figli di poveri. (…)

Un anno dopo, lo scrittore friulano, ha modo di precisare alla rivista Tempo illustrato che quella famosa frase «non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale alla rovescia, in quanto il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri – gli spossessati del mondo – ha la possibilità di fare anche di questi poveri degli strumenti, creando verso di loro un’altra specie di odio razziale; le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università».

Nel dopoguerra, fino agli anni ’60, è proprio la composizione sociale che tiene gli studenti universitari lontani dal conflitto e relegati alle forme della goliardia e degli organismi rappresentantivi. Le organizzazioni studentesche erano il vivaio della futura classe politica. Esisteva un quadrilatero “nero” – Roma, Bari, Napoli e Palermo – in cui era forte il Fuan, sigla legata ai neofascisti del Msi. L’Intesa, di ispirazione cattolica, era più forte in Veneto e a Milano. I liberali dell’Agi erano presenti solo a Torino e l’Ugi, laica e radicale, vedeva tra le sue fila il futuro stato maggiore del Pr tra cui lo stesso Marco Pannella. I più deboli erano gli studenti del Cudi, socialisti e comunisti che sarebbero poi confluiti nell’Ugi. In questa fase l’università conta complessivamente 200mila iscritti. Per fare un paragone si pensi che dieci anni fa, solo gli immatricolati – sia nelle lauree triennali che a ciclo unico – erano 305.847 (anno 2006/2007). Nell’anno accademico 2004/2005 gli iscritti furono 332.628. Per l’anno accademico 2016/2017 le nuove matricole sono state 289.930. Dato in calo ma incommensurabile con quello di mezzo secolo prima. 9.085; gli iscritti, invece, sono 1.681.146. Gli iscritti ad un corso di laurea triennale sono 1.057.079, quelli a ciclo unico 324.412 e quelli in Specialistiche 299.655. Di questi, gli studenti sono 749.361 e le studentesse 931.785. La Sapienza di Roma, con 100.217 studenti, Bologna, con 79.159 e subito dopo la Federico II di Napoli con 75.991 sono gli atenei più affollati seguiti da Torino, Statale di Milano, Padova, Firenze.

Sarà nella seconda metà degli anni Sessanta che inizieranno a crescere le iscrizioni e la partecipazione studentesca manderà in crisi le tradizionali organizzazioni. E’ qui che si registra il protagonismo delle soggettività dell’estrema sinistra e nasceranno forme di mobilitazione degli studenti lavoratori a partire dall’università di Torino. All’indomani del biennio ’68-’69, i militanti che si erano formati in quelle lotte transitarono massicciamente nelle fila delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria. Qualcuno parlò di “fuga dall’università” ma restò un movimento vivacissimo tra gli studenti medi-superiori.

E’ tra il ’73 e il ’76 che si compie l’arrivo negli atenei dell’ondata di scolarizzazione avviata nel 1961 dall’istituzione dell’obbligo scolastico fino alla terza media che, nel frattempo, è stata resa unificata con l’abolizione dell’”avviamento professionale” che separava, dopo la quinta elementare, chi era condannato a un precoce ingresso nel mondo del lavoro e chi avrebbe proseguito gli studi. Intanto anche l’accesso all’università era stato concesso anche a chi proveniva da scuole superiori diverse dai licei. Si tratta di una generazione che ha studiato dentro il ciclo formidabile delle lotte del ’68 e che è consapevole dei limiti dell’università, incapace di fornire una formazione decente e uno sbocco lavorativo adeguato. Fioriscono ovunque collettivi e aggregazioni della sinistra delle professioni (Medicina democratica, Magistratura democratica ecc…): il movimento reclama un ruolo alternativo per la scienza, ne contesta gli statuti e la natura di classe. Fino al ’77 quando la scolarizzazione di massa è al suo culmine ma anche la crisi delle organizzazioni politiche dell’estrema sinistra. Il movimento sembra uno stato d’animo più che un progetto politico e culturale. Seguiranno altre ondate di lotta nell’85 nelle scuole superiori, nel 1990 con la Pantera a occupare quasi tutti gli atenei senza vincere ma sfondando sul piano dell’immaginario. Quegli studenti usciranno dalle facoltà occupate e li ritroveremo nei centri sociali e nelle giovanili dei partiti della sinistra, soprattutto Rifondazione comunista, fino a intrecciare la loro vicenda con quella del movimento dei movimenti. Nel frattempo, le ripetute ondate di ristrutturazioni hanno provocato una mutazione genetica dell’università in parallelo con i colpi del neoliberismo su welfare, lavoro e beni comuni. Che relazione c’è tra questi processi e la crisi delle forme organizzate della politica? Ossia tra contesto ed elemento soggettivo?

Mezzo secolo dopo, in Occidente, molti operai hanno davvero il figlio dottore ma quel pezzo di carta sembra non valere più niente. Anche se questo paese è quello, in Europa, con le tasse universitarie più care e il minor tasso di diplomati e laureati. E i “dottori” sono precari, indebitati, in fuga all’estero col loro cervello. E i loro padri sono esodati, espulsi da un mercato del lavoro feroce, o comunque in bilico tra processi di delocalizzazione, esternalizzazione, compressione di salario e diritti. Ma la versione ufficiale spiega che la povertà dei figli è data dai privilegi dei padri dove per privilegi si intende un sistema di welfare ormai ridotto all’osso. La classe è frammentata dai processi indotti dalle riforme del mercato del lavoro ispirate dall’esigenza precisa, per le classi dominanti, di disinnescare quel potenziale dirompente che s’era manifestato con la scolarizzazione di massa e con la convergenza del movimento studentesco con quello operaio. E, come per le fabbriche, anche le scuole e le università hanno cambiato pelle. Il padrone sa ancora mille parole e l’operaio solo cento e quelle cento vengono stravolte ogni giorno, cambiano di significato secondo il gioco dei revisionismi storici. Prodotto dal succedersi delle sconfitte c’è un tema di analfabetismo di ritorno che si pone anche per i movimenti sociali (come altro interpretare altrimenti l’emergere di un approccio campista o addirittura rossobruno contro la rivoluzione siriana, le primavere arabe e in relazione agli attriti interimperialisti tra Usa e Russia e Cina?) proprio mentre irrompono sulla scena pubblica tendenze xenofobe, fascistoidi, sovraniste e populiste che fanno breccia tra vasti settori popolari anche giovanili. Anche di “sinistra”.

Proprio mentre va in stampa questo libro, uno scrittore romano, Christian Raimo, sta conducendo un’inchiesta per capire perché tra gli studenti medi il fascismo vada così “di moda” (così rispondono i ragazzi interpellati). Alle scorse elezioni studentesche il Blocco studentesco, emanazione di CasaPound, ha collezionato oltre 56mila preferenze nei licei e istituti di tutta Italia eleggendo oltre 200 rappresentanti. Così anche Lotta studentesca, filiale di settore di Forza Nuova, ha raggranellato consensi in parecchi distretti.

Che cosa è successo? Che cosa sta succedendo? Dove e perché s’è interrotta la catena della memoria? Insomma, c’è stato un tempo in cui gli studenti sono stati un indicatore sociale sensibile, ossia tendevano a comparire sulla scena pubblica nei momenti di crisi con quella miscela di disagio materiale e ricerca intellettuale che innescava processi progressivi di presa di coscienza in strati cospicui di società. Già nel 1900 Lenin scriveva che la storia riservava forse agli studenti la funzione di promotori anche nello «scontro decisivo». Perché stavolta la crisi globale non vede protagonista un movimento studentesco e giovanile all’altezza della situazione? Perché la condizione giovanile sembra non essere più il detonatore di una irriducibilità all’esistente che l’aveva connotata nel secolo precedente? Anzi, perché

Il tema della condizione giovanile si pone, nel dibattito pubblico, solo per aumentare l’incomunicabilità fra i settori sociali subalterni e imporre una concorrenza tra loro, al ribasso, a colpi di sgravi fiscali e sforbiciate di busta paga. Come quando il lavoro minorile serviva (e serve ancora) a sostituire quello dei padri. Le donne e i bambini costavano meno degli adulti, poi i contratti di formazione-lavoro furono meno onerosi di quelli delle tute blu “anziane” che, a loro volta, sono incentivate a restare al lavoro anche dopo la pensione in cambio di pochi spiccioli. Intanto gli stranieri costano meno ai loro padroni e gli stranieri giovani meno di tutti. E le fragole del Belgio vennero delocalizzate in Marocco e da lì in Cina per poi migrare chissà dove alla ricerca di nuovi schiavi. E’ possibile invertire la tendenza alla frammentazione delle classi subalterne, contrastare la guerra ai poveri e fra i poveri? Dunque è così nuovo quello che stiamo vivendo? Davvero l’unica cosa da apprendere sono i linguaggi informatici? Che cosa hanno ancora da dirci i classici del marxismo? Una decina di anni fa, un noto sondaggista effettuò mille e passa interviste a studenti milanesi tra i 17 e i 19 anni per scoprire che ci sarebbe la mano delle Br o della mafia dietro la bomba di Piazza Fontana, che si era dimezza la capacità di collocare nel tempo i fatti di piazza Fontana, piazza della Loggia, stazione di Bologna. Che la memoria degli studenti è sempre più vaga e sfuocata. E non solo la loro.

Ecco allora che questo libro parla a tutti perché non è solo un libro di storia ma una specie di manuale. Manuale per il prossimo Sessantotto. Quando studenti e operai, si gridava nelle piazze e si scriveva sui muri, erano uniti nella lotta. E nulla fu come prima. Nemmeno la sinistra. Altrimenti nulla sarà come allora.

Checchino Antonini

21/2/2018 http://popoffquotidiano.it

*questo brano è l’introduzione al libro di Nando Simeone

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