Marjan Jamali, in fuga dall’Iran trova l’inferno in Italia
Marjan Jamali è in carcere da sette mesi a Reggio Calabria con un’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina basata sulla testimonianza di chi ha tentato di stuprarla.
Per Marjan Jamali, cittadina iraniana fuggita dal suo paese da violenze familiari dalle quali non trovava alcuna protezione, anche l’arrivo in Italia si è trasformato in una vera persecuzione, questa volta a livello istituzionale. Marjan, assistita dall’avvocato Giancarlo Liberati, è stata portata negli scorsi giorni davanti il Tribunale di Locri nel processo che la vede imputata con l’accusa di aver svolto il ruolo di scafista, dopo lo sbarco e l’arresto nel porto di Roccella Jonica, nell’ottobre 2023. Un processo avviato sulla base di accuse assunte come indizi di prova dagli inquirenti, provenienti da tre uomini che la avrebbero abusata, ma che sono stati ritenuti nei primi interrogatori come testimoni attendibili. Dopo le prime settimane in carcere, è stata rinchiusa addirittura nel carcere psichiatrico di Barcellona Pozzo di Gotto, sotto osservazione, per un mese, dopo avere assunto sedici pillole di calmanti. anche a seguito della separazione del figlioletto di otto anni. Lo scorso marzo il Tribunale del riesame di Reggio Calabria aveva rigettato la richiesta degli arresti domiciliari avanzata dal suo avvocato. Marjan, il 27 maggio, ha finalmente ottenuto dal Tribunale del Riesame di Reggio Calabria, gli arresti domiciliari e si è potuta ricongiungere con il suo bambino.
Numerose irregolarità, e un clima di opacità, hanno caratterizzato le indagini e le fasi preliminari del processo, anche per l’assenza di mediatori linguistico-culturali. Come denunciato dalla “Rete 26 febbraio”, il Tribunale di Locri aveva infatti rigettato la richiesta di poter effettuare riprese fotografiche, al fine di “evitare un’eccessiva esposizione mediatica del processo”. L’avvocato difensore ha sottolineato le difficoltà riscontrate nell’accesso agli atti del procedimento ed ha depositato contestualmente la ricevuta del pagamento dei 14.000 dollari versato dalla famiglia di Marjan ad un’agenzia turca, come pagamento del viaggio suo e del figlio per l’Europa. La prossima udienza è fissata per l’8 luglio, anche se appare sempre più evidente come la ragazza sia stata vittima oltre che di violenza sessuale anche di calunnia.
Secondo quanto riferito dal ministro Nordio, a seguito di una interrogazione parlamentare sul caso, “dalle relazioni trasmesse dal presidente della Corte d’appello di Reggio e dal procuratore generale è emersa l’assoluta linearità dell’operato dell’autorità giudiziaria. Con riguardo, ai rilievi circa l’assenza di un interprete della lingua madre della donna in occasione del compimento dei primi atti processuali, secondo quanto riferito dalle autorità interpellate durante le operazioni di soccorso, le persone sottoposte a fermo, tra cui la donna, sono state assistite da due ausiliari nominati dalla Polizia giudiziaria, di cui uno di lingua curdo iraniana”. Evidentemente però gli interpreti nominati dalla polizia non sono riusciti a trasmettere le accuse di Marjan contro i suoi aguzzini, o la polizia ha preferito ritenere più attendibile la loro versione dei fatti. Fatti che sorprendono, non risultano infatti altri casi in cui una “scafista” abbia compiuto una traversata portandosi dietro il proprio bambino.
Adesso, con il prevalere della logica del capro espiatorio, si utilizzano le prime deposizioni assunte subito dopo lo sbarco (S.I.T.) per individuare “scafisti”, anche giovani donne, del tutto estranee ad organizzazioni criminali, ma da dare in pasto ad una opinione pubblica indifferente alle continue stragi, come quelle che si sono verificate in questi ultimi giorni, ma compiaciuta delle false rassicurazioni sul contrasto dell’immigrazione irregolare, che accompagnano ritualmente questi arresti. Soprattutto dopo il cosiddetto Decreto Cutro sembra quasi sfumare la distinzione tra scafisti e trafficanti. E magari i veri trafficanti, o gli scafisti inseriti nelle organizzazioni criminali, che orchestrano queste trappole, nelle quali cadono inquirenti sempre più ansiosi di fornire bilanci eclatanti per il numero degli arrestati, riescono a fuggire. Nessuno sembra percepire le violenze e gli abusi che le donne possono subire, nel loro paese di origine, nei paesi di transito, e durante la traversata verso le coste italiane. E la violenza finale consiste nella calunnia, nell’accusare persone innocenti per facilitare la fuga di trafficanti e scafisti. Oppure si tratta di accuse estorte con la promessa di un rilascio immediato, e quindi chi trova conveniente accusare un compagno di viaggio, magari con la connivenza, se non l’insipienza, di un interprete, riesce a proseguire la sua fuga verso il paese europeo di destinazione.
Si trova ancora detenuta nel carcere di Castrovillari, Maysoon Majidi, regista ed attivista che in Iran si batteva per i diritti umani, per questo perseguitata dal regime e costretta alla fuga, prima in Iraq e poi dalla Turchia, verso l’Italia. Maysoon, subito dopo lo sbarco in Calabria, il 31 dicembre 2023, veniva arrestata con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
A marzo scorso, dal Tribunale di Crotone, era stato fissato un incidente probatorio con i due testimoni di accusa che, secondo gli inquirenti, avrebbero denunciato il ruolo di “scafista” della donna, perché durante la traversata avrebbe distribuito il cibo agli altri migranti a bordo del battello in navigazione verso l’Italia. Come si è verificato in molti altri casi simili, i due testimoni avevano poi lasciato l’Italia per trasferirsi nel paese di destinazione finale, uno di loro in Germania. Nelle loro successive dichiarazioni escludevano che la donna fosse una scafista. La principale accusa rimasta in piedi contro Maysoon sembra costituita da una ripresa proveniente dal telefonino dalla stessa attivista durante la navigazione, che, secondo gli investigatori, sarebbe la conferma che lei era una scafista in quanto avrebbe avuto libero accesso alla coperta della barca. Una tesi contro cui l’avvocato di Maysoon ha presentato al Gip un altro video, girato da un migrante che era su quella stessa barca, e nel quale si vedono decine di persone in coperta. Dovrebbe essere infatti di comune esperienza, e putroppo è confermato anche dagli sviluppi delle indagini sulla strage davanti Steccato di Cutro, come sui barconi in rotta dalla Turchia verso l’Italia le persone venano tenute generalmente sotto coperta, per sfuggire alle rilevazioni aeree dei mezzi di Frontex, ed ai controlli a vista effettuati dalle motovedette della Guardia di finanza, e vengono portate all’aperto ogni tanto, solo per qualche minuto, tanto per respirare un poco di aria pulita. Magari poi, in prossimità delle coste italiane, i video vengono inviati ai parenti per confermare la sopravvivenza alla traversata. Come è successo a bordo del caicco naufragato sulle secche di Steccato di Cutro, come succedeva a bordo del barcone sul quale si trovava Maysoon, che almeno non è affondato.
Il primo interrogatorio di polizia giudiziaria subito dopo lo sbarco, definito come SIT (sommaria informazione testi), non è stato registrato e si è svolto con interpreti che non erano in grado di comprendere compiutamente quanto dichiarato da Maysoon. Da qui molte discrepanze su quanto poi accertato dagli inquirenti. Successivamente uno dei due testimoni, raggiunto dall’avvocato difensore in un centro per richiedenti asilo in Germania, mentre la polizia italiana non aveva saputo (o voluto) rintracciarlo attraverso canali istituzionali, ha spiegato di non avere accusato la donna di essere una complice dello scafista, come confermato anche da quest’ultimo dopo l’arresto. E in un successivo interrogatorio durato ben nove ore Maysoon forniva tutte le spiegazioni richieste dagli inquirenti. Lo scorso 14 maggio però, la Giudice delle indagini preliminari (GIP) del Tribunale del Riesame di Crotone ha respinto una nuova istanza di concessione dei domiciliari che era stata avanzata dal difensore, l’avvocato Giancarlo Liberati, all’esito di questo interrogatorio, non ravvisando elementi di novità. Come riferisce il Quotidiano del sud, “nel provvedimento viene richiamato il parere contrario della pm Rosaria Multari fondato su una serie di elementi discordanti tra la versione dell’indagata e le risultanze della guardia di finanza che ha condotto le indagini sullo sbarco del 31 dicembre scorso”.
Nell’ordinanza del GIP del Tribunale di Crotone che si conforma al parere contrario del pubblico ministero, l’istanza difensiva veniva rigettata in quanto secondo il magistrato giudicante, in merito alla sussistenza degli indizi gravi “… si fonda essenzialmente su una rilettura del compendio indiziario e sul tentativo di confutarne l’inequivocità – per come ritenuta nell’ordinanza di convalida e applicazione di misura” ed ancora perché “…le deduzioni e le argomentazioni espresse nell’istanza…” non venivano ritenute “…idonee a scalfire le valutazioni espresse nell’ordinanza suddetta…omissis…dove a carico dell’indagata emergevano plurimi elementi oggettivi relativamente al fumus del delitto a lei ascritto”
Il ricorso dell’avvocato di Maysoon, per ottenere almeno gli arresti domiciliari, è stato respinto in quanto il giudice delle indagini preliminari ha ritenuto che proprio il fatto che l’avvocato avesse potuto contattare testimoni in Germania, a suo dire “irritualmente”, costituiva una prova ulteriore del pericolo di fuga dell’imputata. Secondo la procura, quindi, non ci sarebbero elementi “per ritenere attenuata le esigenze cautelari posto che non può escludersi il pericolo di fuga alla luce del tentativo di fuga del 31/12/2023 ed alla manifesta volontà della Maysoon di raggiungere la Germania espressa in sede di interrogatorio ed il pericolo di inquinamento probatorio posto che, come emerso in sede di incidente probatorio, per dichiarazioni del difensore dell’indagata, questi avrebbe contatti costanti con i migranti escussi come testimoni”. In questo modo però si cancella la portata sostanziale dei diritti di difesa dell’imputato che, attraverso il proprio avvocato, deve essere messo nella condizione di acquisire e produrre davanti all’autorità giudiziaria tutti gli elementi di prova a suo discarico.
Era stato lo stesso avvocato, nel pieno esercizio dei suoi poteri di svolgere indagini difensive, e non Mayson dunque, che aveva fatto una videochiamata ad uno dei due testimoni di accusa adesso in Germania, alla quale l’uomo ha risposto senza problemi: Era lo stesso difensore ad affermare: “Secondo la polizia giudiziaria, ovverosia la squadra navale della Guardia di Finanza di Crotone, il testimone è irreperibile. Io vi ho dimostrato che può essere contattato senza problemi. Lui si trova in un centro immigrazione gestito dallo Stato tedesco, il Campo Tegel di Berlino e non ci vuole niente a contattarlo. Non capisco come mai la polizia tedesca, ove sollecitata da quella italiana, non abbia trovato quest’uomo”. Lo stesso faceva poi notare una serie di anomalie nelle fasi iniziali del procedimento: “Il primo errore madornale, oserei dire grossolano, è che la richiesta di incidente probatorio è stata formalizzata il 26 febbraio, quindi dopo circa due mesi dallo sbarco. L’incidente probatorio si fa dopo una settimana, entro tempi precisi. Il 26 febbraio è una data troppo lontana nel tempo e in quei mesi i migranti testimoni non sono rimasti in Italia ad aspettare di essere convocati: se ne sono andati in nazioni dove loro ritengono siano più tutelati, nella fattispecie la Germania e l’Inghilterra”.
Il testimone, rintracciato in Germania da alcuni giornalisti della trasmissione televisiva “Le iene” andata in onda lo scorso 21 maggio sul canale ITALIA1, ha rilasciato dichiarazioni precise con le quali afferma che Maysoon era soltanto una dei 76 migranti presenti a bordo dell’imbarcazione giunta sulle coste crotonesi il 31 dicembre 2023, come confermato anche da un altro testimone, A. D. D, con dichiarazioni che sono reperibili nel sito internet della stessa trasmissione. L’audizione del primo testimone, secondo l’avvocato, “è decisiva perché a noi ha inviato un video nel quale spiegato di non aver mai accusato Maysoon e che la traduzione era stata sbagliata: le due persone hanno ritrattato tutto, ma non siamo stati messi nelle condizioni di poterli sentire nel contraddittorio delle parti. Anche il coimputato turco che si è accusato di essere lo skipper di quell’imbarcazione ha dal primo momento dichiarato che questa ragazza non c’entrava nulla, ma era una migrante come tutti gli altri e che aveva anche pagato il viaggio”. La Procura di Crotone invece non si è neppure espressa sulla istanza difensiva, avanzata nel corso dell’udienza del 10 maggio 2024 nella quale avrebbe dovuto svolgersi l’incidente probatorio, volta a contattare tramite collegamento audio-video, uno dei testimoni rintracciato in Germania, lo stesso che alcuni giornalisti avevano potuto intervistare raccogliendo dichiarazioni contrastanti rispetto a quanto riportato nelle sommarie informazioni testi (SIT) raccolte subito dopo lo sbarco.
L’avvocato difensore ha quindi presentato un nuovo ricorso contro questa decisione e la prossima udienza del “giudizio immediato” davanti al Tribunale di Crotone è fissata per il 24 luglio. Maysoon intanto rimane in carcere ed è dimagrita 13 chili (arrivando a pesarne meno di 40) mentre nessuno dovrebbe dubitare della sua qualità di richiedente asilo e di persona particolarmente vulnerabile e perseguitata da Stati nei quali non vengono rispettati di diritti umani. La stessa Maysoon, fin dal 7 aprile, aveva chiesto di essere sentita da un magistrato della Procura distrettuale di Catanzaro per rivelare i particolari del viaggio ed indicare i nomi dei trafficanti in Turchia e quelli dei veri componenti dell’equipaggio. Ma sembra che gli inquirenti concentrino tutte le loro accuse su di lei che intanto rimane in carcere.
Di certo risulta anche agli atti della procura, che basa gran parte dell’impianto accusatorio sui tabulati telefonici di utenze riferibili all’imputata, che non esistevano contatti tra lei ed il “Capitano” prima del giorno dell’imbarco sul mezzo che li doveva portare in Europa. Il suo ruolo di “scafista” viene asserito sulla base di meri indici presuntivi, il mero sospetto che non avrebbe pagato per la traversata, come risulta invece agli atti per il fratello imbarcato con lei, una maggiore libertà nei movimenti a bordo, tanto che poteva aiutare altri migranti, e il suo posto, che sarebbe stato vicino al ponte di comando dell’imbarcazione in navigazione verso le coste italiane. Le discordanze rilevate tra le dichiarazioni di Maysoon e quanto ricavato dalle autorità inquirenti nel corso delle prime indagini, se non sono frutto di una traduzione fin troppo approssimativa, neppure assunta secondo le formalità di rito, non sono comunque idonee a tracciare se non sotto il profilo della mera probabilità, gli elementi del reato di agevolazione dell’ingresso clandestino. Non si vede quindi come si possa motivare il diniego della sostituzione della misura cautelare richiesta dal difensore, adducendo il “fumus commissi delicti”, ovvero l’apparenza di un reato che in ipotesi sarebbe stato commesso.
Si è così determinata una situazione di stallo che si aggrava ogni giorno che passa in attesa per Maysoon, ancora ristretta dietro le sbarre del carcere di Castrovillari, che evidenzia due aspetti particolarmente preoccupanti, oltre che per la salute fisica dell’imputata e per il suo personale destino processuale, per la valenza tanto ampia, da diventare ormai discrezionale, del reato di agevolazione dell’immigrazione irregolare, forse anche oltre i limiti del principio di legalità, e per lo stato del processo penale e delle garanzie di difesa proprie dello Stato di diritto, che in questo caso sembrano disattivate al momento dello sbarco e dell’ingresso nel territorio nazionale, in nome di superiori esigenze di “contrasto dell’immigrazione clandestina”. Anche a scapito dei diritti fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ed espressamente richiamati dall’art.2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98.
Sotto il profilo procedurale, per quanto concerne la formazione e la valutazione delle prove a carico dell’imputato nella prima fase delle indagini, oltre alla necessaria presenza non solo di interpreti nominati dalla polizia, ma di veri mediatori linguistico-culturali, si devono rispettare i principi del contraddittorio e della necessaria motivazione, che non sia una motivazione apparente, dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, a mente dell’art.111 della Costituzione, soprattutto nel caso in cui vengano disposte misure cautelari limitative della libertà personale. Occorre ricordare al riguardo una risalente decisione della Corte Costituzionale, in particolare la sentenza n. 311 del 2011, con la quale la Corte, a sostegno dell’illegittimità costituzionale della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere prevista per tutte le ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, aveva avuto modo di osservare come detta presunzione finisse per applicarsi indistintamente a situazioni assai eterogenee, che spaziano “dal fatto ascrivibile ad un sodalizio internazionale, rigidamente strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula abitualmente sulle condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi scrupolo di esporli a pericolo di vita; all’illecito commesso una tantum da singoli individui o gruppi di individui, che agiscono per le più varie motivazioni, anche semplicemente solidaristiche in rapporto ai loro particolari legami con i migranti agevolati, essendo il fine di profitto previsto dalla legge come mera circostanza aggravante”. Occorrerebbe verificare se le modifiche legislative sopravvenute, con lo spropositato aumento dei minimi edittali delle pene, fino all’ultimo Decreto Cutro (legge n.20/2023) soddisfino i requisiti di compatibilità costituzionale, anche alla stregua del principio di proporzionalità delle pene, della custodia cautelare in carcere per tutti i casi in cui venga contestato il reato di agevolazione dell’immigrazione irregolare.
Sotto il profilo sostanziale, in entrambi i casi delle due giovani donne iraniane, in base alle prove raccolte dagli inquirenti, non emergono elementi del reato di agevolazione dell’ingresso clandestino, previsto dall’art.12 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98. Un reato che nel corso del tempo, ad ogni svolta repressiva, frutto dei periodici pacchetti sicurezza da campagna elettorale, ha assunto una portata tanto generica da risultare in contrasto con il principio della tipicità della sanzione penale (riserva di legge) e della certezza della pena che può essere inflitta all’imputato se condannato, in quanto la sua area di effettiva applicazione, e l’entità della pena, risultano sempre più spesso frutto di una valutazione discrezionale delle autorità di polizia che, già a partire dalla formazione della “notizia di reato”, condizionano nella sostanza l’esercizio dell’azione penale. Secondo l’attuale formulazione del primo comma dell’art.12 T.U. n.286/98, ” Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona”. Dietro la formulazione generica di “ altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato” si fanno rientrare le condotte più svariate, al punto che il reato assume una portata “omnibus” arrivando persino a comprendere casi di attività assolutamente solidali. Altre circostanze, come il numero di migranti, se superiore a tre, o il fine di lucro, sono previste come aggravanti, ma spesso sono del tutto estranee alla sfera decisionale di quanti vengono accusati di agevolazione dell’ingresso irregolare.
Sono numerosi i precedenti giurisprudenziali nei quali i tribunali, anche nei confronti di persone che avevano condotto direttamente l’imbarcazione, e che non avevano pagato alcuna somma per la traversata, salvo il caso deciso dalla Corte di Cassazione in cui gli “scafisti” fossero stabilmente inseriti in una organizzazione criminale, escludono la responsabilità penale sulla base della condizione di stato di necessità (art.54 codice penale) o di forza maggiore, nella quale si trovavano in un paese nel quale rischiavano la vita e la integrità fisica, rischi ancora maggiori nel caso di una giovane donna, ben nota per il suo impegno nella difesa dei diritti umani. Sotto questo punto di vista non si deve dimenticare che Maysoon si è battuta a lungo per i diritti delle donne curde in Iran ed in Iraq, ed anche per questa ragione non poteva vivere in condizioni di sicurezza neppure in Turchia, paese che negli ultimi anni ha intensificato le attività repressive nei confronti delle popolazioni curde di diversa nazionalità e di tutti coloro che ne sostengono le ragioni.
In ogni caso l’utilizzo della incriminazione per “agevolazione dell’immigrazione clandestina” in casi come quelli di Maryan e Maysoon conferma il rischio che il ricorso al concetto di “agevolazione”, senza alcuna ulteriore specificazione, per la quale sarebbe sufficiente la prova del mero “dolo generico”, dunque senza alcun fine di profitto, che rileva invece come aggravante, possa risultare potenzialmente lesivo dei principi di responsabilità personale e di determinatezza della fattispecie penale, e dunque della riserva di legge, affermati dagli articoli 25 e 27 della Costituzione.
In base all’art. 25 della Costituzione, (1)”Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. (2) Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. (3)Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge. Per l’art. 27 della Costituzione,” la responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.
Il principio di legalità previsto dall’art. 25 Cost., non impone l’eliminazione di ogni possibile margine di apprezzamento da parte dell’autorità di polizia o del giudice, ma deve garantire la configurazione di fattispecie incriminatrici che raggiungano il maggior grado possibile di certezza, per garantire al contempo il principio di obbligatorietà dell’azione penale e l’esercizio effettivo dei diritti di difesa, che nei casi di Maryan e Maysoon appaiono gravemente conculcati. Il principio della natura personale della responsabilità penale impone grande attenzione nella valutazione dei comportamenti riconducibili alla fattispecie dell’agevolazione dell’ingresso irregolare.
Anche se la Corte costituzionale ha fin qui mantenuto una linea di grande tolleranza verso la genericità delle norme incriminatrici dei diversi casi di facilitazione dell’ingresso irregolare, sono proprio casi come questi che dimostrano come il progressivo inasprimento delle sanzioni penali contro l’immigrazione clandestina, frutto di un allarme sociale che sfocia periodicamente nella propaganda elettoralistica, finisca per comprimere diritti fondamentali della persona, dai diritti alla libertà personale e dai diritti di difesa, fino al diritto di asilo ed al diritto all’unità familiare.
La questione della configurazione del reato di agevolazione dell’immigrazione irregolare non ha soltanto una dimensione nazionale, ma riguarda anche il diritto dell’Unione Europea. La Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) è chiamata adesso a stabilire la compatibilità del “Pacchetto facilitatori”, contenente la normativa europea che impone agli stati membri le sanzioni per i casi di agevolazione dell’ingresso irregolare (Facilitators’ Package), e quindi dell’articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione 286/98, rispetto alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Martedì 18 giugno ha avuto inizio il processo sul caso Kinshasa davanti alla Grande Camera della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Nel 2022 la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 63 del 10 marzo 2022 ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune aggravanti del reato di agevolazione dell’ingresso clandestino, per violazione del principio di proporzionalità della pena. Adesso, anche alla luce di quello che sarà deciso dalla Corte di Giustizia UE, li giudici costituzionali italiani dovrebbero fissare limiti precisi alla portata fin qui troppo generica del reato previsto dall’art.12 del Testo Uniso sull’immigrazione n.286/98, magari scorporando dalle fattispecie penalmente rilevanti le condotte che non hanno contribuito direttamente alla commissione del reato, attribuendo maggiore rilievo alla cosiddetta scriminante umanitaria, e nello stesso senso potrebbero orientarsi anche i giudici dei tribunali.
Fulvio Vassallo Paleologo
23/6/2024 https://www.a-dif.org/
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