Marx era un comunista di lusso completamente automatizzato
Il comunismo di lusso completamente automatizzato iniziò con Karl Marx. Ora, oltre 150 anni dopo, una società opulenta post-lavoro è più possibile che mai.
Comunque le persone rispondano alla parola “comunismo”, la parola è associata a una persona in particolare – Karl Marx. Fu lui a pretendere di vedere i contorni di un nuovo mondo nel momento preciso in cui il capitalismo industriale bruciava al massimo dello splendore.
Questo non vuol dire che Marx fosse l’unico a pensare che il capitalismo sarebbe finito, né che sarebbe passato a qualcos’altro. A questo proposito, infatti, fu affiancato da, tra gli altri, due pensatori del ventesimo secolo, John Maynard Keynes e Peter Drucker, che nonostante fossero critici nei suoi confronti avevano opinioni simili su come il capitalismo potesse condurre a un sistema al di là di esso. Mettendo Marx a fianco di entrambi i pensatori, esaminando come ciascuno considerava il rapporto tra scarsità e capitalismo e utopia, possiamo iniziare a creare un quadro più chiaro di ciò che intendeva per comunismo.
Un aspetto del pensiero di Marx che rimane sottovalutato è il modo in cui ha riconosciuto la tendenza del capitalismo a sostituire progressivamente il lavoro – animale e umano, fisico e cognitivo – con le macchine. In un sistema pieno di contraddizioni, è stato questo in particolare a renderlo una forza di potenziale liberazione. Questo è chiaramente indicato nel “Frammento su macchine”, un breve ma importante estratto all’interno dei molto più ampi Grundrisse. Il motivo per cui probabilmente non ne hai mai sentito parlare prima, a differenza del noto Manifesto comunista o de Il Capitale, è che i Grundrisse non furono pubblicati in tedesco fino al 1939. Peggio ancora, il testo non fu tradotto in inglese fino al 1973. Di conseguenza, le sue osservazioni preesistenti esercitarono poca influenza sui progetti comunisti nel ventesimo secolo.
Questa è stata una tragedia, perché all’interno dei Grundrisse incontriamo non solo la prima analisi dell’evoluzione tecnologica sotto il capitalismo, ma anche delle opportunità che crea. Come Marx ha memorabilmente sostenuto nel “Frammento”,
Il capitale impiega la macchina, invece, solo nella misura in cui essa abilita l’operaio a lavorare per il capitale una parte maggiore del suo tempo, a rapportarsi ad una parte maggiore del suo tempo come a tempo che non gli appartiene, a lavorare più a lungo per un altro. È vero che, con questo processo, la quantità di lavoro necessario alla produzione di un determinato oggetto viene ridotta a un minimo, ma solo perché un massimo di lavoro venga valorizzato nel massimo di quegli oggetti. Il primo lato è importante, perché il capitale riduce qui – senza affatto proporselo – il lavoro umano (il dispendio di forza) ad un minimo. Ciò tornerà utile al lavoro emancipato ed è la condizione della sua emancipazione.
Marx non avrebbe potuto essere più chiaro: la concorrenza obbliga i capitalisti a innovare nella produzione. Questo porta a una sperimentazione permanente con flussi di lavoro e tecnologie, tutti alla ricerca di un’efficienza sempre maggiore. La logica della domanda del mercato significa che i capitalisti devono produrre beni e servizi nel modo più economico possibile, costringendoli a ridurre costantemente le spese generali, a loro volta creando un ciclo infinito di automazione, comprendente compiti e persino interi lavori – sostituendo i lavoratori con le macchine. Pur generando enormi quantità di sofferenza e sfruttamento sotto il capitalismo, con un altro sistema questa rappresentava un’importante opportunità.
Nel 1987 la National Academy of Sciences degli Stati Uniti ha pubblicato un rapporto intitolato Technology and Unemployment. In esso, ribadita quasi parola per parola, c’è la critica di Marx al cambiamento tecnologico sotto il capitalismo, la differenza fondamentale è che gli autori del rapporto considerano tale cambiamento totalmente positivo:
Storicamente e, riteniamo, per il prevedibile futuro, le riduzioni del fabbisogno di manodopera per unità di produzione risultanti da nuove tecnologie di processo sono state e saranno compensate dai benefici effetti occupazionali dell’espansione della produzione totale che generalmente si verifica.
Quindi, mentre la produzione diventa sempre più efficiente e il tempo libero è valutato come un bene sociale, l’aumento della produttività non porta a più tempo libero ma semplicemente alla produzione di più beni e servizi. In tutta onestà per coloro che la difendono, tale visione non fu fondata solo sull’ortodossia economica ma anche su due secoli di cambiamenti osservabili sotto il capitalismo. La differenza con Marx nei Grundrisse è che lui pensava che ci fosse un’alternativa e che solo nel perseguirla gli esseri umani potevano ottenere la libertà.
Mentre al commentatore politico medio piace etichettare Marx come un sognatore idealista, l’uomo stesso ha ripetutamente espresso il suo disgusto per il descrivere che cosa potrebbe essere effettivamente il comunismo – quello che ha definito scrivere “ricette per le osterie dell’avvenire”. Sebbene ammirevole nella sua umiltà, ciò è anche irritante perché una delle più grandi menti nel descrivere le carenze del sistema emergente era ben posizionata per suggerire almeno cosa potrebbe sostituirlo. L’opinione di Marx, tuttavia, era che i lavoratori in lotta fossero posizionati in maniera unica per arrivare a soluzioni concrete.
Era certo di alcune caratteristiche della nuova società, tuttavia. Una era che l’avvento del comunismo avrebbe segnato la fine di ogni distinzione tra lavoro e tempo libero. Più fondamentalmente, avrebbe segnato l’uscita dell’umanità da quello che lui chiamava il “regno della necessità” e l’ingresso nel “regno della libertà”.
Ma cosa significava? Per Marx il regno della necessità era quello in cui “lottiamo con la natura per soddisfare i nostri desideri e mantenere e riprodurre la vita” – in altre parole era un mondo definito dalla scarsità, qualcosa che avevamo affrontato fin dai tempi dei nostri antenati ominidi. Ai giorni di Marx costituiva la questione centrale dell’economia politica classica: come si allocano le risorse in modo efficiente ed equo in un mondo in cui sono limitate?
Per Marx il regno della necessità era così vasto che includeva persino il socialismo. Questo perché, come il capitalismo, aveva caratteristiche come il lavoro e la scarsità, anche se come sistema soggetto al controllo democratico questi erano razionalizzati e socialmente più giusti. Mentre era certamente preferibile al capitalismo, e qualcosa per cui lottare attivamente, il socialismo per Marx era un trampolino di lancio verso qualcos’altro: il comunismo e il regno della libertà.
Questo, al contrario, fu segnato non solo da un’assenza di conflitti economici e di lavoro, ma da un’abbondanza spontanea simile all’età d’oro di Esiodo o Telecleide, o all’Eden biblico. A differenza della poesia greca classica o delle scritture religiose, tuttavia, per Marx questo era un progetto a cui mirare piuttosto che un passato leggendario da riverire. Un regno di abbondanza oltre l’immaginazione non era qualcosa da ricordare o da apprezzare nell’aldilà: era un progetto politico a cui mirare nel qui e ora. Era il comunismo.
Nonostante l’affermazione che Marx favoriva la rivoluzione violenta, la verità è che non ha mai creduto che la transizione oltre il capitalismo fosse un processo esclusivamente politico – qualcosa di così semplice da raggiungere da richiedere semplicemente di sostituire un gruppo di sovrani con un altro. Certamente comportava una lotta di classe e che la classe lavoratrice conquistasse il potere politico, ma aveva anche bisogno di nuove idee, tecnologie e relazioni sociali. Marx considerava la classe lavoratrice la chiave per una società futura, ma solo perché la sua rivoluzione era l’unica in grado di eliminare il lavoro e porre fine a tutte le distinzioni di classe.
Pertanto, nonostante i ripetuti appelli alla liberazione della classe operaia, Marx non credeva che il lavoro ci rendesse liberi, né che la società del lavoro allargasse la portata delle possibilità umane. Al contrario, la sua opinione era che il comunismo fosse possibile solo quando il nostro lavoro – il modo in cui mescoliamo i nostri sforzi cognitivi e fisici con il mondo – diventa una strada verso lo sviluppo personale piuttosto che un mezzo di sopravvivenza. Marx considerava questo processo dipendente dal cambiamento tecnologico: più le forze di produzione erano sviluppate, maggiore era la loro capacità di offrire un nuovo tipo di società in cui lavoro e tempo libero si fondessero in uno:
In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!
Con l’arrivo del comunismo ogni distinzione tra lavoro mentale e fisico svanirebbe, con il lavoro che diventa più simile al gioco. Questo significava anche una società con una maggiore ricchezza collettiva, in cui tutti i desideri essenziali e quelli creativi sono soddisfatti. È qui che entra in gioco il lusso. Il concetto, in condizioni di scarsità, esprime ciò che è oltre l’utilità, la sua essenza un eccesso oltre il necessario. Così come l’informazione, il lavoro, l’energia e le risorse diventano permanentemente più economici – e il lavoro e i limiti del vecchio mondo vengono lasciati indietro – si scopre che non solo soddisfiamo tutti i nostri bisogni, ma dissolviamo ogni confine tra l’utile e il bello. Il comunismo è lussuoso – o non è comunismo.
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