Memorandum Italia-Libia, l’ipocrisia del rinnovo “con modifiche”
Di fronte al rinnovo del Memorandum osceno tra Italia e sedicente governo libico, quello riconosciuto dalla Comunità internazionale ma che non controlla che parti marginali di quell’immenso Paese, (il quarto in Africa per estensione) c’è da rabbrividire davanti all’ipocrisia governativa. Proviamo a spiegare le ragioni partendo forse da lontano, per arrivare al presente.
Un presupposto è necessario. La Libia, come comunemente la chiamiamo non esiste, è morta con l’uccisione del suo dittatore Muhammar al Gheddafi. La Libia è una invenzione coloniale italiana realizzata nel 1911 che nel quadro delle spartizioni coloniali, ebbe la possibilità di prendere tre regioni distinte, Tripolitania, Cirenaica e poi Fezzan e unificarli in un unico Stato. Neanche nel periodo del regno di Re Idriss (fino al 1969 con il golpe di Gheddafi) si riuscì a creare un vero e proprio Stato libico, impresa riuscita al dittatore caduto nel 2011 attraverso una particolare gestione di un processo definito “rivoluzionario”.
La Libia di oggi sembra essere un ritorno al passato. Milizie e divisioni tribali parcellizzate, interessi internazionali, legati non solo al controllo delle fonti energetiche, traffici di petrolio (raffinato o meno), di armi, di droga e di persone, sono i reali fattori economici di un Paese attraversato da una vera e propria guerra civile. In cui, oltre le fazioni più forti e quotate nel gioco micidiale della geopolitica, rivestono un ruolo micidiale alleanze e scontri fragili e friabili.
Ebbene, con un Paese in così tragiche condizioni, in cui l’autorità riconosciuta a livello internazionale, il Governo di accordo nazionale (Gna), di Mustafà al Serraj, non controlla neanche l’intera città di Tripoli e sopravvive unicamente grazie ai finanziamenti dall’estero e ad accordi temporanei con alcune delle forze che lo contrastano, l’Europa stringe accordi e l’Italia firma Memorandum di durata triennale.
Ci si riferisce ovviamente al Memorandum of understanding (Mou) che sarebbe dovuto servire a fermare l’ingresso illegale di richiedenti asilo in Europa. Missione in parte riuscita, verrebbe da dire cinicamente, almeno 40mila persone partite dai porti libici sono stati riprese e riportate nei campi di detenzione del Paese, finanziati dal governo italiano con centinaia di milioni di euro che servono a pagare gli aguzzini (che continuano a fare i trafficanti) a fornire mezzi militari come le motovedette, ad addestrare personale.
Ora ad accordo “tacitamente” rinnovato – i tempi per stralciarlo come abbiamo scritto sono scaduti il 2 novembre – si parla di modifiche da effettuare e si chiede al governo libico di discuterne. Ora, al di là dei tempi necessari – ogni giorno si traduce in ulteriori lutti provocati – si tratta di una promessa o falsa, per silenziare la parte più sensibile dell’opinione pubblica, o irrealizzabile in queste condizioni. La Commissione che si dovrebbe riunire è mista e composta da egual numero di membri per ciascun Paese. Da parte libica è già stata chiarita la disponibilità a discutere ma a condizione di veder tutelati gli interessi libici. La traduzione? Poca disponibilità ad interferenze sul proprio territorio rispetto ai centri di detenzione, fondi maggiori per la cosiddetta Guardia costiera, eliminazione dell’intralcio delle Ong (è già stato chiarito che dovranno chiedere il permesso a Tripoli prima di effettuare soccorsi) maggiori finanziamenti per il controllo dei propri confini.
Il rischio verso cui si va, ammettendo che il governo Serraj regga al punto da poter arrivare alle sempre rinviate elezioni nazionali, è quello di finanziare, come in Turchia, alcuni centri ben tenuti in cui si dimostra che la Libia rispetti i diritti umani, ma in cui finiranno pochi fortunati. Il rischio è quello che il governo si senta in pace con la coscienza avendo la possibilità di far giungere in Italia poche centinaia di persone dalla Libia, quelle ritenute le più vulnerabili in una terribile selezione fra sommersi e salvati.
Il rischio è che ci si accontenti della presenza in Libia di un numero maggiore di funzionari delle organizzazioni umanitarie internazionali che potranno muoversi soltanto seguendo le indicazioni (ordini) di chi amministra il territorio. Per il resto la Libia resterà un carcere a cielo aperto, i soprusi e le violenze all’ordine del giorno, la detenzione irregolare la norma.
Saranno questi i miglioramenti del Memorandum? E se, in caso di richieste più puntuali il governo libico si opponesse e i trafficanti in divisa come quelli ricevuti nel 2017, cominciassero a mandare significativi segnali incrementando le partenze? Il governo italiano sarebbe disposto a non cedere al ricatto? Cosa accadrebbe in Parlamento? E soprattutto si potrebbe contare su un sostegno europeo e una missione continentale per salvare in mare chi fugge togliendo potere contrattuale ai trafficanti e garantendo ingressi sicuri e legali? Difficile crederci. Se e quando nel Parlamento italiano si voteranno le proposte di modifica del Mou, il posizionamento delle forze politiche e dei singoli, renderà più chiara la distanza fra chi ha compreso la portata delle vicende libiche e chi pensa unicamente agli immediati interessi di bottega.
Per approfondire: l’inchiesta di Stefano Galieni sul “Memorandum della vergogna” su Left in edicola dall’1 novembre 2019
3/9/2019 left.it
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!