MATERNITÀ E LAVORO IN ITALIA, IL BINOMIO IMPOSSIBILE
Maternità e lavoro in Italia, il recente caso Ita e le ultime note dichiarazioni di un’imprenditrice del settore moda confermano che in Italia maternità e lavoro sono spesso inconciliabili.
Lo scorso 23 marzo, con una storica sentenza, il Tribunale del Lavoro di Roma ha dichiarato la compagnia Ita Airways (nata dalle ceneri di Alitalia) colpevole di discriminazione per la mancata assunzione di due assistenti di volo in gravidanza, condannando altresì la società al risarcimento danni. Secondo il Giudice la società guidata da Alfredo Altavilla avrebbe adottato “un comportamento discriminatorio nelle assunzioni escludendo completamente le lavoratrici in gravidanza”. A nulla sono valse le tesi difensive presentate dai legali di Ita.
Lavoratrici escluse per gravidanza, il caso Ita Airways
Le due donne, entrambe già dipendenti Alitalia con base a Fiumicino ed entrambe con oltre dieci anni di anzianità, hanno inviato la candidatura con regolare domanda di “adesione” per essere assunte dalla neonata compagnia aerea di bandiera ma, nonostante la sussistenza di tutti i requisiti richiesti, non hanno ricevuto alcuna chiamata dalla società, neppure per partecipare alla selezione. I lavoratori assunti sarebbero stati selezionati attraverso criteri definiti dalle ricorrenti “oscuri”. Ed infatti a loro discapito sono state preferite altre lavoratrici con minore anzianità e con minore esperienza lavorativa. La stessa procedura di assunzione è avvenuta tramite modalità poco trasparenti, ossia attraverso il semplice invio di una mail con la quale si comunicava l’avvenuta assunzione ed una lettera da restituire firmata.
Il Tribunale del Lavoro di Roma, al termine del dibattimento, ha delineato un quadro accusatorio molto grave nei confronti di Altavilla e della società: la mancata assunzione delle due lavoratrici sarebbe riconducibile esclusivamente allo stato di gravidanza delle stesse. Nelle dieci pagine di sentenza il Giudice ha accertato che ad oggi delle 755 risorse assunte da Ita Airway 412 sono donne, ossia il 54,6%. Di queste 412 dipendenti nessuna è incinta o in astensione obbligatoria per maternità. Un simile dato risulta assolutamente incompatibile con le statistiche relative alle donne in età fertile. Secondo i dati pubblicati dall’Istat, e raccolti nella cosiddetta “Piramide dell’età”, nell’ultimo biennio il rapporto tra la popolazione femminile in età fertile (15-49 anni) ed il numero delle nascite si attesta intorno al valore di 30. Più precisamente nel 2020 sono 12.209.642 le donne in età fertile a fronte di 404.892 nascite mentre nel 2021 sono 11.965.446 a fronte di 399.431 nascite. Ciò significa che nell’arco di un anno ogni trenta donne in età fertile si verifica una nascita.
Alla luce dei dati forniti dall’Istat, il Giudice ha concluso che alle 412 assistenti di volo finora assunte avrebbe dovuto corrispondere un’incidenza di 13,7 donne in gravidanza. Così non è stato nella realtà dei fatti.
L’incidenza pari a 0 non è frutto del caso ma rientra in un preciso modello di assunzioni, consapevolmente mirato ad escludere le lavoratrici in gravidanza, considerate quasi una sorta di “handicap” alla produttività. Ed infatti, oltre alle due lavoratrici ricorrenti, è stata accertata la discriminazione di almeno altre sette donne, di cui una con base a Linate. Anch’esse in gravidanza e anch’esse non assunte.
L’avvocato Sergio Romanotto, che ha seguito la causa con le avvocate Tiziana Laratta e Francesca Verdura, ha ribadito l’importanza della storica sentenza del Giudice del Lavoro, sottolineando come essa abbia affermato “un principio di civiltà che ancora oggi nella pratica è tutt’altro che scontato. il diritto delle donne lavoratrici a non subire un trattamento pregiudizievole a causa dello stato di gravidanza”.
Maternità e lavoro, in Italia l’una esclude l’altro
Il modello adottato da Ita Airways non costituisce l’eccezione bensì la regola. Maternità e lavoro, infatti, non rappresentano un binomio vincente. Ancora oggi, frequentemente, una donna è costretta a scegliere se essere lavoratrice o essere madre, come se l’una escludesse l’altra.
Agli uomini non è riservato il medesimo trattamento.
In Italia le donne investono di più dei loro coetanei maschi in formazione e il livello di istruzione femminile è notevolmente più alto di quello maschile. Le donne diplomate sono il 65,1% mentre gli uomini sono il 60,5%. Le donne che possiedono una laurea sono il 23%, gli uomini si fermano al 17,2%. La maggiore istruzione non si traduce però in valide e stabili opportunità lavorative. Le donne, pur essendo oggettivamente più istruite degli uomini, faticano ad emergere nel mercato del lavoro e a ritagliarsi uno spazio. Il di Save the Children ha rivelato che il tasso di occupazione per gli uomini in possesso del diploma è del 73,1% mentre per le donne è fermo al 54,2% (18,9 punti di divario). Il divario di genere registra un lieve miglioramento tra i laureati (6,7 punti), con un tasso di disoccupazione per gli uomini del 83;1% e per le donne del 76,4%.
Con la maternità quelle carriere, costruite con fatica e sacrifici, subiscono l’ennesimo colpo di arresto. E mentre la maternità viene punita, la paternità, viceversa, viene premiata.
Nella sua relazione annuale l’Ispettorato del lavoro ha evidenziato come “la condizione di genitorialità ha strutturalmente un impatto diverso sulla partecipazione al mercato del lavoro di uomini e donne. Sussiste infatti una relazione tra la diminuzione degli indicatori relativi alla partecipazione e all’occupazione in coincidenza della maternità e in relazione al numero dei figli”. Dunque, in presenza di figli la presenza maschile aumenta mentre quella femminile diminuisce, con un divario di ben 30 punti tra uomini e donne genitori che lavorano. E il divario occupazionale aumenta con il numero dei figli. Secondo i dati Istat nel 2020 per le donne con 1 figlio il tasso di occupazione è del 56,3% mentre con 3 o più figli scende al 44,2%. Alla nascita dei figli, l’11% delle donne ha abbandonato il lavoro in caso di un figlio solo, il 17% con due figli, il 19% con tre o più.
Secondo l’Ispettorato del lavoro nel 2020 si sono registrate 42.000 dimissioni consensuali di genitori con figli da 0 a 3 anni. Di queste ben il 77% sono madri. Elena Caneva, Coordinatrice del Centro Studi di WeWorld (organizzazione italiana che difende i diritti di donne, bambini e bambine) ha sottolineato come “la partecipazione delle donne al mondo del lavoro è ancora molto legata ai carichi familiari e il lavoro di cura continua a relegare le donne in posizioni di subalternità rispetto agli uomini. La fuoriuscita seppure temporanea dal mercato del lavoro, infatti, incide sulle possibilità di carriera, sugli stipendi, sulla formazione permanente”.
Motherhood Penalty
Alla maternità può seguire una pesante, e umiliante, penalizzazione in materia di reddito. Molto frequentemente alla nascita dei figli corrisponde un sistematico declino salariale. Questo fenomeno è noto come Motherhood Penalty, letteralmente “penalizzazione associata alla maternità”. Secondo l’Inps nei ventiquattro mesi dopo il congedo di maternità la donna guadagna in media tra il 10 e il 35% in meno di quanto avrebbe guadagnato se non avesse avuto il figlio. La penalità è molto evidente nel breve periodo ma permane anche diversi anni di distanza dalla nascita. Uno studio condotto dagli economisti Casarico e Lattanzio ha dimostrato che a quindici anni dalla maternità i salari lordi annuali delle madri sono del 53% inferiori rispetto a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita. Le madri guadagnano in media 5.700 euro in meno rispetto alle donne senza figli. Oltretutto le aziende, spesso, non offrono alle madri l’opportunità di fare carriera e, conseguentemente, di progredire economicamente oltre che lavorativamente. Di conseguenza, con le ristrette tutele attuali, se si vuol far carriera è meglio non avere figli. Anche in questo caso i dati parlano chiaro. Il 57% dei dirigenti donne non hanno figli, contro il 25% dei dirigenti maschi. Ancora una volta essere donna è un ostacolo, un impedimento, e la maternità è l’ennesimo fattore discriminante. .
Madri o lavoratrici? L’ipocrisia della propaganda in Italia
Il caso Ita è solo l’ennesima dimostrazione dell’ipocrisia di un Paese che ci vuole madri, ma lontano dai riflettori. Veniamo bombardate fin da bambine da pubblicità progresso che ci invitano, nemmeno troppo velatamente, a mettere su famiglia. Uno degli obiettivi primari della nostra esistenza deve essere figliare, altrimenti sei considerata difettosa, strana, egoista. Ci viene addossata, in quanto donna, la responsabilità di combattere la denatalità che affligge l’Italia, paese in pieno inverno demografico. La colpa del calo delle nascite dopotutto è nostra. Vogliamo troppa libertà, vogliamo il controllo del nostro corpo, vogliamo studiare e fare carriera. Ma la realtà è molto diversa da quella raccontata da certa propaganda. La verità è che in Italia anche diventare madre è una scelta coraggiosa. Perché diventare madre quasi sempre significa rinunciare a tutto ciò che fino a quel momento si è duramente costruito sul piano professionale, senza ricevere alcun aiuto da parte dello Stato.
Diventiamo madri, e poi? E poi c’è l’abbandono. Mancano infatti per le madri tutele e servizi. Non tutte le famiglie hanno nonni disponibili a tenere i figli e non tutte possono economicamente permettersi una babysitter a tempo pieno. Gli asili nido pubblici sono pochi, quelli privati hanno rette esorbitanti. Le lavoratrici madri si trovano costrette a dividersi tra impegni lavorativi e impegni familiari, spesso senza poter contare sulla concessione del part-time o sulla modifica dei turni di lavoro.
Le aziende si allineano a questa tendenza culturale e ne approfittano. Se sei donna e vuoi fare carriera devi comportarti come un uomo. Questo si traduce in colloqui imbarazzanti dove alla malcapitata di turno in età fertile tocca rispondere a domande dal carattere assolutamente personale: Sei sposata? Hai figli? Vuoi figli? Se si, quanti?
Queste domande, oltre ad essere non professionali, sono anche illegali in quanto violano il Codice delle Pari Opportunità, lo Statuto dei lavoratori e la Costituzione.
E In particolare l’articolo 37 della Costituzione recita “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
Un principio troppo spesso dimenticato dalla politica, in nome della produttività a tutti i costi.
Alessia Lentini
12/5/2022 https://www.lenius.it
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