Migranti: l’odissea dei “bambini in fuga”
Bambini e bambine, attaccati alle gonne delle madri o avvolti nelle coperte dal personale di soccorso, compaiono ogni tanto in mezzo ai gruppi di migranti adulti, anch’essi stremati dalla lunga traversata via mare verso l’Italia, fatta su vecchi barconi insicuri e colmi all’inverosimile. Il nostro occhio ne registra appena la presenza quando vediamo le immagini degli sbarchi sui tg, e non sempre ci soffermiamo ad analizzare l’enormità dell’impresa, anestetizzati dalla narrativa dei numeri e dalla retorica dell’emergenza. “Sono i bambini in fuga dalla guerra e dalla fame, e provengono dalle coste sud del nostro comune mare, il Mediterraneo” spiega Italo Cassa, alias Dottor Gioia, clown umanitario e fondatore dell’associazione La Scuola di Pace. Lui questi bambini non li ha visti solo in TV: “Bambini in fuga” è infatti il titolo del documentario prodotto dalla sua associazione, che l’estate scora ha seguito da vicino, a bordo del coloratissimo e sgangherato camper “Joybus”, le tappe di questi piccoli migranti, per la maggior parte siriani, dal loro arrivo in Sicilia, poi a Milano, in Svizzera e fino alla Svezia. Lo scopo: portare loro assistenza sotto forma di aiuti materiali ma anche di giochi e divertimenti, come palloncini, bolle di sapone, musica e scherzi, “per aiutarli a dimenticare le fatiche, fisiche e psicologiche, affrontate”.
“Appena arrivati, abbiamo incontrato bambini stravolti, spaventati, diffidenti, scoraggiati, con la pelle del viso bruciata dal sole per via della lunga traversata in mare, prima di essere soccorsi dalle navi della Marina Italiana – racconta la volontaria Marinella Fiaschi dopo la presentazione del film a Roma – Tra loro, alcuni non riuscivano a reagire e a mostrare il sorriso che ci si aspetta tutti i bambini spalanchino sul volto quando si interagisce con loro attraverso il gioco. C’è stato bisogno di tempo, ma con calma e determinazione siamo riusciti ad aprire una breccia. Piano piano, grazie al gioco, la rigidità iniziale ha cominciato a lasciar spazio a degli splendidi sorrisi di gioia”. Quando nel documentario li si vede correre e giocare, col viso illuminato di allegria, è difficile pensare che questi piccoli abbiano vissuto i dolori di una guerra, le privazioni della fame e della povertà, le persecuzioni e tutte quelle cause che spingono una famiglia ad abbandonare la propria terra d’origine, o addirittura un genitore a mandare il proprio bambino da solo in Europa in cerca di un futuro migliore. “Forse per i più piccoli è più facile, perché si adattano presto al cambiamento – continua Marinella – ma non è neanche del tutto vero. In Svezia, ad esempio, meta prediletta dei migranti e dei richiedenti asilo, molti di questi bambini vengono sottoposti a delle terapie di riabilitazione dove vengono aiutati a dimenticare gli orrori a cui hanno assistito durante il viaggio, ovvero gente in preda alla paura e al terrore, gente che picchiava altra gente, gente che moriva, gente che affogava. Bambini come quelli che arrivano dalla Siria, poi, già in patria hanno vissuto le tragedie della guerra e della violenza. Una realtà che nessun bambino dovrebbe sperimentare”.
Eppure le storie sono tante, troppe, basta leggere le testimonianze raccolte dal recente report pubblicato da Save the Children e intitolato “L’Ultima Spiaggia. Dalla Siria all’Europa, in fuga dalla guerra”. Come quella di Hamid, 15 anni, che da un campo profughi palestinese a Damasco è fuggito – causa bombardamenti – insieme alla madre e al fratellino prima in Libano e poi in Libia, dove ha lavorato come operaio, fabbro e imbianchino. In Libia, però, il pericolo per i siriani è ovunque: “Sono stato minacciato di morte, mi hanno derubato e sono stato preso a coltellate” racconta. Così, la famiglia si sposta a Tripoli, dove un trafficante li piazza alla fine in un barcone per l’Europa. Come spesso succede, i migranti sono stati lasciati in balia di se stessi, la barca in avaria ha iniziato a imbarcare acqua, prima del salvataggio da parte della guardia costiera italiana. “Ho davvero avuto paura di annegare” commenta il ragazzino. C’è la storia di Olfat, 40 anni, partita con tutti e 4 i suoi figli: “I bambini avevano i panni bagnati perché erano caduti in acqua mentre ci facevano salire a forza sul barcone. Alcuni non sono caduti accidentalmente, ma sono stati buttati in acqua, appositamente, dagli scafisti”. C’è anche chi si tormenta perché i bimbi li ha lasciati a casa in Siria, come i fratellini di Abu Rabiaa. “Non escono di casa per giocare, ma per vedere chi è morto e magari raccogliere le pallottole esplose che trovano a terra. Le scuole sono chiuse da più di due anni, anche un semplice biscotto è diventato un sogno proibito per qualunque bambino. Se chiedo a mio fratello Arif di otto anni cosa ti aspetti dal futuro lui risponde ‘niente, posso morire oggi o domani’”. E c’è anche chi, nonostante sia arrivato alla meta sano e salvo, deve fare i conti con i traumi subiti. Come le bambine di Maisa, che in Siria hanno assistito all’arresto in casa del loro papà e che ancora oggi scattano come saette ad ogni rumore improvviso, o la piccola Sedra, bimba di sei anni che ha lasciato la Siria insieme alla mamma, e che “ha visto un gruppo di uomini armati sgozzare la sua maestra in classe”.
Per chi sopravvive ai viaggi in mare e arriva a Lampedusa spesso comincia l’altra odissea, ben raccontata nel documentario della Scuola di Pace: quella di chi cerca diraggiungere i paesi del Nord senza cadere nel dedalo della burocrazia italiana e delregolamento di Dublino. Impresa titanica per chiunque, figuriamoci per un bimbo. Se per legge è lo stato che dovrebbe occuparsi di loro, sono per lo più i volontari e le associazioni a tappare i buchi delle istituzioni, e spesso come “ricompensa” vengono accusati di “favorire l’illegalità”. Ma il loro lavoro è essenziale. Secondo i dati del ministero dell’Interno, i minori stranieri sbarcati in Italia nel 2014 sono stati 14.243. Di questi, moltissimi sono arrivati da soli, categoria se possibile ancora più vulnerabile: basti pensare che, sempre l’anno scorso, oltre 3mila bambini sono svaniti nel nulla. Se c’è chi decide di scappare volontariamente dalle maglie di un sistema di accoglienza fallato com’è quello italiano e di raggiungere da solo i parenti, sono molti a finire spesso e volentieri vittime della criminalità organizzata, del lavoro nero e dei giri di prostituzione. Ci sono perfino casi in cui sono i cosiddetti “scafisti di terra” a rapirli per chiedere un riscatto ai genitori rimasti in patria. E proprio sui bambini scomparsi è incentrata la prossima missione e documentario della Scuola di Pace, associazione che naturalmente figura tra i firmatari dell’appello per l’adozione dei cosiddetti corridoi umanitari per i migranti: “Non ci dovrebbero essere mai ‘bambini in fuga’– spiega Italo Cassa – ma se ci sono vanno aiutati senza respingerli e senza infrangere il loro sogno di pace e libertà, lo stesso sogno che hanno tutti i bambini del mondo”.
Anna Toro
19/3/2015 www.unimondo.org
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