“Mentre Gaza è stata ridotta in macerie, in Cisgiordania è in corso una guerra silenziosa”

Le forze di occupazione israeliane perquisiscono gli abitanti del villaggio palestinese di Salem, a Est di Nablus, prima di farli entrare nei loro campi per raccogliere le olive. Fine novembre 2024 © Mohammed Nasser apaimag/SIPA / ipa-agency.net / Fotogramma

Intervista a Munther Amira, attivista nonviolento palestinese contro l’occupazione israeliana. È stato arrestato un anno fa per un post su Facebook e detenuto nel terribile carcere di Ofer, subendo torture fisiche e psicologiche. “Mettevano il cibo per circa due file di celle, in quattro angoli di un cortile, per prenderlo dovevamo camminare come cani”. Lo stato dei palestinesi incarcerati dopo il 7 ottobre

Alle porte del checkpoint 300, che divide la città di Gerusalemme da Betlemme, sorge il campo profughi di Aida: un chilometro quadrato di strade sterrate circoscritte dal muro di separazione e abitate da circa 5.000 palestinesi.

Di queste strade, Munther Amira è l’anima pulsante: presidente del Centro per la gioventù di Aida e membro del Popular struggle coordination committee (Pscc), i comitati popolari palestinesi, che da circa due decenni resistono ai tentativi di pulizia etnica strisciante con la nonviolenza.

Amira ci accoglie nel suo ufficio, il suo sguardo è stanco, la voce calma e ferma. Al suo fianco è presente Luisa Morgantini, pilastro della solidarietà internazionale palestinese e già vicepresidente del Parlamento europeo. Morgantini, che dal 1982 è impegnata in Palestina, è stata tra le prime a sostenere attivamente i comitati popolari palestinesi, così come il lavoro di Amira.

L’aria silenziosa e triste che a fine dicembre incombe su Betlemme ricorda quella durante l’operazione “Scudo di difesa”, nella primavera del 2002, quando Israele, sotto i colpi della seconda Intifada, rioccupò le principali città palestinesi che aveva precedentemente evacuato sotto il quadro degli Accordi di Oslo.

“Dal 7 ottobre scorso siamo prigionieri”, dice Amira con una tazza di caffè bollente in mano. “Mentre Gaza è stata ridotta a un cumulo di macerie, in Cisgiordania viene portata avanti una guerra silenziosa: oltre 700 palestinesi sono stati uccisi e in migliaia sono detenuti in condizioni arbitrarie senza capo di accusa o diritto al processo”.

Lo stesso Amira, il 18 dicembre 2023, è stato arrestato nella sua abitazione per aver postato su Facebook l’invito a partecipare a una manifestazione nonviolenta per il cessate il fuoco a Gaza e un accordo politico che comporti la fine dell’occupazione militare.

“Hanno messo tutto sottosopra, dopodiché hanno ammanettato i miei due figli. Uno di loro, Mohammed, indossava una maglietta con la mappa della Palestina. Un soldato ha preso un coltello e gliel’ha tagliata in mille pezzi. Mia figlia, terrorizzata, si è aggrappata al mio braccio in cerca di protezione, ma è stata scaraventata a terra”, racconta Amira. “Quando mi hanno portato via, mia figlia si è affacciata alla finestra per dirmi ‘ti voglio bene’. Le ho urlato di riflesso ‘ti voglio bene anch’io’ e per questo sono stato preso ripetutamente a calci dall’uscio di casa fino alla prigione di Ofer”.

L’attivista Munther Amira © Micol Meghnagi e Velania A. Mesay

La struttura, situata nei sobborghi di Ramallah, è nota per i trattamenti inumani ai quali i detenuti sono sottoposti. È qui che nell’aprile del 2024 ha perso la vita Adnan Al-Bursh, il primario del reparto ortopedico dell’ospedale Al-Shifa di Gaza, arrestato dalle forze israeliane mentre curava i pazienti dell’ospedale di Al-Awada, nel Nord di Gaza. I segni delle violenze e delle torture rinvenuti sul suo corpo hanno spinto L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani a richiedere un’inchiesta indipendente sulla sua morte.

“Tra le poche cose che avevamo a disposizione c’erano due pezzi di cartone. Un giorno li abbiamo utilizzati per giocare a backgammon. Per questo ci hanno punito, obbligandoci a impilarci gli uni sopra gli altri. Sotto di me, giaceva un compagno di cella molto anziano e ho cercato di mettermi in una posizione affinché il mio peso non gravasse su di lui. Un soldato mi ha visto e ha messo la sua gamba sopra la mia testa, schiacciandomi con tale forza da togliermi il respiro”.

Un trattamento che accomuna molteplici prigionieri palestinesi, le cui condizioni sono drammaticamente peggiorate dall’inizio dell’operazione militare nella Striscia, e documentate meticolosamente in 118 pagine dalla Ong israeliana B’Tselem nell’ultimo report “Welcome to Hell”.

Il titolo lo ha dato Fouad Hassan, 45 anni, padre di cinque figli e residente a Nablus: “Eravamo diretti a Megiddo. Quando siamo scesi dall’autobus, un soldato ci ha detto: benvenuti all’inferno”.

Megiddo è una delle carceri israeliane descritte nel rapporto, dove, scrive B’Tselem, la tortura viene praticata in modo “diffuso, sistematico e protratto”. La Ong non parla di una reazione individuale di un singolo soldato ma di una politica ufficiale dello Stato, e in particolare del ministero della Sicurezza nazionale guidato da Itamar Ben-Gvir, che già prima del 7 ottobre aveva fatto della radicalizzazione del sistema penitenziario il proprio cavallo di battaglia.

Non una novità, spiega B’Tselem, ma un aspetto fondante del regime di apartheid israeliano, che attraverso l’incarcerazione di massa, ha l’obiettivo di minare alle fondamenta della società palestinese.

“Mettevano il cibo per circa due file di celle, in quattro angoli di un cortile. Per prenderlo dovevamo camminare come cani, a carponi. Il nostro pasto quotidiano consisteva in qualche ciotola di riso e due cucchiai di marmellata per tredici persone e due pezzi di pane a testa”, continua Amira, che in 70 giorni di detenzione amministrativa ha perso 33 chilogrammi.

“Mai in vita mia ho subito tali vessazioni ed umiliazioni. Il mio unico desiderio durante i giorni di prigionia era poter indossare delle mutande e possedere una coperta”.

Sempre secondo B’Tselem, il tasso di condanna dei palestinesi processati nei tribunali militari raggiunge il 99,9%. Poco prima dell’inizio dell’offensiva contro Gaza, il numero complessivo di palestinesi incarcerati da Israele e classificati come “prigionieri di sicurezza” era di 5.192, di cui circa 1.319 in detenzione amministrativa, ovvero senza accuse formali e possibilità di difesa.

A luglio 2024, il numero di palestinesi incarcerati nelle prigioni israeliane è salito a 9.623, di cui 4.781 detenuti senza processo. Tra loro palestinesi dei Territori occupati, ma anche palestinesi cittadini di Israele e, in forma minore, attivisti ebrei israeliani contro l’occupazione.

“La sensazione è che l’esercito israeliano si stia vendicando del 7 ottobre. L’azione di Hamas è stata un grave errore, così come lo è uccidere civili israeliani, ma ciò che sta accadendo oggi a Gaza e in Cisgiordania non ha giustificazioni e supera ogni limite immaginabile”, sostiene Amira, che della nonviolenza ha fatto una bandiera.

Da oltre due decenni si oppone alla confisca delle terre e alle demolizioni delle case, organizzando marce, scioperi e manifestazioni contro l’occupazione. Nel 2014 si unito al Pscc, fondato nel 2009 da firme storiche della resistenza palestinese nonviolenta, come Hafes Huraini, Mohammed Khatib e Abdallah Abu Rahme, e attivo in vari villaggi e città in Cisgiordania, come Bil’in, At-Twuani e al-Ma’asara.

“I comitati popolari rappresentano uno strumento essenziale per garantire che le nostre comunità ricevano un sostegno concreto. Nel luglio del 2024, a Ramallah abbiamo lanciato Faz’a, una campagna rivolta alla società civile internazionale per proteggere con i propri corpi le comunità in Cisgiordania minacciate dagli attacchi di coloni e soldati”.

All’appello ha prontamente risposto Morgantini, coinvolgendo diverse associazioni per formare un comitato italiano per l’invio di volontari in Cisgiordania. A sostegno di Faz’a, anche Francesca Albanese, Relatrice Onu per i diritti umani nei Territori occupati palestinesi dal 1967, che è intervenuta durante la conferenza a Ramallah per sottolineare il preoccupante aumento delle aggressioni e intimidazioni da parte dei coloni a danno dei civili palestinesi.

Sono 18 le comunità che dopo il 7 ottobre 2023 sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni a causa delle minacce subite, mentre le vessazioni ai danni dei villaggi palestinesi nei pressi degli insediamenti coloniali sono incrementati.

“Le misure draconiane imposte su di noi, che vanno dalla negazione dei legami familiari e legali alla restrizione dei bisogni umani fondamentali e delle libertà, testimoniano una campagna sistematica per disumanizzarci e annientarci. Dopo il rilascio, mi hanno costretto a firmare un documento di riservatezza riguardo la mia incarcerazione, ma qualche ora dopo stavo già rilasciando un’intervista. Ci vogliono violenti. Ci vogliono in silenzio. Ma nessuna delle due è un’opzione”.

Amira viene interrotto dai rumori forti provenienti dalla strada circostante. Dalla porta a vetri del suo ufficio scorgiamo centinaia di uomini marciare con una bara di legno in mano. “In Palestina si muore anche di cause naturali”, sorride amaramente. “La complicità internazionale di fronte alle atrocità a cui assistiamo non fan altro che rafforzare la sofferenza e la spirale di violenza -conclude-. Per i miei figli chiedo un futuro dignitoso, di pace e uguaglianza di diritti”.

Micol Meghnagi, Velania A. Mesay

28/12/2024 https://altreconomia.it/

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