Marginalità alla sbarra: il detenuto straniero.

Il rapporto tra il versante regolare e quello irregolare dell’immigrazione potrebbe essere graficamente rappresentato non con una linea retta, ma attraverso una circonferenza (un circolo ahinoi “vizioso”): ciò principalmente a causa di un meccanismo che vede saldarsi, ad una normativa che irrealisticamente subordina l’ingresso legale dello straniero all’incontro, a livello planetario, tra domanda e offerta di lavoro, la mancanza di adeguate procedure di regolarizzazione degli ingressi e dei soggiorni individuali1. Per gran parte dei migranti che giungono nel nostro Paese, dunque, transitare da una condizione di iniziale irregolarità verso uno status di regolarità è quasi una premessa inevitabile2. Inoltre, è la stessa legislazione a creare un vero e proprio “corto circuito”, che favorisce il passaggio da un polo all’altro delle due estremità del nostro cerchio: l’irrigidimento dei presupposti normativi per il mantenimento dello status di regolarità, soprattutto se legati all’ambito occupazionale, facilita la ricaduta nel torbido limbo giuridico dell’irregolarità, dal quale è molto difficile uscire3.

Le sanzioni penali che si accompagnano a questa condizione, più che distogliere dal compimento di un’azione illecita, sembrano in realtà costituire la porta d’ingresso verso un processo di adattamento delinquenziale. In ambito sociologico, infatti, alcuni autori evidenziano come le teorie di Rusche e Kirchheimer, che attribuiscono al carcere una funzione deterrente nei confronti dei soggetti collocati nelle fasce più basse del mercato del lavoro sulla base del principio della “less eligibility”, potrebbero risentire di qualche eccezione: per i migranti irregolari, infatti, l’ingresso in carcere potrebbe risultare preferibile rispetto alla prospettiva di precarietà e sfruttamento nel mercato del lavoro. L’adattamento criminale può essere percepito come un’attrattiva, se si considera che in carcere gli stranieri hanno un primo contatto con l’assistenza medica e comunque trovano una soluzione al problema abitativo4.

La presenza di stranieri in carcere, oggi, risente pesantemente dell’influsso di una torsione securitaria, alimentata da politiche populiste: da diversi decenni a questa parte, anche nel nostro Paese, i governi di ogni colore puntano alla cd. Crimmigration per ricevere facili consensi5. Così, la paura contribuisce all’espansione, da un lato, di azioni di governo fondate sull’esclusione e sulla negazione di diritti a determinate categorie sociali; dall’altro, di un diritto penale emergenziale che si muove all’interno dei solchi tracciati dall’insicurezza sociale e che individua, di volta in volta, un nemico di turno contro cui indirizzare la propria attività repressiva. Il risultato è l’imposizione di una «ragione securitaria» (Fassin) su quella umanitaria, accentuando ancora di più le divisioni e diffondendo l’idea che la sicurezza di una società dipenda dalla neutralizzazione dei soggetti pericolosi e dalla capacità delle agenzie di controllo formale di anticiparne la diagnosi di pericolosità6.

Gli stranieri attualmente sottoposti a restrizione della libertà personale nel nostro Paese, indipendentemente dalla posizione giuridica ricoperta, sono 16.940 (in netto calo rispetto anni precedenti)7. A smentire il luogo comune per cui gli immigrati commettono reati più gravi, ci pensano le statistiche: reati contro il patrimonio, contro la persona e violazione del testo unico sugli stupefacenti sono i più frequenti8. Si tratta, inoltre, di una peculiare categoria di popolazione detenuta: prevalentemente giovane, con pene da espiare o residui pena molto bassi9.

Il profilo appena descritto stride con il modello “standardizzato” di detenuto uomo, italiano, eterosessuale, tendenzialmente in buona salute, maggiorenne e con scarse capacità intellettive introdotto dalla Legge 26 luglio 1975 n. 354 (d’ora in avanti Ordinamento Penitenziario). D’altronde, la Legge penitenziaria è figlia della sua epoca: negli anni ’70 le identità minoritarie in carcere erano presenti in percentuali molto basse. Per tale ragione, il prototipo di rieducazione ivi delineato difetta del carattere di “dinamicità”, non essendo agevolmente modellabile sulle specificità soggettive del singolo (sia esso straniero, donna, minore, omosessuale o trans-gender). Soltanto di recente con il D.P.R. 30 giugno 2000, n.230 (d’ora in avanti Regolamento di Esecuzione) e, in parte, con le modifiche apportate nel 2018 agli articoli 1 e 13 dell’Ordinamento Penitenziario tale lacuna è stata colmata, cercando di dare adeguatamente risalto alle identità minoritarie in carcere, grazie ad una più efficace individualizzazione del trattamento e valorizzazione dei particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto10.

Sebbene l’art 15 o.p. menzioni tra gli elementi del trattamento i contatti con la famiglia, la religione, l’istruzione e il lavoro e l’art 13 comma 1 o.p. (così come riformato dal d.lgs. 2 ottobre 2018 n. 123) faccia leva su un trattamento rieducativo personalizzato, che risponda ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, occorre prendere atto che le leggi che disciplinano l’esecuzione della pena in Italia non tengono adeguatamente in considerazione le peculiarità del detenuto migrante.

A riprova di ciò, gli elementi del trattamento rieducativo menzionati all’art 15 O.P. rischiano di rimanere privi di effetti per lo straniero, in quanto sono per lo più riconnessi a punti di riferimento stabili (dei quali gli immigrati, soprattutto irregolari, sono privi) e alla conoscenza della lingua italiana11.

Si pensi, innanzitutto, al difficile mantenimento dei contatti con la famiglia: la fruibilità delle visite da parte dei familiari è ostacolata dall’insormontabile distanza; inoltre non è infrequente, nella prassi, che le telefonate vengano effettuate solo ad orari determinati, che non tengono in considerazione il fuso orario dei paesi di provenienza dei detenuti migranti. È vero che la circolare DAP 31246 del 2019 ha favorito la diffusione della piattaforma Skype, equiparando le videochiamate ai colloqui, ma anche per questa fattispecie sono presenti dei limiti sostanziali: innanzitutto, i PC in dotazione di ciascun istituto sono soltanto 2 (oltre al fatto che molti istituti ne sono ancora privi); inoltre, è rimessa alla discrezionalità delle singole direzioni del dap l’individuazione della fascia oraria in cui è possibile usufruire del servizio (riproponendosi così le stesse problematiche riconnesse al fuso orario, per i detenuti stranieri). Ancora, tra i presupposti richiesti, vi è la domanda del detenuto, alla quale vanno allegati diversi documenti che attestino le generalità dell’interlocutore: si comprenderà allora come un detenuto che non parla la lingua italiana, non adeguatamente assistito dal proprio difensore d’ufficio e poco addentrato in queste dinamiche burocratiche, non sarà in grado di sfruttare questo vantaggio.

L’art 19 comma 4 o.p., così come recentemente riformato, fa esplicito riferimento alla necessità di corsi di lingua italiana per i detenuti stranieri, nonché della conoscenza da parte di questi ultimi dei principi costituzionali. A tal fine, date le numerose presenze di detenuti stranieri con scarsa alfabetizzazione, oltre all’insegnamento della lingua italiana nelle carceri una priorità non più procrastinabile dovrebbe essere quella di garantire in maniera strutturale la presenza di mediatori culturali. Fino ad oggi, infatti, l’attività di mediazione e di insegnamento della lingua italiana in carcere è stata rimessa al buon cuore delle associazioni del terzo settore o a semplici convenzioni con gli enti locali (come prevede l’art 35 del Regolamento di Esecuzione): finché queste figure professionali non verranno inserite in modo stabile all’interno del personale dell’amministrazione penitenziaria, come accade per i funzionari giuridico pedagogici, il loro contributo alla partecipazione del detenuto all’attività rieducativa non potrà mai essere efficace, in quanto graverà sui bilanci dei singoli enti locali12. Questa esigenza dovrebbe essere avvertita in maniera tanto più urgente se si pensa che uno dei problemi principali derivanti dalla mancata conoscenza della lingua italiana è la comprensione del regolamento interno all’istituto: di conseguenza, ci sarà un’incidenza maggiore di sanzioni disciplinari a carico degli immigrati i quali, a causa della pecunia di interpreti e mediatori, non saranno nemmeno in grado di difendersi in sede di contenzioso disciplinare, venendo così pregiudicata l’effettività del diritto di difesa. Ciò ha delle conseguenze rilevanti, se si tiene in considerazione che il rilievo disciplinare potrebbe determinare la mancata concessione della liberazione anticipata (dal momento che essa richiede, tra i suoi presupposti applicativi, l’adesione alle regole trattamentali) o l’esclusione dagli elenchi per l’assegnazione al lavoro penitenziario (secondo quanto disposto dal comma 5 dell’articolo 20 O.P. ).

L’art 26 o.p. garantisce la libertà di professare la propria fede religiosa praticandone i riti e con l’assistenza dei ministri del proprio culto.

I ministri di culto riconosciuti, tuttavia, sono esclusivamente quelli della religione cristiano-cattolica, come si evince dal tenore del comma 2 dello stesso articolo (“Negli istituti è assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico”). Sebbene la disposizione in esame riconosca agli appartenenti ad una religione diversa da quella cattolica il diritto di ricevere, su richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto, per le confessioni religiose che non hanno stipulato alcuna intesa con lo Stato si applica il farraginoso meccanismo dell’art 58 Reg. Esec. che subordina l’accesso dei ministri di culto ad un nullaosta rilasciato dal Ministero dell’Interno13. L’assenza di tali figure alimenta il rischio di radicalizzazione, al quale sono maggiormente esposti i detenuti che meno usufruiscono delle attività messe a punto dall’équipe trattamentale o degli altri strumenti funzionali al reinserimento sociale e che è possibile contenere soltanto con un’adeguata formazione nei riguardi del personale penitenziario e, ancora una volta, con il necessario supporto dei mediatori culturali.

Con riferimento alle misure alternative, sia la giurisprudenza di legittimità che quella costituzionale rigettano quel filone interpretativo che vede nella condizione di irregolarità un elemento ostativo alla loro concessione, dal momento che la funzione rieducativa sancita dall’art 27 Cost. e la pari dignità sociale prevalgono su qualsiasi valutazione attinente la liceità della permanenza del soggetto sul territorio statuale14.

Permangono tuttavia insormontabili ostacoli materiali alla loro fruibilità: infatti si genera il paradosso in base al quale, sebbene gli stranieri siano più giovani e commettano reati meno gravi rispetto ai detenuti di nazionalità italiana, essi fruiscono meno delle opportunità di reinserimento sociale a causa della loro situazione di marginalità (assenza di fissa dimora o di legami familiari stabili)15. Anche per questa ragione, infatti, i detenuti stranieri subiscono verosimilmente con incidenza maggiore il trasferimento presso altri istituti, trovandosi così ad interrompere il percorso trattamentale iniziato.

Un discorso a parte merita l’espulsione prevista dal co. 5 art 16 del d.lgs. 286/1998, considerata una misura alternativa “atipica”, dal momento che risponde principalmente ad esigenze deflattive16. E’ sufficiente la sussistenza di determinati presupposti, che prescindono da una valutazione sulla pericolosità sociale del soggetto17, affinché il magistrato di sorveglianza emetta il decreto di espulsione. Come a dire “Rieduchiamoli a casa loro”. Una misura alternativa certamente non funzionale al graduale reinserimento sociale della persona in quanto tale, a cui avrebbe diritto anche colui che soggiorna in maniera irregolare nel nostro Paese.

Angela Chiodo, Associazione Yairaiha Onlus

1Caputo A., Irregolari, pericolosi, criminali. Il diritto delle migrazioni tra politiche securitarie e populismo penale in Ius migrandi, Trent’anni di politiche e legislazione sull’immigrazione in Italia, a cura di M. Giovannetti, N. Zorzella, Milano, 2020, p. 172 e ss.

2Ambrosini M., Richiesti e respinti. L’immigrazione in Italia. Come e perché, Milano, 2010, p. 33-34 (versione ebook).

3Ambrosini M., op. cit., pp. 55-56; Sbraccia A., More or less eligibility? Prospettive teoriche sui processi di criminalizzazione dei migranti irregolari in Italia in Studi sulla questione criminale, II, n. 1/2007, p.94.

4Sbraccia A. op.cit., pp. 92-99.

5Per una più compiuta e puntuale analisi vedi Caputo A, op. cit., p. 165 e ss; Ferrajoli L., Le politiche contro i migranti tra disumanità e illegalità, in Ius migrandi, Trent’anni di politiche e legislazione sull’immigrazione in Italia, a cura di M. Giovannetti, N. Zorzella, Milano, 2020, p. 17 e ss.; Masera L., Il diritto penale dei nemici. La disciplina in materia di immigrazione irregolare, in Riv. It. Dir. Pen. Proc. n.1/2020, p. 806 e ss.

6 Vedi Ceretti A., Cornelli R., Oltre la paura, cinque riflessioni su criminalità, società e politica,Milano, 2013, pp. 44,45, 196.

7Dati aggiornati al 31 maggio 2021.

Vedi https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST334400&previsiousPage=mg_1_14

8Vedi https://www.rapportoantigone.it/diciassettesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/stranieri/

9Vedi https://www.rapportoantigone.it/diciassettesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/stranieri

10Vedi Gonnella P., Le identità e il carcere. Donne, stranieri, minorenni in Costituzionalismo.it, Fascicolo 2/2015, p. 5.

11Vedi Di Rosa G., Le solitudini in carcere: il detenuto malato e il detenuto straniero: dialogo a tre voci in Diritto Penale Contemporaneo, p. 12.

12Per maggiori informazioni vedi i dati forniti dall’associazione Antigone nel suo rapporto https://www.rapportoantigone.it/diciassettesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/stranieri/

13Bronzo P., Ruaro M., Gli elementi del trattamento in Manuale di diritto penitenziario a cura di G. Giostra, F. Della Casa, Torino, 2020, p. 50 e ss; Di Rosa G., op.cit., p. 11; Gonnella P., op.cit., p. 15.

14Così, Cass. S.U. Sentenza n.7458/2006 ; Corte Cost., sent. n. 78 del 2007.

15Vedi Associazione Antigone, XV Rapporto sulle condizioni di detenzione.

16 Carnevale S., Coppetta M., Siracusano F., L’espulsione come misura alternativa alla detenzione in Manuale di diritto penitenziario a cura di G. Giostra, F. Della Casa, Torino, 2020, p. 204; Circ. DAP 18 giugno 2008 n. 208533; Morselli C., Testo Unico dell’Immigrazione. Commentario di legislazione, giurisprudenza, dottrina, Pisa, 2019, p. 466.

17straniero apolide o extracomunitario identificato e irregolarmente presente sul territorio dello Stato, che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a 2 anni.

9/7/2021 https://www.intersezionale.com

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