Mi chiamo Cristiano Ferrarese, ho 44 anni e mi sento una persona fortunata
Cristiano Ferrarese – Mi chiamo Cristiano Ferrarese, ho 44 anni e sono un uomo fortunato – Edizioni Il Galeone 2017
È un io narrante che incalza le pagine del libro di Cristiano Ferrarese. Il ritmo, dall’inizio alla fine, in prima persona, è scandito da periodi brevi, asciutti, intensi. Si sa, basta anche un linguaggio minimo per farvi scendere dentro un pozzo infinito di cose. E qui sta il rischio di non trovare più la corda per risalire e, allora, sarete costretti a stare lì, senza tornare a galla.
Per dirla in breve, questo libro, è un memoir contro i guasti del Bel Paese dove, ogni capitolo, scandito dal titolo di canzoni di autori diversi, da De Andrè, a Lou Reed, da Claudio Lolli, a Giorgio Gaber, per citarne alcuni, vede il protagonista, emigrato in Inghilterra alla ricerca di un lavoro, che si trova impegnato per quattro mesi come badante di malati con problemi di demenza e per cinque mesi come portiere di notte in un albergo di lusso di Bristol.
Cristiano, prima ancora, era stato operaio in diverse aziende, professore alle superiori, libraio, funzionario sindacale, finchè non decide di lasciare l’Italia alla volta dell’Inghilterra per cercare una nuova vita e una nuova occupazione.
Il libro ha la struttura di un quaderno di appunti, scritti con un linguaggio appropriato. Frasi brevi, semplici, secche e penetranti che ti colpiscono subito.
La letteratura che a me piace chiamare resistente, quella in trincea, che mette in campo tematiche molto forti che arrivano anche a raccontare il contrasto sociale, quello che in questo paese si è notevolmente attutito con il mutamento dei tempi dormienti ha ancora delle sacche di resistenza che riescono a mettere qualche bandierina dentro i campi minati della letteratura di intrattenimento e di genere.
Se andiamo agli anni 70 e 80 Scrittori come Paolo Volponi e Ottiero Ottieri hanno raccontato il mondo del lavoro e delle sue contraddizioni attraverso il modello di azienda di un imprenditore illuminato come Adriano Olivetti.
Ma erano altri tempi
Per fare riferimento a “Le mosche del capitale” di Paolo Volponi troviamo davanti una grande testimonianza sul sogno olivettiano e sull’esperienza in Fiat che ha segnato la trasformazione profonda della società con la decadenza morale del capitalismo e dove il neo liberismo viveva in contrasto con la modernità delle sua apparenze e l’arcaica violenza dei suoi rapporti sociali.
Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri è un romanzo reportage in anticipo sui tempi, un tentativo di interpretare la realtà. Antonio Donnarumma, classico disoccupatoappartenente al sottoproletariato meridionale, rifiuta la trafila che fanno tutti gli altri di sottoporsi a un colloquio di lavoro, ma pretende il lavoro perché lo ritiene un sacrosanto diritto. Il conflitto sociale e il tentativo della sua composizione sono argomenti che si trovano disarmati davanti alla genialità di un imprenditore illuminato come Adriano Olivetti e del suo sogno di azienda.
Tutto oggi è mutato. Difficile è individuare una nuova rotta in una società in cui era possibile constatare l’esistenza di una borghesia, di un ceto medio, di un proletariato e di un sottoproletariato, identificazioni che di questi tempi si sono svuotate di significato, impossibili da usare per la nostra contemporaneità sovrastata da una società capitalistica che ha relegato le politiche del lavoro in secondo piano.
Il modello di azienda ideato da Olivetti diviene un oggetto in cui si rovescia il rapporto tra il lavoratore e la fabbrica, non più vista come luogo di schiavitù e alienazione, ma come speranza di uscire dal caos della disoccupazione e dalla miseria.
Ora, in tempi diversi, dentro una società mutata radicalmente Cristiano mette in risalto che il paese non si è evoluto rispetto allora. Anzi, è peggiorato. Se un mutamento c’è stato lo troviamo nel carattere, nel mondo del lavoro, nella lingua e nelle sue espressioni più comuni, indispensabili per conservare le qualità fondamentali dell’unità di uno stato che ha a cuore il progresso.
Cristiano si trova a raccontare di come il sogno di quegli anni si sia infranto. Questo diario di emigrazione nasconde il segno di un’autodisfatta del nostro paese dove l’autore non si chiama fuori.
Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio. La frase è di Samuel Beckett ed è un macigno pesantissimo che mi sono caricato da sempre sulle spalle. È una filosofia di vita. Cado e mi rialzo. Cado e non mi lamento.
È un esame di coscienza sulle esperienze di lavoro in Italia, sulla sua attività sindacale, sulle raccomandazioni, sulle cattiverie e le astuzie del nostro bel paese.
La trama si dipana tra richiami autobiografici e racconto poetico, un’opera che scuote l’indolente e anestetizzato spirito borghese e pare incoraggiarlo a riflettere sulle contraddizioni sociali del mondo del lavoro.
Sempre con i piedi per terra, apocalittico, critico, osserva la drammaticità nazionale nei confronti del mondo del lavoro, irrispettoso verso quei giovani e non, che sono le parti deboli del sistema e che si trovano isolati da una politica che ha altri interessi e da un’economia che produce quel che sa produrre e vende quel che sa vendere. E per restare così arretrata, evidentemente ha bisogno di tenere arretrato il paese.
Quindi se intendete la lettura come distrazione e come piacere lasciate perdere. Sì, perché questo libro ha un taglio ostico e impegnato, anche se la bravura e la padronanza della lingua dell’autore ne rendono la lettura abbastanza scorrevole
È un romanzo che viene liricamente interrotto da pause, da riflessioni dove emerge l’allegoria, la satira in una situazione, quella del protagonista io narrante, che non si abbassa mai al dramma della disperazione, ma che è incline alla lotta, al non darsi mai perduto, alla realtà di inventarsi quel qualcosa che permette di.
Questo romanzo è un caffè senza zucchero perché apre gli occhi su un presente drammatico e credo che nessuno possa voltarsi dall’altra parte ignorando tutto il dramma sociale che si nasconde dietro.
Combattente vero, Cristiano Ferrarese non si presenta arrendevole, prende di petto la situazione senza sconti come il messaggio che lanciano i corrieri al destinatario che non trovano a casa in Sorry we missed you di Ken Loach: ci dispiace di non averti trovato.
Giorgio Bona
Recensione pubblicata nell’inserto CULTURA/E del numero di marzo di Lavoro e Salute http://www.lavoroesalute.org/
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