“Mi annoio, quindi sparo”: L’approvazione da parte dell’esercito israeliano dell’uccisione libera per tutta Gaza

I soldati israeliani descrivono la quasi totale assenza di regolamenti sul fuoco libero nella guerra di Gaza, con le truppe che sparano a loro piacimento, danno alle fiamme le case e lasciano cadaveri per le strade, tutto con il permesso dei loro comandanti.

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Di Oren Ziv – 8 luglio 2024

Immagine di copertina: Soldati israeliani del Battaglione 8717 della Brigata Givati che opera a Beit Lahia, nella Striscia di Gaza settentrionale, 28 dicembre 2023. (Yonatan Sindel/Flash90)

All’inizio di giugno, Al Jazeera ha mandato in onda una serie di video inquietanti che rivelano quello che ha descritto come “esecuzioni sommarie”: soldati israeliani hanno ucciso diversi palestinesi che camminavano vicino alla strada costiera nella Striscia di Gaza, in tre diverse occasioni. In ogni caso, i palestinesi apparivano disarmati e non rappresentavano alcuna minaccia imminente per i soldati.

Tali filmati sono rari, a causa delle severe limitazioni affrontate dai giornalisti nell’enclave assediata e del costante pericolo per la loro vita. Ma queste esecuzioni, che non sembrano avere alcuna motivazione di sicurezza, sono coerenti con le testimonianze di sei soldati israeliani dopo il loro congedo dal servizio attivo a Gaza negli ultimi mesi. Confermando i racconti di testimoni oculari e medici palestinesi durante tutta la guerra, i soldati hanno descritto di come fossero autorizzati ad aprire il fuoco sui palestinesi praticamente a loro piacimento, anche sui civili.

Le sei fonti, che tutte tranne una hanno parlato a condizione di anonimato, hanno raccontato come i soldati israeliani giustiziassero regolarmente civili palestinesi semplicemente perché entravano in un’area che i militari definivano “zona interdetta”. Le testimonianze dipingono il quadro di un paesaggio disseminato di corpi di civili, lasciati a marcire o mangiati da animali randagi; l’esercito si limita a nasconderli alla vista in procinto dell’arrivo dei convogli di aiuti internazionali, affinché “non trapelino immagini di cadaveri in avanzato stadio di decomposizione”. Due soldati hanno anche testimoniato di una politica sistematica di dare fuoco alle case palestinesi dopo averle occupate.

Diverse fonti hanno descritto come la possibiità di sparare senza restrizioni abbia dato ai soldati un modo per sfogarsi o alleviare la noia della ripetitività quotidiana. “I soldati vogliono vivere l’attimo pienamente”, ha ricordato S., un riservista che ha prestato servizio nel Nord di Gaza. “Personalmente ho sparato alcuni proiettili senza motivo, in mare o sul marciapiede o su un edificio abbandonato. Lo segnalano come ‘fuoco normale’, che è un nome in codice per: ‘Sono annoiato, quindi sparo’”.

Dagli anni ’80, l’esercito israeliano ha rifiutato di rivelare le sue regole sul fuoco libero, nonostante varie petizioni all’Alta Corte di Giustizia. Secondo il sociologo politico Yagil Levy, a partire dalla Seconda Intifada, “l’esercito non ha dato ai soldati regole scritte di ingaggio”, lasciando molto spazio all’interpretazione dei soldati sul campo e dei loro comandanti. Fonti hanno testimoniato che queste direttive permissive, oltre ad aver contribuito all’uccisione di oltre 38.000 palestinesi, sono anche in parte responsabili dell’elevato numero di soldati uccisi dal fuoco amico negli ultimi mesi.

Foto: Soldati israeliani del Battaglione 8717 della Brigata Givati ​​operanti a Beit Lahia, nel Nord della Striscia di Gaza, durante un’operazione militare, 28 dicembre 2023. (Yonatan Sindel/Flash90)

“C’era totale libertà di azione”, ha detto B., un altro soldato che ha prestato servizio nelle forze regolari a Gaza per mesi, anche nel centro di comando del suo battaglione. “Se c’è anche una minima sensazione di minaccia, non c’è bisogno di spiegare: basta sparare”. Quando i soldati vedono qualcuno avvicinarsi, “è consentito sparare al centro di massa (il corpo), non in aria”, ha continuato B.. “È permesso sparare a tutti, a una ragazza, a una vecchia”.

B. ha continuato descrivendo un episodio avvenuto a novembre, quando i soldati avevano ucciso diversi civili durante l’evacuazione di una scuola vicino al quartiere Zeitoun di Gaza Città, che era servito da rifugio per i palestinesi sfollati. L’esercito ha ordinato agli sfollati di uscire a sinistra, verso il mare, anziché a destra, dove erano di stanza i soldati. Quando scoppiò uno scontro a fuoco all’interno della scuola, coloro che uscirono nella direzione sbagliata nel caos che ne seguì furono immediatamente colpiti.

“C’erano informazioni secondo le quali Hamas voleva creare il panico”, ha detto B.. “Una battaglia è iniziata all’interno della scuola; la gente è scappata. Alcuni fuggirono a sinistra verso il mare, ma altri corsero a destra, compresi i bambini. Tutti quelli che andavano a destra furono uccisi: dalle 15 alle 20 persone. C’era una pila di corpi”.

“Sparavamo a tutti, a più non posso”

B. ha detto che era difficile distinguere i civili dai combattenti a Gaza, sostenendo che i membri di Hamas spesso “vanno in giro senza armi” Ma di conseguenza, “ogni uomo di età compresa tra i 16 e i 50 anni è sospettato di essere un terrorista”.

“È vietato passeggiare e tutti quelli che sono in giro sono sospetti”, ha continuato B.. “Se vediamo qualcuno che ci guarda da una finestra, è un sospetto. Si spara. La percezione dell’esercito è che qualsiasi contatto con la popolazione metta in pericolo le forze armate e che sia necessario creare una situazione in cui sia vietato avvicinarsi ai soldati in qualsiasi circostanza. I palestinesi hanno imparato che quando arriviamo, scappano”.

Anche in aree apparentemente disabitate o abbandonate di Gaza, i soldati sono stati impegnati in lunghe sparatorie in una procedura nota come “dimostrazione di presenza”. S. ha testimoniato che i suoi commilitoni “sparavano molto, anche senza motivo, chiunque voglia sparare, qualunque sia il motivo, spara”. In alcuni casi, ha osservato, questo era “inteso a stanare le persone dai loro nascondigli o a imporre la presenza”.

M., un altro riservista che ha prestato servizio nella Striscia di Gaza, ha spiegato che tali ordini sarebbero arrivati ​​direttamente dai comandanti della Compagnia o del Battaglione sul campo. “Quando non ci sono altre forze dell’IDF nell’area le sparatorie sono senza restrizioni, senza freni. E non solo armi leggere: mitragliatrici, carri armati e mortai”.

Anche in assenza di ordini dall’alto, M. ha testimoniato che i soldati sul campo si fanno regolarmente giustizia da soli. “Soldati regolari, sottufficiali, comandanti di battaglione, i ranghi minori che vogliono sparare, ottengono il permesso”.

S. ricordava di aver sentito alla radio di un soldato di stanza in un complesso fortificato che aveva sparato a una famiglia palestinese che passeggiava nelle vicinanze. “All’inizio, dicono ‘quattro persone’. Si trasformano in due bambini più due adulti, e alla fine sono un uomo, una donna e due bambini. Si può immaginare il quadro da soli”.

Solo uno dei soldati intervistati per questa indagine ha voluto essere identificato per nome: Yuval Green, un riservista di 26 anni di Gerusalemme che ha prestato servizio nella 55a Brigata Paracadutisti a novembre e dicembre dello scorso anno (Green ha recentemente firmato una lettera di 41 riservisti che dichiarano il loro rifiuto di continuare a prestare servizio a Gaza, in seguito all’invasione di Rafah da parte dell’esercito). “Non c’erano restrizioni sulle munizioni”, ha detto Green. “Si sparava solo per alleviare la noia”.

Green descrisse un episodio avvenuto una notte durante la festa ebraica di Hanukkah a dicembre, quando “l’intero Battaglione aprì il fuoco insieme come fuochi d’artificio, comprese munizioni traccianti che generano una luce brillante. Creavano un colore pazzesco, illuminando il cielo, e poiché Hannukah è la ‘festa delle luci’, divenne simbolico”.

Foto: Soldati israeliani del Battaglione 8717 della Brigata Givati ​​operanti a Beit Lahia, nel Nord della Striscia di Gaza, il 28 dicembre 2023. (Yonatan Sindel/Flash90)

C., un altro soldato che ha prestato servizio a Gaza, ha spiegato che quando i soldati hanno sentito degli spari, si sono collegati via radio per chiarire se c’era un’altra unità militare israeliana nella zona e, in caso contrario, hanno aperto il fuoco. “Si sparava a proprio piacimento, senza limitazioni” Ma come ha notato C., sparare senza restrizioni significa che i soldati sono spesso esposti all’enorme rischio del fuoco amico, che ha descritto come “più pericoloso di Hamas”. “In diverse occasioni, le forze dell’IDF hanno sparato nella nostra direzione. Non abbiamo risposto, abbiamo controllato via radio e nessuno è rimasto ferito”.

Al momento in cui scrivo, 324 soldati israeliani sono stati uccisi a Gaza dall’inizio dell’invasione di terra, almeno 28 dei quali, secondo l’esercito, dal fuoco amico. Secondo l’esperienza di Green, tali incidenti rappresentavano il “problema principale” che metteva in pericolo la vita dei soldati. “C’era un bel po’ di fuoco amico; mi ha fatto impazzire”, ha detto.

Per Green, le regole d’ingaggio dimostravano anche una profonda indifferenza verso la sorte degli ostaggi. “Mi hanno parlato della pratica di far saltare in aria i tunnel, e ho pensato tra me e me che se ci fossero stati degli ostaggi al loro interno, li avrebbero uccisi”. Dopo che i soldati israeliani a Shuja’iyya hanno ucciso tre ostaggi che sventolavano bandiere bianche a dicembre, pensando che fossero palestinesi, Green ha detto che era arrabbiato, ma gli è stato detto “non c’è niente che possiamo fare”. “I comandanti hanno reso più severe le procedure, dicendo: ‘Bisogna prestare attenzione ed essere sensibili, ma siamo in una zona di combattimento e dobbiamo stare attenti’”.

B. ha confermato che anche dopo l’incidente di Shuja’iyya, ritenuto “in violazione delle regole” militari, le regole sul fuoco libero non sono cambiate. “Per quanto riguarda gli ostaggi, non avevamo una direttiva specifica”, ha ricordato. “I vertici dell’esercito hanno detto che dopo l’uccisione degli ostaggi, hanno informato i soldati sul campo. Ma non ci hanno informato”. Lui e i soldati che erano con lui hanno saputo dell’uccisione degli ostaggi solo due settimane e mezzo dopo l’incidente, dopo che avevano lasciato Gaza.

“Ho sentito dichiarazioni di altri soldati secondo cui gli ostaggi sono morti, non hanno alcuna possibilità, devono essere abbandonati”, ha osservato Green. “Questo mi ha infastidito di più che continuassero a dire: ‘Siamo qui per gli ostaggi’, ma è chiaro che la guerra danneggia gli ostaggi. Questo era il mio pensiero allora; oggi si è rivelato vero”

Foto: Soldati israeliani del Battaglione 8717 della Brigata Givati ​​operanti a Beit Lahia, nel Nord della Striscia di Gaza, il 28 dicembre 2023. (Yonatan Sindel/Flash90)

‘Un edificio crolla, e la sensazione è, “Wow, che divertimento”‘

A., un ufficiale che ha prestato servizio nel Direttivo delle Operazioni dell’esercito, ha testimoniato che la sala operativa della sua brigata, che coordina i combattimenti dall’esterno di Gaza, approvando gli obiettivi e prevenendo il fuoco amico, non ha ricevuto chiari ordini di fuoco libero da trasmettere ai soldati sul campo. “Dal momento in cui si entra, non c’è mai una riunione di aggiornamento”, ha detto. “Non abbiamo ricevuto istruzioni dai livelli più alti da trasmetterle ai soldati e ai comandanti di battaglione”.

Ha osservato che c’erano istruzioni di non sparare lungo le rotte umanitarie, ma altrove, “si riempiono gli spazi vuoti, in assenza di qualsiasi altra direttiva. Questo è l’approccio: ‘Se è proibito lì, allora è permesso qui’”.

A. ha spiegato che sparare conto “ospedali, cliniche, scuole, istituzioni religiose, e edifici di organizzazioni internazionali” richiedeva un’autorizzazione più elevata. Ma in pratica, “si possono contare sulle dita di una mano i casi in cui ci è stato detto di non sparare. Anche con obiettivi sensibili come le scuole, l’approvazione sembra solo una formalità”.

“In generale”, ha continuato A., “lo spirito nella sala operativa era ‘prima spara, poi fai domande’. Questo era il consenso. Nessuno verserà una lacrima se radiamo al suolo una casa quando non ce n’era bisogno, o se spariamo a qualcuno a cui non dovevamo”.

A. ha detto di essere a conoscenza di casi in cui soldati israeliani hanno sparato a civili palestinesi che erano entrati nella loro area di ingaggio, in linea con un’indagine Haaretz sulle “zone di uccisione” nelle aree di Gaza sotto l’Occupazione dell’esercito. “Questa è l’impostazione predefinita. Non dovrebbero esserci civili nella zona, questa è la prospettiva. Abbiamo visto qualcuno alla finestra, quindi gli abbiamo sparato uccidendolo”. A. ha aggiunto che spesso dai rapporti non era chiaro se i soldati avessero sparato a militanti o a civili disarmati, e “molte volte sembrava che qualcuno avesse un atteggiamento sospetto e abbiamo aperto il fuoco”.

Ma questa ambiguità sull’identità delle vittime significava che, per A., ​​non ci si poteva fidare dei rapporti militari sul numero dei membri di Hamas uccisi. “La sensazione nella sala operativa, e questa è una versione ammorbidita, era che ogni persona che uccidevamo, veniva considerata un terrorista”, ha testimoniato.

“L’obiettivo era quello di contare quanti terroristi avevamo ucciso”, ha continuato A.. “Ogni soldato vuole dimostrare di essere un grande uomo. La percezione era che tutti gli uomini fossero terroristi. A volte un comandante chiedeva improvvisamente i numeri, e poi l’ufficiale della Divisione correva di Brigata in Brigata inserendo l’elenco nel sistema informatico militare e aggiornava il numero”.

La testimonianza di A. è coerente con un recente rapporto del quotidiano israeliano Mako, su un attacco di droni da parte di una brigata che ha ucciso palestinesi nell’area operativa di un’altra brigata. Gli ufficiali di entrambe le brigate si consultarono su quale brigata si doveva registrare gli omicidi. “Che differenza fa? Addebitateli a entrambe”, ha detto uno di loro all’altro, secondo il quotidiano.

“Durante le prime settimane dopo l’attacco del 7 ottobre guidato da Hamas”, ricorda A., “i soldati si sentivano molto in colpa per il fatto che ciò fosse accaduto sotto i nostri occhi”, un sentimento ampiamente condiviso dall’opinione pubblica israeliana, e rapidamente trasformato in un desiderio di rivalsa. “Non c’era un ordine diretto di vendetta”, ha detto A., “ma quando si deve decidere, le istruzioni, gli ordini e i protocolli relativi ai casi ‘sensibili’ hanno poca importanza”.

Quando i droni trasmettevano in diretta le immagini degli attacchi a Gaza, “ci sono stati applausi di gioia nella sala di comando”, ha detto A.. “Ogni tanto, un edificio crollava e la reazione era: ‘Wow, è pazzesco, che divertimento’”.

Foto: Palestinesi nel luogo di una moschea distrutta da un attacco aereo israeliano, vicino al campo profughi di Shaboura a Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza, il 26 aprile 2024. (Abed Rahim Khatib/Flash90)

A. ha notato l’ironia che parte di ciò che ha motivato le richieste di vendetta degli israeliani è stata la convinzione che i palestinesi di Gaza gioissero per la morte e la distruzione del 7 ottobre. Per giustificare l’abbandono della distinzione tra civili e combattenti, le persone ricorrevano ad affermazioni come: “Hanno distribuito dolci”, “Hanno ballato dopo il 7 ottobre” o “Hanno eletto Hamas”, Non tutti, ma molti, pensavano che i bambini di oggi saranno i terroristi di domani.

“Anch’io, un soldato piuttosto di sinistra, dimentico molto presto che queste sono vere case a Gaza”, ha detto A. della sua esperienza nella sala operativa. “Sembrava un videogioco. Solo dopo due settimane mi sono accorto che questi sono veri edifici che crollano: se ci sono abitanti dentro, allora crollano sulle loro teste, e anche se non ci sono, crollano con tutto quello che contengono”.

“Un terribile odore di morte”

Numerosi soldati hanno testimoniato che la permissiva politica d’ingaggio libero ha permesso alle unità israeliane di uccidere civili palestinesi anche quando venivano identificati come tali in anticipo. D., un riservista, ha detto che la sua Brigata era di stanza accanto a due cosiddetti corridoi di viaggio “umanitari”, uno per le organizzazioni umanitarie e uno per i civili in fuga dal Nord al Sud della Striscia. All’interno dell’area operativa della sua Brigata, istituirono una politica di “linea rossa, linea verde”, delineando le zone in cui era vietato entrare ai civili.

Secondo D., alle organizzazioni umanitarie era permesso recarsi in queste zone previo coordinamento (la nostra intervista è stata condotta prima che una serie di attacchi di precisione israeliani uccidessero sette dipendenti della World Central Kitchen), ma per i palestinesi era diverso. “Chiunque entrasse nell’area verde sarebbe diventato un potenziale bersaglio”, ha detto D., sostenendo che queste aree erano segnalate ai civili. “Se superano la linea rossa, lo si segnala alla radio e non serve attendere il permesso, si può sparare”.

Eppure D. racconta che spesso i civili si recavano nelle zone di passaggio dei convogli umanitari per cercare gli scarti che potevano cadere dai camion; tuttavia, la politica era di sparare a chiunque tentasse di entrare. “I civili sono chiaramente rifugiati, sono disperati, non hanno nulla”, ha detto. Eppure, nei primi mesi di guerra, “ogni giorno si verificavano due o tre uccisioni di persone innocenti o sospettate di essere state inviate da Hamas come osservatori”, a cui sparavano i soldati del suo Battaglione.

I soldati hanno testimoniato che in tutta Gaza, cadaveri di palestinesi in abiti civili sono rimasti sparsi lungo le strade e sul terreno aperto. “Tutta la zona era piena di corpi”, ha detto S., un riservista. “Ci sono anche cani, mucche e cavalli che sono sopravvissuti ai bombardamenti e non hanno nessun posto dove andare. Non possiamo dar loro da mangiare e non vogliamo nemmeno che si avvicinino troppo. Quindi, occasionalmente si vedono cani che vanno in giro con parti di corpi umani in decomposizione. C’è un terribile odore di morte”.

Foto: Macerie di case distrutte dagli attacchi aerei israeliani nell’area di Jabalia, nel Nord della Striscia di Gaza, 11 ottobre 2023. (Atia Mohammed/Flash90)

Ma prima che arrivino i convogli umanitari, ha osservato S., i corpi vengono rimossi. “Un bulldozer Caterpillar D-9 scende, con un carro armato, e ripulisce l’area dai cadaveri, li seppellisce sotto le macerie e le sposta di lato in modo che i convogli non li vedano, in modo che immagini di cadaveri in fase avanzata di decomposizione non si diffondano”, spiega.

“Ho visto molti civili palestinesi: famiglie, donne, bambini”, ha continuato S.. “Ci sono più vittime di quelle riportate. Eravamo in una piccola zona. Ogni giorno, almeno uno o due civili vengono uccisi perché camminano in una zona vietata. Non so chi sia un terrorista e chi no, ma la maggior parte di loro non portava armi”.

Green ha detto: “Quando siamo arrivati a Khan Younis alla fine di dicembre, abbiamo visto una massa indistinta fuori da una casa. Ci siamo resi conto che era un corpo; abbiamo visto una gamba. Di notte lo mangiavano i gatti. Poi qualcuno è venuto e l’ha spostato”.

Anche una fonte non militare dopo aver visitato il Nord di Gaza ha riferito di aver visto corpi sparsi nell’area. “Vicino al complesso militare tra il Nord e il Sud della Striscia di Gaza, abbiamo visto circa 10 corpi colpiti alla testa, apparentemente da un cecchino, probabilmente mentre cercavano di tornare nel Nord”, ha detto. “I corpi si stavano decomponendo, c’erano cani e gatti intorno a loro”.

“Non si occupano dei corpi”, ha detto B. dei soldati israeliani a Gaza. “Se sono d’intralcio, vengono spostati di lato. Non c’è sepoltura dei morti. I soldati hanno calpestato i corpi per sbaglio”.

Il mese scorso, Guy Zaken, un soldato che azionava i bulldozer D-9 a Gaza, ha testimoniato davanti a una commissione della Knesset che lui e il suo equipaggio “hanno investito centinaia di terroristi, vivi e morti”. Un altro soldato con cui ha prestato servizio si è successivamente suicidato.

“Prima di partire si dà fuoco alle case”

Due dei soldati intervistati per questo articolo hanno anche descritto come bruciare le case palestinesi sia diventata una pratica comune tra i soldati israeliani, come riportato in modo approfondito per la prima volta da Haaretz a gennaio. Green ha assistito personalmente a due casi simili: il primo per iniziativa indipendente di un soldato, e il secondo per ordine di comandanti, e la sua frustrazione per questa politica è parte di ciò che alla fine lo ha portato a rifiutare un ulteriore turno di servizio militare.

Quando i soldati occuparono le case, ha testimoniato, la politica era “se ti muovi, devi bruciare la casa.” Eppure per Green, questo non aveva senso: in “nessun scenario” il centro del campo profughi avrebbe potuto far parte di una zona di sicurezza israeliana che potesse giustificare tale distruzione. “Siamo in queste case non perché appartengono ad agenti di Hamas, ma perché ci servono operativamente”, ha osservato. “È una casa di due o tre famiglie: distruggerla significa che rimarranno senza casa”.

“Ho chiesto al comandante della compagnia, il quale ha detto che nessun equipaggiamento militare poteva essere lasciato indietro e che non volevamo che il nemico vedesse le nostre attività di combattimento”, ha continuato Green. “Dissi che avrei fatto una ricerca per assicurarmi che non fossero rimaste prove di attività di combattimento. Il Comandante della compagnia mi ha dato spiegazioni da girone della vendetta. Ha detto che le stavano bruciando perché non c’erano D-9 o artificieri che avrebbero potuto distruggere la casa con altri mezzi. Ha ricevuto un ordine ed eseguirlo non gli ha creato alcun problema”.

“Prima di partire, si dà fuoco alle case, ogni casa”, ha ribadito B.. “Questo è confermato a livello di Comandante di Battaglione. È così che i palestinesi non potranno tornare, e se lasciamo dietro di noi munizioni o cibo, i terroristi non saranno in grado di usarli”.

Prima di partire i soldati ammucchiavano materassi, mobili e coperte e “con un po’ di carburante o qualche bombola di gas”, ha osservato B., “la casa brucia facilmente, è come una fornace”. All’inizio dell’invasione di terra, la sua Compagnia occupava le case per alcuni giorni e poi si spostava; secondo B. “bruciarono centinaia di case. Ci sono stati casi in cui i soldati hanno dato fuoco a un piano mentre altri soldati si trovavano a un piano più alto e sono dovuti fuggire tra le fiamme sulle scale o sono soffocati dal fumo”.

Green ha affermato che la distruzione che i militari hanno lasciato a Gaza è “inimmaginabile”. All’inizio dei combattimenti, ha raccontato, avanzavano tra le case a 50 metri l’uno dall’altro, e molti soldati “trattavano le case come un negozio di souvenir”, saccheggiando tutto ciò che i residenti non erano riusciti a portare con sé.

“Alla fine si muore di noia, dopo giorni di attesa lì”, ha detto Green. “Disegnavamo sui muri frasi offensive, giocavamo con i vestiti, strappavamo le foto dei passaporti che hanno lasciato, appendendo la foto di qualcuno per divertimento. Abbiamo usato tutto quello che abbiamo trovato: materassi, cibo, uno ha trovato una banconota da 100 NIS (25 euro) e l’ha presa”.

“Abbiamo distrutto tutto ciò che volevamo”, ha testimoniato Green. “Ciò non è dovuto al desiderio di distruggere, ma alla totale indifferenza verso tutto ciò che appartiene ai palestinesi. Ogni giorno un D-9 demolisce le case. Non ho scattato foto prima e dopo, ma non dimenticherò mai come un quartiere che era davvero bello, è stato ridotto in polvere”.

L’esercito israeliano non ha risposto ad una richiesta di commento al momento della pubblicazione.

Oren Ziv è un fotografo e giornalista di Local Call e membro fondatore del collettivo fotografico Activestills.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

11/7/2024 https://www.invictapalestina.org

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