Marketing farmaceutico immorale
Norme e codici di autoregolamentazione non riescono a frenare la collusione tra industria farmaceutica e professionisti. Non resta, probabilmente, che fare appello agli operatori sanitari affinché prendano coscienza dei danni alla salute e al sistema sanitario, oltre che alla loro reputazione, causati dalle attuali regole sulle sponsorizzazioni e, più in generale, dal marketing farmaceutico.
I miei 25 lettori (di manzoniana memoria) saranno ormai stanchi di leggere sempre le stesse cose. Di dipendenza da interessi commerciali avevo scritto nel gennaio del 2020.[1] Non che fosse una novità, se ne parlava da decenni, ma in quell’articolo riprendevo alcuni possibili rimedi proposti da una serie di articoli del British Medical Journal (BMJ) in diversi settori: ricerca, formazione e pratica clinica. Né i rimedi proposti dal BMJ, né i miei tentativi di diffonderli sembrano aver avuto effetti. Big Pharma, ma anche Big Food, Big Drink, Big Alcohol e altri conglomerati di imprese transnazionali continuano a interagire, spesso elargendo denaro, con i professionisti della salute e le loro associazioni, oltre che con la politica, per influenzare i consumi, aumentare i profitti e, come conseguenza non secondaria, causare danni alla salute di individui e popolazioni.[2] Meno di tre mesi fa ho ripreso un articolo del BMJ che riportava pagamenti di Big Pharma ai Royal Colleges britannici. Finivo così il mio articolo: “Sta a noi, operatori sanitari informati, essere coscienti di ciò, rifiutare i pagamenti e informare i cittadini, affinché queste pressioni economiche non creino danni.”[3] Conclusione dovuta forse a perdute speranze di un rimedio politico, dall’alto, con leggi e regolamenti che proibiscano le interazioni finanziarie tra attori commerciali e professionisti della salute, con le loro associazioni.
A una soluzione simile, dal basso, con l’invito a costruire una massa critica di operatori sanitari che facciano pressione per un approccio regolatorio nei confronti delle ditte che mettono in atto comportamenti eticamente discutibili, sembrano pensare anche i due autori di un altro articolo del BMJ.[4] L’articolo parte da una premessa già nota: i codici di autoregolazione, di Big Pharma in questo caso, ma anche di qualsiasi altro gruppo di attori commerciali, non servono a nulla.[5] L’esempio citato è quello di ABPI, l’Associazione delle ditte farmaceutiche britanniche, corrispondente alla nostrana Farmindustria. L’ABPI è dotata di un codice di autoregolazione dal 1993, ma questo, tanto per citare l’ultimo caso, non ha impedito a una sua importante associata, la Novo Nordisk, di pagare milioni di sterline a enti di beneficenza per l’obesità, a trust del Servizio Sanitario Nazionale (NHS), a Royal Colleges, ad ambulatori di medicina generale, a fornitori di Educazione Continua in Medicina (ECM), a università, a consulenti del NICE (National Institute for Health and Care Excellence) e a un gruppo di parlamentari per favorire la registrazione e l’immissione sul mercato di un discutibile farmaco per dimagrire.[3] È vero che l’ABPI ha poi inflitto una sospensione di 24 mesi a Novo Nordisk, ma nel frattempo il danno era stato fatto.
Adriano Cattaneo
CONTINUA SU https://www.saluteinternazionale.info/2023/11/marketing-farmaceutico-immorale/
22/11/2023
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