Marzabotto, la 16ª SS Panzer Division e quei nazisti che “parlavano in dialetto bolognese”

Monumento in memoria della Strage (foto Giovanni Baldini, memo.anpi.it)

A Monte Sole si è consumata la più grande strage di civili dell’Europa occidentale, eccidio di una linea eliminazionista pianificata, più spietata sia rispetto alla guerra agli Alleati sia alla repressione antipartigiana perché l’obiettivo era declassare una nazione. E Mussolini sapeva, informato fin dal 9 ottobre. Ecco i documenti

Lo storico Carlo Gentile ha scritto di tre diverse guerre condotte dai nazisti in Italia: contro gli eserciti alleati, “combattuta quasi senza eccezioni secondo i canoni del diritto di guerra”; antipartigiana, “combattuta con estrema durezza e scarso rispetto del diritto bellico”; contro la popolazione civile, “condotta con modalità in larga prevalenza criminali” [1]. L’obiettivo era declassare una nazione, controllarla totalmente, annientare il nemico.

La 16° Panzer Granadier Division “Reichs Führer SS” in Europa orientale

Protagonista principale della guerra criminale contro i civili fu la 16ª Divisione SS comandata dal generale Max Simon. Nell’Atlante delle Stragi naziste e fasciste fino al 29 settembre 1944 risultano 45 episodi e 1.267 vittime a carico di questa Divisione: in grande maggioranza civili inermi. È una storia impressionante di atrocità, compiute in un arco di tempo molto breve: Romagna in provincia di Pisa (6-11 agosto 1944, 76 vittime); Sant’Anna di Stazzema (12 agosto, 400 vittime); San Terenzo Monti (19 agosto, 159 vittime); Vinca (24-27 agosto, 174 vittime); Certosa di Farneta (10 settembre, 40 vittime); Fosse del Frigido (16 settembre, 159 vittime); Bergiola Foscalina (16 settembre, 72 vittime). Furono tutte operazioni pianificate a tavolino: si circondava un’area e si procedeva allo sterminio di coloro che vi venivano trovati, nessuno escluso.

Il massacro di Monte Sole Marzabotto – la più grande strage di civili dell’Europa occidentale – ebbe le stesse caratteristiche. Il 29 e il 30 settembre 1944 furono sterminate intere comunità che vivevano in villaggi rurali situati nell’altopiano fra le Valli del Reno e del Setta: 770 civili uccisi, per lo più bambini, donne e anziani. Il ruolo principale nell’operazione lo ebbero Walter Reder, comandante del Battaglione esplorante della Divisione, e Helmut Loos, l’ufficiale di Stato maggiore della Divisione incaricato della sicurezza.

Lo stemma della Totenkopf sul berretto della divisa

Carlo Gentile ha studiato la composizione della Divisione. Si trattava di militari che avevano fatto esperienza sul fronte orientale, addestrati all’uso di una disciplinata violenza annientatrice. Max Simon era stato condannato a morte da un tribunale militare russo per i crimini commessi in Ucraina. Venivano tutti dalla Totenkopf, una delle più famigerate unità del corpo SS, collegata al sistema concentrazionario nazista. Walter Reder era stato a Dachau. Insieme a questo gruppo più esperto c’erano giovanissimi fanatici invasati dalla propaganda di Goebbels: una miscela esplosiva. Nessuna delle uccisioni nel corso delle stragi “ebbe alcunché di spontaneo” o fu conseguenza di “eccessi inconsulti di soldati frustrati e aggressivi”: tutto va ricondotto a codici di comportamento e a modelli “di violenza militare estrema” [2].

Lo storico Paolo Pezzino [3] ha smontato, sulla base dei documenti, la tesi dei nazisti, che hanno sempre teso a presentare l’operazione di Monte Sole come un rastrellamento antipartigiano. In realtà i partigiani della formazione “Stella Rossa” sostanzialmente non combatterono, di fronte a forze di molto preponderanti, e si sbandarono. Non a caso i tedeschi non ebbero perdite rilevanti. Il loro obiettivo era in realtà lo sterminio della popolazione, perché pensavano che, facendo terra bruciata dei civili, i partigiani non potessero più continuare a operare.

Le testimonianze raccolte da Pezzino sono agghiaccianti. Tappa dopo tappa raccontano i crimini orrendi compiuti in base a un vero e proprio progetto eliminazionista: donne, bambini, vecchi bruciati vivi o sventrati. Le testimonianze esprimono anche il dramma dei sopravvissuti: “A Casaglia, per le modalità dell’esecuzione, all’aperto, senza l’incendio di un fabbricato a completare l’opera delle mitragliatrici, e per il gran numero di persone coinvolte, aumentarono le possibilità che qualcuno, ancora in vita, venisse coperto e protetto dai corpi dei caduti, e il numero dei sopravvissuti, o meglio delle sopravvissute, trattandosi soprattutto di donne e bambini, è relativamente più alto che in altre località. Appartengono quindi al martirologio di Casaglia anche le vicende dei sopravvissuti, e le imprevedibili volontà del destino che portarono ad intrecciare vita e morte in un gioco crudele che appare casuale per chi non gli attribuisca un significato religioso. […] Le sopravvissute all’eccidio vissero esperienze estreme, al limite della possibilità umana di rielaborarle, ‘comprenderle’, farle proprie; le loro narrazioni apparse dopo l’eccidio, le esperienze successive a quel 29 settembre hanno un posto centrale nella tragedia  di Monte Sole” [4].

Lapide all’ingresso del cimitero di Casaglia di Monte Sole

Vittorio Tonelli, un bambino di otto anni, è la figura simbolo dell’eccidio di Casaglia: lo invitano a scappare, lui mostra la mamma e i cinque fratellini e sorelle morti e dice: “Io voglio morire con loro”. Morirà poco dopo, ucciso da una granata.

Nell’archivio della Fondazione Gramsci, a Roma, ho rintracciato due lettere e tre testimonianze di sopravvissuti. Le lettere furono inviate al Capo della Provincia di Bologna, il fascista Dino Fantozzi; le testimonianze sono deposizioni spontanee rilasciate allo stesso Fantozzi.

Ferruccio Laffi, l’ultimo testimone di Marzabotto è scomparso lo scorso gennaio. Qui a Monte Sole

Antonio Tonelli, il 10 marzo 1945, raccontò nella lettera la tragedia della morte della moglie, del fratello e di nove figli:
“Il giorno 29 settembre 1944 mentre mia moglie, unitamente a cinque miei figli (11 mesi – 3 anni – 5 anni – 10 anni e 12 anni) si trovavano in Chiesa nella località Casaglia del Comune di Marzabotto, sono stati rastrellati da reparti germanici, i quali hanno portato i miei suddetti congiunti, come pure numerose altre donne e bambini nel vicino Cimitero, dove li hanno uccisi a colpi di mitraglia. Io pure sono stato rastrellato il 4 ottobre successivo, unitamente a quattro miei figli (di anni 8 – due gemelli di anni 13 – ed uno di anni 15). È stato inoltre rastrellato anche mio fratello, e tutti insieme siamo stati adibiti al trasporto di munizioni al fronte. Il 24 ottobre una cannonata uccise mio fratello e ferì gravemente i miei due figli gemelli di 13 anni.
Nell’intento di portare in salvo i miei figlioli feriti, mi sono diretto verso un centro della Croce Rossa, aiutato dagli altri miei figlioli ancora validi, ma una cannonata ci raggiunse e i miei ragazzi (quello di anni 8 e quello di 15) caddero morti, mentre io rimanevo gravemente ferito. Ho perduto un occhio e ho la mano destra che è rimasta immobilizzata.
Siamo stati raccolti da alcuni militari tedeschi, ma abbiamo subito un bruttissimo trattamento. Tuttavia sono poi riuscito a far ricoverare i due gemelli feriti, ma uno è morto dopo due giorni mentre l’altro decedeva al ‘Putti’ il 5 novembre successivo. Di tutta la mia numerosa famiglia, sono quindi io l’unico superstite” [5].

(foto Giovanni Baldini, memo.anpi.it)

Maria Galli scrisse, nella lettera del 6 aprile 1945, della morte a Casaglia della matrigna, della sorella, del cognato e dei loro cinque bambini. La Galli, che abitava a Badolo (Sasso Marconi), fu anch’essa rastrellata ad ottobre: morirono la figlia e il suocero, mentre il marito rimase ferito e perse la vista [6].

Giuseppe Marchi, di Sperticano, nella testimonianza rilasciata il 6 aprile 1945 raccontò dell’incendio della sua casa e della morte di sette familiari, la madre, la moglie, la figlia di quattro mesi e tre zii: “La mia bambina di quattro mesi l’ho trovata decapitata. Mia sorella sventrata. Sono passato poi a seppellire i morti degli altri due fondi […] componenti le famiglie: Laffi Luciano (colono) e Rosa Gaetano (colono). I morti della famiglia Laffi li trovai accanto ad un pagliaio, in parte bruciati, e ammucchiati poco lontano c’erano 11 bambini semi-bruciati. Ho notato la giovane Zebri Bruna, che era in stato interessante, si trovava col ventre squarciato” [7].

Filippo Pirini era sul fondo Cerpiano del Comune di Monzuno. Nella testimonianza rilasciata il 6 aprile 1945 raccontò dell’uccisione di 13 suoi familiari: la moglie, sei figli, tre sorelle, la cognata e due nipoti. Una nipote sedicenne, ferita, era rimasta viva sotto il cumulo dei morti [8].

Aldo Lorenzini era invece di San Martino. Questa la sua testimonianza, rilasciata il 6 aprile 1945:
“Per consiglio del Parroco gli uomini scapparono nei boschi, mentre le donne venivano riunite nella Chiesa di San Martino. Metà della mia famiglia si recò in Chiesa e l’altra metà rimase in casa. Dalla località dove mi trovavo, verso le ore 15, udivo delle mitragliatrici. Alle ore 17 truppe germaniche trucidavano le persone rifugiatesi in Chiesa e quelle rimaste in casa della mia famiglia. Si trovarono i bambini con la testa tagliata e le donne squarciate, anzi una di queste che attendeva un bambino fu trovata col bambino stesso sul ventre squarciato.
Inorriditi da tali spettacoli, in cinque fratelli siamo ritornati nei boschi, e ritornati la sera stessa quanto dopo quattro giorni, rivedemmo tutta la nostra famiglia uccisa e i cadaveri bruciati dopo aver dato fuoco a delle fascine.
Posso testimoniare che il Parroco Don Ubaldo Marchionni fu pugnalato e bruciato in Chiesa, unitamente ad altre 37 persone”.
Lorenzini perse la madre, la moglie, due figlie, tre sorelle, tre cognate e quattro nipoti.

Nell’archivio della Fondazione Gramsci ho rintracciato anche due lettere di Fantozzi a Benito Mussolini: la prima inviata il 9 aprile, la seconda il 16 aprile (in quest’ultima data il Capo della Provincia di Bologna scrisse una lettera dal contenuto analogo anche ad Alessandro Pavolini, segretario del Partito Fascista Repubblicano e comandante generale delle Brigate Nere).

Nella lettera del 9 aprile Fantozzi rammenta due sue precedenti lettere al Duce, del 9 e del 10 ottobre 1944, in cui lo aveva informato di una dichiarazione scritta del Segretario Comunale di Marzabotto sulle rappresaglie avvenute e delle successive smentite dal Console Generale della Germania a Milano, barone Von Halen, e soprattutto del generale Wachter delle SS. Von Halen aveva escluso le rappresaglie ma non l’uccisione di abitanti, perché “i casolari della campagna erano stati trasformati dai banditi in veri e propri fortilizi”. Wachter – di cui Fantozzi allega una lettera del 21 ottobre 1944 – “tiene a far rilevare l’inesistenza di tali azioni repressive”, che furono però confermate in una seconda dichiarazione scritta del Segretario Comunale di Marzabotto. Il Capo della Provincia ammette che allora non aprì un’inchiesta e allega le lettere e le testimonianze che abbiamo citato, facendo riferimento a un recente colloquio in cui aveva accennato della questione al Duce. Aggiunge: “Nessuna segnalazione è stata da me fatta alle Autorità Germaniche”.

Mussolini sapeva, dunque: fin dall’ottobre 1944, e poi nell’aprile 1945. il 16 aprile Fantozzi scrisse al Duce e a Pavolini una lettera che così si concludeva:
“In totale, stando alle notizie offerte dai denuncianti, sono stati rinvenuti 377 cadaveri. Soltanto per 138 i parenti si sono curati di provocare fino ad oggi il provvedimento per la iscrizione del decesso nei registri dello Stato Civile di Bologna. Detto numero di 138 è composto di 24 uomini (di cui 6 ultrasettantenni), 63 donne (di cui quattro ultrasettantenni), 51 ragazzi (di cui 21 inferiori ai cinque anni)” [9].

In aprile Mussolini nulla fece verso i tedeschi, che si sappia. Sappiamo di sue proteste per le stragi precedenti, espresse in una lettera all’ambasciatore tedesco in Italia Rudolf Rahn, datata 15 settembre [10], che seguiva ad altre. Proteste che non ebbero alcun effetto. È vero che Albert Kesselring condannò gli eccessi rispondendo a Rahn il 24 settembre, ma è vero anche e soprattutto che subito dopo accadde l’operazione di Monte Sole Marzabotto, per la quale il Feldmaresciallo si congratulò con il comandante della 16a Divisione già il 30 settembre mattina [11]. Nessuna riprovazione venne neppure dai fascisti, che non prestarono ascolto alle dichiarazioni del Segretario Comunale di Marzabotto e accettarono la versione tedesca. “Il Resto del Carlino”, l’11 ottobre, scrisse di “voci incontrollate, prodotto tipico di galoppanti fantasie in tempo di guerra”, che il giornale smentiva, sostenendo di aver compiuto “un apposito sopralluogo” [12].

Del resto i fascisti avevano aiutato i nazisti nell’operazione. Una testimonianza chiamò in causa Lorenzo Mingardi, segretario del Partito Fascista Repubblicano di Marzabotto [13]. Suor Alberta Taccini, nel suo memoriale, scrisse: “Una cosa ci aveva particolarmente addolorato, l’aver sentito distintamente due SS […] parlare in dialetto bolognese” [14].

La violenza si conferma tratto identitario del fascismo: lo squadrismo degli inizi si trasferisce nella Milizia, vive in Africa e nei Balcani, arriva fino alla RSI. Come per la violenza nazista, non tutto nasce l’8 settembre 1943: bisogna ampliare cronologie e geografie. Circa i nazisti, è chiara la responsabilità dei comandanti, ma non solo la loro. Responsabili furono in primo luogo Helmut Loos e Walter Reder, Adolf Hitler (per gli ordini del 1942) e Albert Kesselring (per le misure del 17 giugno 1944 e l’ordine del primo luglio).

La grandissima parte dei loro collaboratori accettò gli ordini. Alcuni ufficiali li accolsero con ripugnanza o protestarono. Pochi disertarono. Ci fu qualche comportamento più umano: significa che c’è sempre una responsabilità personale, che si può sempre dire no. Successe anche alle Fosse Ardeatine e a Cefalonia. Marco De Paolis, il magistrato che dal 2002 al 2018 ha istruito oltre 500 procedimenti per crimini di guerra, cita la scelta del caporale della Wehrmacht Josef Vogt, che a San Polo di Arezzo, il 14 luglio 1944, disse al maresciallo che gli aveva ordinato di uccidere con un colpo alla testa 48 civili: “La mia pistola non è fatta per questo” [15]. E cita la testimonianza di Fernando Piretti al processo di La Spezia del 2006 sul soldato che a Cerpiano, a Montesole, “si è rifiutato di sparare […] lui non si sentiva di di sparare” [16].

Il tema della responsabilità personale è un tema chiave. Dopo “l’armadio della vergogna” – i documenti sulle stragi tenuti nascosti dal 1960 al 1994 – i processi riaperti dalla Procura Militare di La Spezia retta da De Paolis hanno messo un punto fermo sulle responsabilità. Per Monte Sole Marzabotto c’era già stata la condanna di Reder nel 1951, dopo il processo di Bologna.

De Paolis si è avvalso della possibilità di giovarsi della deposizione di coloro che nel 1944 erano in giovane età. Ma soprattutto la novità che ha introdotto è stata questa: non bisogna limitarsi a giudicare soltanto i comandanti, vanno giudicati anche tutti i collaboratori e gli esecutori materiali. Ecco il tema della responsabilità personale.

Certo, per molti anni non ci sono stati i colpevoli, o quasi. Nel 1950 nelle carceri italiane c’erano solamente cinque ufficiali tedeschi, che scontavano pene miti. Reder, l’unica SS ad aver scontato il carcere, fu amnistiato da Bettino Craxi nel 1985 e nel 1986 ritrattò la richiesta di perdono agli abitanti di Marzabotto avanzata nel 1967 dal suo difensore. E nessuno dei condannati nel processo del 2006 ha scontato la pena.

I fatti di Monte Sole Marzabotto ci fanno riflettere: sul nazismo, sul fascismo, sulla negazione della verità e sulla mancata giustizia che hanno reso le vittime due volte vittime.

E ci fanno riflettere anche sulla guerra, in una fase storica in cui la guerra torna a fare paura e riemergono dal fondo della storia forze brutali e imprevedibili delle quali si era persa memoria.

Si è riabilitata la guerra. Sembrava che la guerra fosse diventata tecnologica, molto meno sporca. I fatti ci dimostrano che non è così. E’ sempre la guerra di una volta. Dobbiamo riacquistare con urgenza il senso della pace. E dobbiamo comprendere che resta saldo “il fondamentale principio della obbligatorietà per il militare di eseguire soltanto gli ordini legittimi e di non eseguire quelli manifestamente criminosi” [17].

Dobbiamo batterci contro ogni guerra. Ma dobbiamo batterci, di fronte a situazioni di guerra, contro i crimini di guerra e perché crescano i disobbedienti, uomini in grado di far ricorso a quel sentimento di umanità che le SS di Reder non ebbero nei villaggi di Monte Sole nel settembre 1944. Un sentimento di umanità che oggi purtroppo non percepiamo nemmeno a Gaza, in Libano, in Russia e in Ucraina. “Uccidere tutti” è un ordine manifestamente criminale, che il militare ha il dovere di non rispettare. Non è vero che i problemi si risolvono con la guerra. E non è vero che “in guerra tutto è permesso”.

Giorgio Pagano, storico, sindaco della Spezia dal ’97 al 2007, copresidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi, ultimo suo libro
“Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto”, Edizioni ETS, 2024


Note

[1] Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia. 1943-1945, Einaudi, Torino 2015, p. 22.
[2] Ivi, p. 297.
[3] In Luca Baldissara, Paolo Pezzino, Il massacro. Guerra civile a Monte Sole, Il Mulino, Bologna 2009. Il testo di Pezzino è stato da lui ripreso e sintetizzato in Marco De Paolis, Paolo Pezzino, Monte Sole Marzabotto. Il processo, la storia, i documenti, Viella, Roma, 2023.
[4] Marco De Paolis, Paolo Pezzino, Monte Sole Marzabotto. Il processo, la storia, i documenti, cit., pp. 52-55.
[5] Archivio Fondazione Gramsci, Materiale vario 1943-1948, fasc. 63.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] ACS, Repubblica sociale italiana, segreteria particolare del Duce, carteggio riservato, b. 16, fasc. 91, sottofasc. 1. Anche in Archivio Fondazione Gramsci, Materiale vario 1943-1948, fasc. 63.
[11] Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia. 1943-1945, cit., p. 291.
[12] Marco De Paolis, Paolo Pezzino, Monte Sole Marzabotto. Il processo, la storia, i documenti, cit., p. 106.
[13] Ivi, p. 72.
[14] Luciano Gherardi, Le querce di Monte Sole. Vita e morte delle comunità martiri fra Setta e Reno. 1898-1944, Il Mulino, Bologna 1994, p. 305.
[15] Marco De Paolis, Paolo Pezzino, Monte Sole Marzabotto. Il processo, la storia, i documenti, cit., p. 127.
[16] Ivi, p. 142.
[17] Ivi, p. 146.

Giorgio Pagano

29 Settembre 2024 https://www.patriaindipendente.it/

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