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ASSISTENZA SANITARIA: DARE VOCE AI MEDICI DI FAMIGLIA!

Report da due testimonianze

I medici di famiglia rappresentano il trait d’union fondamentale tra le esigenze di salute dei cittadini e la possibilità di cure offerte dal territorio. Sono i primi referenti a cui si rivolge chi ha qualche problema o accusa sintomi preoccupanti. E sono loro che poi indirizzano il loro pazienti verso ulteriori esami diagnostici oppure altre visite specialistiche oppure semplicemente prescrivono le cure appropriate.
Pertanto sono i primi a prendere in carico una sofferenza che non è solo fisica, ma anche psicologica. Chi avverte disturbi più o meno gravi e non ne conosce la causa, inevitabilmente entra in uno stato di inquietudine se non di vera e propria ansia.

Solo il medico di famiglia conosce a fondo l’anamnesi di eventuali patologie pregresse dei suoi assistiti. Quindi la sua è una funzione molto delicata: non è chiamato solo a dare le indicazioni utili e opportune dal punto di vista medico per potere accertare le cause dei disturbi ma anche eventualmente a rassicurare il paziente aiutandolo a gestire le sue ansie. Come afferma il poeta e critico Samuel T. Coleridge, «Il miglior medico è quello che sa infondere speranza». Se questo è vero per qualsiasi medico, anche lo specialista a pagamento che magari non si conosce e con il quale si viene a contatto solo occasionalmente, a maggior ragione vale per il medico che rappresenta il punto di riferimento imprenscindibile per la propria salute.

Di recente, è stato pubblicato dal Corriere della Sera un articolo in cui vengono messe in rilievo diverse criticità sia nel ruolo del medico di famiglia, sia nella preparazione che gli viene permesso di conseguire, sia nella valorizzazione che viene data al suo lavoro e alla sua funzione sociale.

Si rileva intanto che i medici di famiglia sono in quantità insufficiente rispetto ai bisogni della popolazione e che nei prossimi anni le uscite del personale che ha raggiunto l’età della pensione non saranno compensate da un adeguato numero di nuovo ingressi, pertanto la carenza peserà ancora di più. Inoltre viene rimarcata la differenza di trattamento anche economico tra coloro che frequentano un corso triennale per diventare medico di famiglia e coloro che frequentano un corso per diventare medico specialista. Ai primi viene corrisposta una borsa di studio di 966 euro al mese soggetti a Irpef, mentre gli specializzandi ricevono una borsa di studio di 26 mila euro senza Irpef. Anche per questo l’opportunità di diventare medico di famiglia risulta meno appetibile per i giovani medici neolaureati. Ma la criticità più grave starebbe in una carenza di formazione adeguata e non in linea con i bisogni del nostro tempo, in cui i medici di famiglia hanno, fra i propri assistiti, una sempre maggiore quantità di persone anziane e con patologie croniche. I medici di famiglia, per evitare di mandare i propri assistiti a fare accertamenti che necessitano di strumentazioni adeguate in un periodo in cui le liste d’attesa per esami diagnostici particolari si fanno sempre più lunghe, dovrebbero essere messi in grado di sapere e di potere usare apparecchiature per esami di primo livello, come spirometri, ecg, ecografi ecc. Se avessero questa possibilità, nei casi meno gravi o che non necessitino di particolari interventi, lo stesso medico di famiglia potrebbe prescrivere una terapia evitando al paziente ulteriori controlli, che significano anche attese ansiogene oppure un notevole esborso di quattrini se si volessero velocizzare i tempi rivolgendosi alla sanità privata.

Infine si rileva una grossa problematica che riguarda questa professione: mentre la domanda di medici sul territorio è notevolmente aumentata (ne abbiamo fatto l’esperienza durante la pandemia di Covid, con la grande richiesta di interventi della medicina territoriale) la disponibilità all’assistenza pare invece notevolmente diminuita.

A questo punto mi sono chiesta quale è la percezione che gli stessi medici di famiglia hanno di se stessi e del delicatissimo ruolo che sono chiamati a svolgere, come vivono il rapporto con le istituzioni sanitarie, quali ostacoli o difficoltà incontrano per poter svolgere al meglio il loro compito. E ho posto alcune domande a due medici di famiglia.

Le domande riguardano soprattutto come giudicano il loro lavoro e il servizio che riescono a erogare, quali sono le criticità che essi stessi rilevano nel poter erogare ai loro pazienti un servizio ottimale, quali misure correttive eventualmente proporrebbero.

Ne ho discusso con due medici di famiglia di mia conoscenza – il dott. Demo e la dott.ssa Gambino – separatamente. Le conversazioni sono state molto ricche di informazioni e anche di spunti di riflessione. Data la vastità e anche la complessità delle questioni emerse, mi limiterò a riportarne alcuni aspetti essenziali.
Rispetto al servizio che i medici di famiglia riescono a erogare, le risposte sono molto chiare. E’ vero che l’orario di lavoro è stabilito per contratto, ma, data la reale crescita di popolazione che necessita di assistenza (anziani, malati cronici, cui si aggiungono anche altre categorie come degenti in Case di Riposo e anche stranieri immigrati) in realtà per il medico che vuole erogare un servizio veramente utile non esiste più un limite nell’orario di lavoro. Il dott. Demo invitava qualche giornalista a andare in laboratorio per esempio il lunedì. Per appurare come – dato il numero delle persone presenti e le necessità di ciascuno di essere ascoltato e consigliato – si va molto oltre le tre ore di lavoro giornaliere fissate per contratto. Anche la dott.ssa Gambino sostiene di fare molte più ore delle tre giornaliere previste per contratto, anche perché questo è inevitabile quando si raggiunge il massimo numero di assistiti previsto, che è di 1575 pazienti. A questi occorrere aggiungere anche i temporaneamente residenti, tra cui molti stranieri. Ma, oltre il numero massimo, non si è retribuiti. Eppure è necessario assistere anche loro, chi lo fa, altrimenti?

Un altro problema che sollevava il dott. Demo sono le lungaggini burocratiche, che tolgono tempo prezioso all’assistenza dei pazienti, specialmente quelli con malattie croniche, che andrebbero seguiti periodicamente.
L’unico limite di orario che hanno i medici di famiglia più anziani riguarda le visite in orario notturno. Per queste rimane la guardia medica, funzione di solito svolta da colleghi più giovani, medici di famiglia anche loro ma che non hanno ancora superato il massimale previsto di assistiti, per cui devono completare l’orario di lavoro con altre prestazioni richieste loro dalle ASL come turni in Pronto Soccorso e guardie mediche.

Il problema grosso, messo in evidenza da entrambi i medici, è che, di fronte agli accresciuti bisogni di assistenza della popolazione, non corrisponde una adeguata crescita nel numero dei medici di famiglia che se ne possano fare carico. E la situazione, secondo le previsioni, tenderebbe a peggiorare per il futuro, perché i tanti medici di famiglia che per anzianità andranno in pensione nei prossimi anni non saranno sostituiti da un adeguato numero di nuovo ingressi.

Già attualmente, come rileva la dott.ssa Gambino, date le cresciute necessità, si è di molto allargata anche l’area territoriale di pertinenza di un singolo medico, e questo vale anche per i giovani medici sostituti. Inoltre, al medico di famiglia viene richiesto di tutto ormai, “siamo diventati assistenti sociali”, rileva la dottoressa.

Da non sottovalutare anche il problema delle ADP (Assistenze Domiciliari Programmate), ad esempio nelle Case di Riposo. Per queste assistenze, se viene aperta una cartella ADP, il medico di famiglia avrebbe diritto a un incentivo economico. Ma a questo proposito si apre un altro problema, come rileva in particolare il dott. Demo. I medici di famiglia possono essere chiamati dall’ASL a restituire dalla loro retribuzione parte del guadagno (e questo avviene già da molti anni) se si dovessero aprire ADP oltre al limite previsto, presumibilmente, dal budget di spesa. Specialmente nelle Case di Riposo, viene limitato il numero di cartelle ADP da aprire in base al numero degli utenti. Se ne apre una nuova in caso di decesso o di guarigione di un altro assistito.

Ma sia il dott. Demo che la dott.ssa Gambino sostengono che loro bypassano tranquillamente queste disposizioni, recandosi ugualmente a visitare i loro assistiti senza aprire alcuna cartella, rinunciando così all’incentivo economico. In tal modo, non devono rendicontare nulla all’ASL delle loro visite. “Non mi interessa, – sostiene il dott. Demo – risparmio lavoro burocratico a favore di una effettiva assistenza”. E la dott.ssa Gambino a sua volta precisa: “Non ho scelto di fare il medico per arricchirmi, ma per fare il mio lavoro secondo scienza e coscienza”.

Questo discorso si collega però a un problema più vasto, da cui emergono, a mio avviso, alcune vistose contraddizioni. Sempre a detta del dott. Demo, spesso le ASL richiamano i medici di famiglia sul fatto che prescrivono troppi esami diagnostici o troppi farmaci. Il problema è sempre il solito: l’ASL intende risparmiare sulla spesa relativa all’assistenza. Tuttavia anche su questo i medici da me consultati hanno affermato che loro sono sempre pronti a motivare le loro prescrizioni e che non si sentono mai condizionati da queste “ingiunzioni”. La dottoressa ha affermato di non avere mai avuto nessun rilievo in proposito, il dott. Demo, a un direttore di distretto che gli avrebbe rimproverato le troppe prescrizioni, avrebbe risposto “Mettimi nero su bianco quello che mi chiedi”. L’altro avrebbe risposto “Beh, se è un diritto, puoi prescrivere quello che vuoi”.

A questo punto io rilevo da parte mia il nocciolo del problema: è che esiste probabilmente una divaricazione tra le esigenze diagnostiche e terapeutiche della popolazione e le richieste di spese sui fondi a ciò destinati da parte delle istituzioni. A tal proposito, una signora che lavora all’ASL mi faceva notare come le indicazioni di non superare un tetto nelle spese non provengano in prima istanza dall’ASL, ma dalla Regione che le trasmette i fondi. E rilevo anche una contraddizione come utente del Sistema Sanitario: come si conciliano allora queste limitazioni poste ai medici di famiglia con gli inviti fatti a più riprese alla popolazione di ricorrere più spesso alla prevenzione?
Ma la prevenzione si fa attraverso esami diagnostici, come ben sappiamo noi donne, per anni assillate (certamente a ragione) dalle richieste della Prevenzione Serena! Anche gli uomini, dopo una certa età, sono invitati a fare frequenti controlli prostatici. E allora?
D’altra parte, come rileva il dott. Demo, la spesa farmaceutica, se rapportata alle spese complessive dell’ASL, ricoprirebbe non più del 2/3% del totale.

Un altro problema rilevato è che i medici di famiglia non sono autorizzati a fare essi stessi prenotazioni, per conto dei loro assistiti, né a ricevere referti. Se lo facessero, eviterebbero a pazienti, magari anziani e impossibilitati a muoversi, ulteriori disagi. Il motivo sarebbe che si violerebbe la privacy del cittadino. Però – rileva il dott. Demo – se fosse concesso ai medici di famiglia scaricare gli esiti delle analisi o i referti, l’assistito che consulta il suo medico salterebbe un passaggio ed eviterebbe perdite di tempo.

La dott.ssa Gambino però a questo proposito rileva che in effetti la questione della privacy si pone, in quanto non tutti gli assistiti desiderano poi portare al loro medico di famiglia l’esito dei loro esami. Magari preferiscono rivolgersi direttamente allo specialista. Io personalmente questo lo trovo un po’ incongruo perché penso che, anche rivolgendosi a uno specialista, in ultima istanza chi segue l’iter complessivo della patologia e prescrive le terapie è poi il medico di famiglia. Ma la dottoressa rileva che potrebbero verificarsi casi in cui l’assistito la pensa diversamente.

Inoltre rileva che, per certe problematiche particolari e ben definite dall’ASL, come ad esempio uno scompenso cardiaco, è possibile che il medico di famiglia riceva il referto e lo comunichi al paziente o ai familiari.

Per quanto riguarda la possibilità per il medico di famiglia di effettuare esami di primo livello con la strumentazione adeguata, avendone le competenze richieste, la dott.ssa Gambino rileva che occorrerebbero locali adeguati, personale aggiuntivo e che comunque strumenti complessi per la diagnostica, ad esempio per fare una ecografia, hanno dei costi elevati per un medico di famiglia. Costi che può permettersi di sostenere solo una struttura ospedaliera.

E qui entra anche in ballo una questione estremamente complessa e ancora tutta da definire, cui hanno accennato entrambi i medici: in che direzione sta andando la Medicina Territoriale e quale configurazione dovrebbe prendere nel prossimo futuro?

Di Medicina Territoriale abbiamo spesso sentito parlare durante ill Covid, soprattutto perché se ne mettevano in evidenza le inefficienze. Ma in che cosa consiste? La questione è molto intricata e complessa e andrebbe approfondita a parte. Qui ne do solo qualche accenno, con qualche riferimento alle Case della Salute, alle Case di Comunità e alle AFT (Aggregazioni Funzionali Territoriali).

“Le Case della Salute sono strutture che erogano servizi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali a tutti i cittadini, garantendo la continuità assistenziale ospedale-territorio. Assistenza generalmente garantita 24 ore su 24, risultato della collaborazione multiprofessionale di diversi operatori (medici di medicina generale, infermieri e infermieri di famiglia, ostetriche, fisioterapisti, assistenti sociali, oss, ecc…). Adottate e dislocate in molte regioni italiane come la Liguria, l’Emilia-Romagna, la Toscana e molte altre” scrive Dario Tobruk su “L’ infermiere. Manuale teorico-pratico per i concorsi e la formazione professionale”.“Le Case di Comunità dovrebbero costituire una ulteriore evoluzione delle Case della Salute, con obiettivi ancora più ambiziosi sul piano dell’assistenza generalizzata. “Purtroppo occorre constatare che, al momento, le comunità sono smarrite, frantumate, frullate dalla globalizzazione e dai recenti avvenimenti sanitari ed economici. In questo senso il termine “Casa della Comunità” appare quindi ancor più fuori contesto, instabile e senza reali punti o radici di riferimento”. Bruno Agnetti da CSPS (Centro Studi Programmazione Sanitaria)

Dal primo Gennaio 2025 dovrebbe partire l’Accordo o Convenzione che riguarda le cosiddette AFT (Aggregazioni Funzionali Territoriali), che dovrebbero riorganizzare l’assistenza sanitaria territoriale secondo nuovi piani molto ambiziosi: dovrebbero assicurare l’assistenza a vari livelli, durante tutto l’arco della giornata, per una popolazione non superiore ai 30.000 abitanti.

Le Case di Comunità dovrebbero essere le strutture territoriali con cui si realizzano in concreto le AFT, che dovrebbero prevedere per i medici il ruolo unico, flessibilità di orario nell’erogazione dell’assistenza (quindi anche di notte), lavorare in team con gli altri operatori sanitari. I medici di famiglia dovrebbero trovare il loro ruolo anche lavorando in queste strutture, oltre che negli ambulatori, secondo accordi e modalità da definire. In realtà, nonostante l’accordo dovrebbe entrare in vigore da gennaio 2025, è ancora tutto molto confuso e non chiaro. A questo proposito alcune grosse criticità sono state rilevate dagli stessi medici che ho avuto modo di sentire.
Ad esempio:

  • ci sarà la copertura finanziaria per un progetto così ambizioso? Nel 2025 anche i fondi messi a disposizione dal PNRR dovrebbero ridursi; – ci sarà personale sufficiente a coprire le necessità del servizio h24, come previsto, dal momento che già oggi il personale medico e sanitario scarseggia?
  • che ruolo avrà, in questo contesto, il tradizionale medico di famiglia? I medici da me ascoltati paventano la perdita di quel rapporto speciale di fiducia che fino ad oggi ha contraddistinto il rapporto medico di famiglia – assistito,
  • e, last but not least, come la mettiamo con la legge sull’Autonomia Differenziata nella definizione dei LEP, cioè dei Servizi Essenziali Prestazioni che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini su tutto il territorio nazionale? I medici di famiglia da me consultati, essendo entrambi sulla breccia del servizio pubblico ormai da molti anni si augurano di andare in pensione prima che il “libro dei sogni” diventi realtà. E intanto ringraziano me e la redazione della rivista per aver dato loro la possibilità di fare sentire anche la loro voce!

Rita Clemente

Scrittrice. Collaboratrice radazionale di Lavoro e Salute

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