Lampedusa, impressioni dalla frontiera
La Lampedusa dei migranti e della vita quotidiana
Il primo approccio era stato un po’ brusco, a partire dall’atterraggio, non avevo messo in conto il forte vento. “Si parla di Lampedusa come isola dell’accoglienza, ma a Lampedusa l’accoglienza la fanno i militari, i lampedusani non li vedono nemmeno i migranti, tranne quei pochi che escono dall’hotspot”, è tra le frasi che mi sono state dette a dieci minuti dal contatto con la terra.
Alla ricerca dei vari volti di quest’isola riservata che si lascia conoscere solo lentamente, ho scelto di viverla nel tentativo ambizioso di capirla, scoprirne i differenti punti di vistatenendo alla larga ogni semplificazione. Se è vero che nella stagione estiva è raro incontrare i giovani migrantiche restano chiusi all’interno dell’hotspot, una volta che la maggior parte dei turisti sono andati via succede invece di vederli camminarelentamente nelle vie del centro, sostare in spiaggia o vicino il mare per distrarre la propria mente nell’attesa di ripartire.
Un’attesa spesso troppo lunga, poiché, sebbene l’hotspot sia un luogo di identificazione pensato per trattenere persone non oltre le 72 ore, i migranti vi tengono trattenuti anche per un mese ed oltre. E così quel buco “istituzionale” nella recinzione viene tollerato per allentare la tensione. La struttura, situata all’interno di una vallata, è nascosta agli occhi dei residenti e dei turisti. Il suono degli spari provenienti da battute di caccia rendono l’atmosfera inquietante. La sera, piccoli gruppi di migranti sostano all’esterno dell’Archivio Storico di Lampedusa, alla fine della centrale via Roma, un luogocarico di storia e cultura, il cui presidente, Nino Taranto, insegna loro espressioni e vocaboli in italiano. Incontrarsi lì è diventato quasi un appuntamento quotidiano. Taranto hascaricato video musicali per ogni paese di provenienza dei migranti che per un’ora o più possono così tornare a sentire i ritmi della propria terra d’origine. In maniera composta accettano il proprio turno, ragazzi in prevalenza dal Mali, Nigeria, Eritrea, Somalia, Gambia.
C’è una Lampedusa che non vuole essere strumentalizzata, quella che dice che non tutta Lampedusa è solidale, che i lampedusani non sono degli eroi e quella che non vuole che le immagini dei migranti vengano utilizzate per creare emergenze per dire che l’Europa sia a rischio invasione. C’è quella che si riunisce all’interno del Forum Lampedusa solidale che raccoglie più realtà locali e di associazione che si incontrano per discutere su come affrontare al meglio la realtà dell’immigrazione e far sì che vi sia una comunicazione trasparente sul numero di persone presenti nei centri, che venga tutelata la dignità delle persone, soprattutto quando si parla di minori.
C’è poi la Lampedusa con le difficoltà di un territorio di frontiera e di cui non si parla abbastanza, seppurec’è chi dice che si esagera. Un’isola che è al tempo paradiso turistico e al tempo carente di servizi, dove non esiste una sala parto e le donne incinte devono trasferirsi un mese prima del parto “in Sicilia”, accollandosi le spese per viaggio e alloggio: sono almeno venti anni che un bambino non nasce a Lampedusa. Non c’è un cinema né strutture e attività per i giovani che si ritrovano spesso a passare il tempo vagando sui motorini.
“Che cosa fanno i giovani di Lampedusa durante l’inverno? Aspettano l’estate”, commentaNino Taranto.Il tempo passa, seduti in qualche locale – solo pochi restano aperti in inverno. Si aspetta intanto la costruzione del nuovo stadio, la squadra di calcio di fatti quest’anno ha saltato il campionato, è in corso una raccolta fondi. “Per aiutare i migranti bisogna aiutare i lampedusani”, mi ha detto un esponente della solidarietà locale. Askavusa, collettivo che ha raccolto e realizzato un’esposizione dei beni dei migranti raccolti nei pescherecci, è diventato anche luogo di riflessione e di discussione ed organizza incontri con la comunità sui problemi dell’isola, come la militarizzazione e la presenza di radar usati per il controllo dell’immigrazione, più propriamente “dispositivi anti-migranti” – almeno sei, di cui tre di produzione israeliana, che provocano inquinamento elettromagnetico e sono pericolosi per l’ambiente e la salute degli abitanti.
C’è un “investimento eccessivo sugli strumenti di controllo”, affermano denunciandoun’economia sulla costruzione delle frontiere e una militarizzazione dell’isola. Il collettivo racconta che nel 2011, al tempo dello scoppio della “primavera araba”, diecimila tunisini arrivarono sull’isola (i residenti a Lampedusa sono quasi 6.000). Un’invasione costruita, secondo Askavusa, per creare un’emergenza. L’isola è diventata palcoscenico dove girare immagini che serviranno a dire, ad esempio nel 2011, che l’Europa è stata invasa, mentre nel 2013 quanto avvenuto è servito a giustificare le successive politiche europee.
Nel frattempo il Consiglio dei Ministri approvava un piano straordinario da 26 milioni di euro per fronteggiare lo stato di emergenza e opere di riqualificazione per migliorare l’immagine dell’isola e favorirne la promozione turistica. Dopo il 3 ottobre 2013, a distanza di nemmeno dieci giorni dalla strage, fu istituito il sistema di sorveglianza europeo Eurosur, il rafforzamento di Frontex e l’acquisto di droni: “investimenti militari per emergenze umanitarie”, denunciano. A due settimane dalla strage, partiva l’operazione Mare Nostrum. “È servito che 317 persone morissero davanti agli occhi degli europei per giustificare l’operazione, sono servite quelle immagini al moloFavaloro. Poi è iniziata l’operazione Triton di sorveglianza e fortificazione delle frontiere della fortezza Europa”.
Il collettivo ha pubblicato una interessante inchiesta, “Lampedusa, 3 ottobre 2013. Il naufragio della verità” (scaricabile qui) che analizza e racconta i fatti accaduti il 3 ottobre, scritto a partire dalle testimonianze dei primi soccorritori e di alcuni sopravvissuti che testimoniano l’orrore di quella notte e l’inspiegabile ritardo nei soccorsi.
A distanza di nemmeno dieci giorni, l’11 ottobre 2013, avvenne un altro naufragio, tra Malta e Lampedusa, nel corso del quale persero la vita circa 268 profughi siriani in fuga dalla guerra tra cui 60 bambini. Un rimbalzo di responsabilità tra Malta e la guardia costiera italiana causò un ingiustificabile ritardo nelle operazioni di salvataggio e l’imbarcazione, colpita precedentemente da proiettili di una motovedetta libica, affondò.
Nei giorni scorsi si è appreso che diversi ufficiali della marina militare sono indagati dalla procura di Roma per omicidio colposo e omissione di soccorso. «Da quando è arrivato il Papa a Lampedusa nel 2013, vi è una narrazione positiva dell’isola, che da isola dell’“invasione”è diventata isola della “misericordia”, isola dell’”accoglienza”», ci dice il collettivo. Se prima i lampedusani hanno accolto nelle proprie case i migranti e cucinato per loro, quello attuale è invece un modello accoglienza in realtà basato sulla forza militare e che al tempo stesso ne nutre le risorse. Comunque, in tanti sono anche consapevoli che esser diventati simbolo mondiale dell’accoglienza abbia in cambiofavoritoil recente boom turistico ed un conseguente ritorno economico. L’accoglienza quotidiana, infine, tra le tante difficoltà, si manifesta con una semplicità e spontaneità che non ha bisogno di essere spettacolarizzata.
Dati e speranze
Gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (IOM) riferiscono che nel 2016 sono 333.384 i migranti arrivati in Europa via mare, mentre 3.940 sono morti o dispersi, mai un numero così alto prima d’ora. Mentre c’è chi localmente mostra nel piccolo la propria solidarietà, le regole europee per l’ottenimento dei permessi e del diritto all’asilo sembrano inasprirsi e nemmeno sembrano essere rispettate. Nel 2015 oltre il 55% dei richiedenti asilo avrebbe ricevuto un diniego, mentre ad accedere allo status di rifugiato politico sarebbe meno del 5%; nel 2016 si registra un significativo aumento dei dinieghi, con tassi superiori al 60%, secondo i dati del Coordinamento Migranti.
A Lampedusa, porta d’ingresso verso l’Europa per chi scappa da orrori e povertà, tappa di transito per il nord Europa che ora ha chiuso le porte, i migranti si chiedono quando e dove potranno condurre un’esistenza dignitosa al sicuro, una vita migliore di quella da cui sono scappati. Tuttavia, una volta trasferiti, rischiano di ritrovarsi bloccati per mesi nel cortocircuito dell’accoglienza, privi di prospettive. Coloro a cui viene negato il diritto di asilo vengono colpiti da un decreto di espulsione con mezzi propri e, tagliati fuori dal sistema dell’accoglienza, finiscono in quello del lavoro nero. Vanno incontro a lunghi tempi di attesa anche coloro che rientrano tra i “ricollocabili” (eritrei, siriani ed iracheni) e coloro che hanno diritto di asilo.
Nel frattempo il resto d’Europa pare andare in un’altra direzione rispetto a paesi come Italia e Grecia che rischiano di esser lasciati soli nella gestione della migrazione, che potrebbe invece essere più facilmente gestita a livello europeo.Chiusa la rotta balcanica, l’Europa sta trattando con paesi africani per arginare ilcrescente flusso dal Mediterraneo centrale che ha portato ad un aumento delle morti in mare – tra questi paesi vi è la Nigeria, poi Etiopia, Niger, Mali, Senegal – con lo scopo di rimpatriare quelli che vengono considerati migranti economici. Per queste persone alla ricerca di lavoro e migliori opportunità, la realtà dell’Europa finisce per rispondere solo di rado alle loro speranze e aspettative.
Non sapendo quando verranno trasferiti sul “continente”, ogni sera saluto Hassan, Mohammed, Laouni e gli altri nell’incertezza di rivederli il giorno seguente, nella forte e silenziosa speranza che nel percorsoche faranno vengano considerati esseri umani prima che migranti.
3/1172016 Nena News
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