Maschi nella broligarchia
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L’ascesa di Donald Trump e dei leader della cosiddetta ‘broligrachia’ è il riflesso della paura dei maschi bianchi di perdere i propri privilegi e della rabbia tossica che ne deriva. Un fenomeno dalla portata globale, osservato tra le pagine del saggio Angry white men. American masculinity at the end of an era del sociologo americano Michael Kimmel
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento culturale e politico che ha ridefinito i corridoi del potere globale. Questo fenomeno, definito “l’era della Broligarchia”, rappresenta l’ascesa di una leadership che celebra tratti di mascolinità dominante e spesso aggressiva, manifestandosi non solo in ambito politico, ma anche nei settori economici e tecnologici.
‘Broligarchia’ fonde ‘bro’, (abbreviazione dell’inglese ’brother’, fratello, utilizzato per riferirsi a un amico maschio, ndr) che richiama una mascolinità cameratesca e dominante, con ‘oligarchia’, un sistema di potere elitario. Questo fenomeno alimenta l’ascesa di leader che incarnano forza e controllo, riflettendo il timore del declino della supremazia maschile bianca.
Nel saggio Angry White Men. American Masculinity at the End of an Era (seconda edizione, Avalon Publishing Group, 2017), il sociologo americano Michael Kimmel analizza il senso di vittimizzazione degli uomini bianchi che percepiscono la perdita di privilegi un tempo dati per scontati.[1]

Nelle pagine del libro, Kimmel afferma che “la rabbia degli uomini bianchi nasce dalla combinazione esplosiva di due sentimenti profondi – un senso di diritto acquisito e un senso di vittimizzazione. L’indignazione morale e il populismo anti-Washington trovano forza in ciò che io chiamo ‘diritto leso’: la convinzione che i privilegi a cui si credeva di avere accesso siano stati strappati via da forze più grandi e potenti”.
La cultura della broligarchia ha trovato terreno fertile soprattutto nel settore tecnologico. Figure come Elon Musk e Mark Zuckerberg stanno plasmando nuovi modelli di leadership, basati su una “mascolinità nostalgica” che cerca di riaffermare il controllo. Ne sono un esempio le recenti decisioni di Meta, l’azienda tecnologica statunitense di Zuckerberg che controlla Facebook, Instagram e WhatsApp, che ha annullato i programmi di diversità, equità e inclusione (DEI). Di recente, durante un episodio del podcast Joe Rogan Experience di Joe Rogan, tra i podcaster più popolari al mondo, Zuckerberg ha dichiarato la necessità di abbracciare una maggiore “energia maschile”.
Questo modello di leadership, dominato da pochi uomini, va oltre il settore tecnologico, rafforzando l’oligarchia globale, dove magnati e leader autoritari stanno ricreando nuove strutture patriarcali. Un cambiamento che si ricollega all’osservazione di Kimmel, secondo cui molti uomini percepiscono le trasformazioni culturali come una minaccia diretta alla propria identità e status sociale, innescando un ciclo di risentimento e radicalizzazione.
“Che si tratti di attivisti per i diritti degli uomini che accusano le femministe di aver ribaltato l’equilibrio della giustizia di genere, di uomini che attribuiscono i loro fallimenti sentimentali alle cosiddette opportuniste, interessate solo al denaro, arrivando persino a commettere stragi, o degli esponenti dell’estrema destra, tutti condividono lo stesso sentimento: una rabbia profonda per non ottenere ciò che credono di meritare. In ogni caso, si percepiscono come vittime a cui è stato sottratto qualcosa di prezioso” scrive Kimmel.
L’ascesa della broligarchia è ormai evidente anche a livello globale: la vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni americane segna un successo per oligarchi, autocrati e sostenitori della leadership maschile in tutto il mondo. L’annuncio del suo trionfo ha suscitato un entusiasmo palpabile nei tweet dei leader populisti di Ungheria, India e Israele.
Ma dobbiamo davvero sorprenderci? Il liberalismo è agonizzante da tempo, per diverse ragioni, fra cui l’incapacità di affrontare le ingiustizie storiche e le disuguaglianze del neocapitalismo, gli effetti tossici delle guerre post-11 settembre. Ci si domanda spesso se il declino del liberalismo non abbia avuto inizio proprio nel momento del suo massimo trionfo, quando, dopo la vittoria nella Guerra Fredda, gli Stati Uniti spinsero la Russia ad adottare la forma più estrema e deregolamentata possibile di capitalismo.
Ma come si collega tutto questo agli Stati Uniti di oggi? A prima vista, gli oligarchi russi degli anni ’90 vestiti con abiti di Gucci e i magnati della Silicon Valley in felpa sembrano mondi opposti, ma entrambi hanno costruito enormi fortune grazie alla deregolamentazione del commercio. Negli ultimi anni, figure come Elon Musk, Peter Thiel e Marc Andreessen hanno spinto per politiche di libero mercato, limitando l’intervento statale. Oggi i giganti tech, presenti all’inaugurazione di Trump, continuano a eludere le regolamentazioni, rafforzando il loro potere.
Ciò che forse colpisce di più dell’amministrazione Trump in ascesa, che si sforza di presentarsi come paladina di una classe di lavoratori dimenticata, sono le sue stesse caratteristiche oligarchiche. Ma questo cambiamento politico epocale è una scossa secondaria di un cambiamento più grande che sta scuotendo il mondo intero. Perché, a differenza degli oligarchi russi, i broligarchi della Silicon Valley non si sono limitati ad accumulare ricchezze inimmaginabili ma hanno creato prodotti di cui nessuno di noi può o vuole fare a meno.
Con l’aumento del potere e dell’ubiquità dei servizi digitali, cresce anche il potere degli uomini dietro i monopoli che hanno costruito l’architettura digitale delle nostre vite. Insieme ad Amazon, Google e Apple, Meta è comparsa davanti alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti nel 2020 per rispondere delle accuse di comportamento anticoncorrenziale. Il report presentato ha rilevato che queste aziende detengono un “potere monopolistico” e fornito prove significative del fatto che le loro pratiche anticoncorrenziali abbiano ostacolato l’innovazione, ridotto la scelta dei consumatori e indebolito la democrazia.
Un elemento cruciale di questa nuova era mediatica è infatti il ruolo pervasivo della disinformazione, che ha trasformato i social media in strumenti non solo di comunicazione, ma di controllo narrativo. Dal 2017, la manipolazione organizzata dei social media è più che raddoppiata, con 70 paesi che usano la propaganda computazionale per influenzare l’opinione pubblica. In 45 democrazie, politici e partiti impiegano queste tecniche per ottenere il sostegno degli elettori.
La proliferazione di fake news e la crescente polarizzazione online non si limitano a distorcere la realtà, ma contribuiscono attivamente a rafforzare il potere di chi sa sfruttarle, delegittimando al contempo ogni voce critica. Nel paradosso tra verità e disinformazione, la verità diventa una questione politica. Non sono i fatti a cambiare, ma il modo in cui li interpretiamo. I social media amplificano questa polarizzazione, creando le cosiddette bolle di filtraggio (filter bubbles) e camere dell’eco (echo chambers).
La diffusione di contenuti falsi erode la fiducia nelle istituzioni: secondo il Digital News Report 2023 del Reuters Institute, solo il 40% delle persone afferma di fidarsi costantemente delle notizie, mentre il Global Risks Report 2024 del World Economic Forum ci dice che la disinformazione rappresenta il principale rischio nei prossimi due anni e il quinto nel prossimo decennio.
In questo contesto, Trump ha saputo adattarsi con straordinaria abilità, passando dall’essere il “Presidente di Twitter” al perfetto protagonista dell’era dei video brevi, dove l’informazione viene consumata in frammenti rapidi e facilmente condivisibili.
Secondo Michael Kimmel, i social media agiscono come una bolla per molti uomini che si sentono traditi dal mondo che cambia, incapace di riconoscerli come punto di riferimento centrale. Questo senso di alienazione favorisce la creazione di ambienti in cui le narrazioni alternative e progressiste vengono sistematicamente marginalizzate.
“La sociologa Sarah Sobieraj e il politologo Jeffrey Berry li definiscono ‘media dell’indignazione’ – talk show, blog e notizie via cavo creati ‘per suscitare una reazione viscerale nel pubblico, generalmente sotto forma di rabbia, paura o senso di rettitudine morale, utilizzando generalizzazioni eccessive, sensazionalismo, informazioni fuorvianti o chiaramente inaccurate, attacchi personali e verità parziali sugli avversari’” si legge nel libro di Kimmel.
Trump ha intuito il potere dell’economia dell’attenzione e ha orientato gran parte della sua campagna verso la collaborazione con gli esperti degli algoritmi digitali. La cerimonia d’insediamento, alla quale erano presenti non solo i giganti della tecnologia, ma anche influencer di spicco come Jake and Logan Paul e lo stesso Joe Rogan, ha rappresentato l’ufficiale consacrazione di una nuova era dell’informazione, in cui la politica è sempre più spettacolo e intrattenimento virale.
Come riporta Axios, gli elettori americani “hanno appena deciso – tra le molte altre cose – che l’intelligenza artificiale crescerà in un ambiente permissivo e senza regole, piuttosto che sotto la guida di genitori più severi”. Infatti non sarà Donald Trump, ma i vari Peter Thiel, Jeff Bezos ed Elon Musk del mondo a stabilire le nuove regole che governeranno le nostre vite. Come molte élite corporative, mirano a ridurre le tasse, eliminare regolamentazioni e ottenere manodopera a basso costo – come dimostrano i recenti scontri con la destra populista sui visti H-1B per assumere forza lavoro in occupazioni specializzate – trasformando le loro immense ricchezze in un potere politico senza precedenti.
Ma non è forse solo una versione più drammatica e con conseguenze globali di un film che abbiamo già visto? Nella Brexit britannica o durante innumerevoli elezioni recenti in tutto il mondo, dove le forze “liberali” e “progressiste” hanno fallito ancora e ancora nel pareggiare l’immaginazione impiegata dai loro avversari.
L’era della broligarchia porta con sé domande cruciali: qual è il costo sociale e culturale di una leadership dominata da una visione ristretta e spesso retriva della mascolinità? Quali spazi restano per il progresso, la diversità e l’inclusione in un mondo sempre più polarizzato?
Kimmel ci avverte che il senso di “privilegio perduto” alimenta tensioni sociali che, se non affrontate con politiche inclusive e narrazioni alternative, potrebbero condurre a ulteriore frammentazione e conflitto.
“Tra suprematisti bianchi, neonazisti e altri gruppi, è proprio in loro che possiamo vedere più chiaramente quel senso di indignazione che unisce tutti gli uomini bianchi arrabbiati d’America. Parlo della rabbia come forma di resistenza, senza concentrarmi troppo sul suo contenuto specifico. Dopotutto, la rabbia può essere anche speranzosa, strumentale, una convinzione che, con abbastanza impegno, il cambiamento sia ancora possibile. […] Ma la rabbia può anche trasformarsi in amarezza, in una disperazione senza speranza, che porta a una violenza nichilista e impotente. La rabbia può temporaneamente alleviare l’umiliazione, ma spesso solo a spese di qualcun altro” scrive il sociologo.
Comprendere e affrontare la rabbia degli uomini bianchi non significa assecondarla, ma trasformarla in un’opportunità per costruire una società più equa e inclusiva. In questo contesto, diventa essenziale interrogarsi sul futuro delle istituzioni democratiche e sul ruolo della società civile nel contrastare queste dinamiche.
Note
[1] Le citazioni del libro presenti in questo articolo sono tratte dalla prima edizione, pubblicata da Public Affairs nel 2013.
Per approfondire
Rossella Forlè
27/3/2025 https://www.ingenere.it/
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