Ministeri “commissariati” dal gigante americano della consulenza aziendale
Nel palazzo che ospita il ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), in via XX Settembre a Roma, di fronte alla sala conferenze della Ragioneria generale, su una targa davanti a una porta si legge “Laboratorio McKinsey-Mef”. All’interno, ogni mattina un plotone di giovani economisti arruolati dalla multinazionale americana delle consulenze tra i migliori laureati delle università più prestigiose si siede alla scrivania e si mette ad analizzare dati, scrivere rapporti e sintetizzarli in formato powerpoint, con stile anglosassone e il tipico “metodo analitico” di McKinsey, tra i mugugni di funzionari e dipendenti ministeriali che si vedono sottrarre mansioni e ruolo.
Non era chiaro cosa facessero dipendenti e stagisti di una società privata in un ufficio pubblico finché, il 5 marzo 2021, il giornalista Andrea Di Stefano ha rivelato ai microfoni della milanese Radio Popolare che il ministro Daniele Franco, ex direttore generale della Banca d’Italia e uomo di fiducia del premier Mario Draghi, aveva assegnato a McKinsey l’incarico di aiutarlo a scrivere il Piano nazionale di ripresa e resilienza da presentare a Bruxelles per ottenere i 209 miliardi di euro – poi diventati 248 – del Recovery Plan europeo. Radio Popolare ha definito la multinazionale delle consulenze come “una specie di governo parallelo” e “una sorta di laboratorio del neoliberismo e il suo braccio operativo”, ricordando la multa milionaria affibbiatale dalle autorità americane per aver consigliato alle industrie farmaceutiche una campagna molto aggressiva di vendita di farmaci oppiacei che hanno provocato numerosi casi di overdose.
“McKinsey soffre di un plateale e vistoso conflitto di interessi: lavora per il settore privato in tutte le cosiddette industries (dalla finanza alle telecomunicazioni, dalla sanità al turismo, dalla petrolchimica all’energia, dall’agroindustria ai beni di largo consumo, dalla logistica ai trasporti) e, quindi, non potrebbe in alcun modo garantire quell’indipendenza che dovrebbe ispirare qualsiasi consulente strategico. Chi, come e quando può garantire che un’informazione strategica sulle scelte di investimento pubblico non possa favorire una Snam o una Tim di turno? E viceversa?”, ha insistito Di Stefano in un post su Facebook.
Il ministero, costretto a intervenire, ha
minimizzato spiegando di aver chiesto a McKinsey di fornire un’analisi
dell’impatto sull’occupazione e sul prodotto interno lordo dei progetti
del Recovery Plan, nonché di confrontare il piano italiano con quello
degli altri paesi europei, mentre “la governance del Piano nazionale di
ripresa e resilienza italiano è in capo alle Amministrazioni competenti e
alle strutture del Mef che si avvalgono di personale interno degli
uffici”. Ha inoltre ribadito che McKinsey non è coinvolta nella
definizione dei progetti, i cui aspetti decisionali “restano unicamente
in mano alle pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per
materia”. Un lavoro svolto per una cifra così irrisoria da risultare
sospetta, per una società che punta ai profitti e non a fare
beneficenza: appena 25 mila euro più Iva. Un “rimborso spese” che, per
l’importo “sotto soglia”, non ha avuto bisogno di alcuna gara d’appalto
per essere assegnato.
Il ministero di via XX Settembre non
ha però spiegato perché McKinsey ha accettato di lavorare gratis per il
governo italiano e neppure ha detto che non è stata l’unica
multinazionale a essere coinvolta nell’elaborazione del Piano. Qualcuno
ha sostenuto che con ogni probabilità la multinazionale ha valutato che
il ritorno d’immagine valesse più del compenso, altri hanno sospettato
che si sia trattato di una scelta rivolta al futuro: quando ci sarà da
redigere i progetti operativi, per le grandi opere come l’ampliamento
della rete dell’alta velocità ferroviaria o il discusso ponte sullo
Stretto di Messina, la società americana sarà in pole position e in quel
caso le cifre saranno con molti zeri. Ad affiancare i tecnici del
ministero nello stabilire cosa finanziare e con quali importi c’erano
pure economisti delle cosiddette “big four” della contabilità, Kpmg,
Deloitte, Ernst&Young e Pwc, e di altri due colossi della
consulenza, Bain&Company e Boston Consulting Group.
“Hanno partorito una serie di slide uguali a quelle di altri Paesi per i quali hanno lavorato, ci sono solo matrici e indicatori e nulla sulla componente sociale, partecipativa e democratica della valutazione delle scelte fatte”, dice sconsolato Giulio Marcon, ex deputato di Sinistra Italiana e fondatore della campagna Sbilanciamoci – che riunisce 49 ong impegnate sui temi della spesa pubblica e delle alternative economiche – uno dei più critici verso la decisione del premier di commissariare gli uffici ministeriali con gli esperti delle multinazionali. Secondo la deputata ecologista Rossella Muroni, il Piano “manca di visione” proprio perché è stato scritto da tecnici che “applicano le stesse ricette ovunque li chiamino”, senza “confronto con il Parlamento e con le forze politiche, economiche e sociali”. “Ragionano solo in termini di efficienza, portando gli schemi delle aziende private all’interno dell’amministrazione pubblica”, dice ancora Pianta. “Nel momento in cui il ruolo dello Stato ridiventa centrale, questo invece di ammodernarsi dà in outsourcing ai privati sempre più mansioni, in nome dell’efficienza”, ha aggiunto Mariana Mazzuccato, docente di Economia dell’innovazione all’University College di Londra e autrice di Lo Stato innovatore (Laterza editore), intervenuta alla trasmissione di Radio3Rai Tutta la città ne parla.
In più di un ministero italiano si trovano così a lavorare fianco a fianco dipendenti statali e delle società di consulenza, con regole e salari diversi. I numeri parlano di quattromila esperti che hanno preso il posto dei dipendenti andati in pensione e non rimpiazzati nelle pubbliche amministrazioni, per un totale di tre milioni di euro di contratti stipulati con le società di consulenza, cifre che spiegano perché McKinsey possa permettersi di lavorare gratis al piano per ottenere le risorse del Recovery Fund. A loro sono affidate le scelte di spesa più importanti, sono sempre loro a suggerire i criteri e le linee guida dei bandi e ad avere accesso a informazioni su come verranno indirizzate le risorse dello Stato e quelle europee. I consulenti di Pricewaterhouse advisory (Pwc) lavorano al ministero della Pubblica Istruzione, a quello delle Infrastrutture insieme ai loro omologhi di Deloitte, nonché a quelli del Lavoro, dei Beni Culturali e dell’Interno, e non sempre è facile stabilire quale sia il confine tra una consulenza esterna e attività che dovrebbero essere svolte da impiegati pubblici.
Non sono pagati meglio dei loro omologhi dipendenti statali, come si sarebbe portati a immaginare. Gli “analisti di ricerca” vengono selezionati tra i migliori neolaureati in Economia aziendale e “messi al lavoro subito al massimo, a ristrutturare banche, grandi aziende o in ministeri di prestigio. È una sorta di passaggio obbligato per chi vuole cominciare a lavorare in questo settore, pensano di essere all’inizio di una folgorante carriera e accettano compensi bassi e di lavorare più del dovuto”, spiega una manager di Boston Consulting Group che preferisce mantenere l’anonimato. Viaggiano in prima classe, dormono in alberghi di lusso e questo li fa sentire come una sorta di élite, ma le apparenze nascondono un’altra realtà, fatta di superlavoro e retribuzioni non commisurate all’impegno e alle responsabilità. Un analista di ricerca, il gradino più basso nella carriera di un consulente, guadagna 36 mila euro all’anno, un compenso che tutti accettano perché lo considerano una tappa obbligata per poter fare carriera e arrivare un giorno alle retribuzioni e ai super-bonus dei loro dirigenti.
L. è uno di questi. Impiegato nella sede milanese di Boston Consulting Group, accetta di parlare a patto che non si faccia il suo nome. A suo parere, il problema non sono tanto i salari, quanto l’autosfruttamento. “Lavoriamo a volte anche quindici ore al giorno, sempre davanti a un computer”, spiega. Tutti considerano McKinsey il massimo, per la qualità dei lavori svolti e perché è considerata la società più prestigiosa e con gli stipendi (e i bonus) più alti per i dirigenti. Non ultimo, perché al governo può vantare sponsor eccellenti come il ministro per l’Innovazione e la transizione digitale Vittorio Colao, che ha cominciato la sua carriera proprio nella multinazionale americana. Il politico-manager ha lavorato per dieci anni nella sede milanese prima di finire a Londra come amministratore delegato della compagnia telefonica Vodafone e infine di essere chiamato al governo italiano da Mario Draghi. Anche quest’ultimo è un ex, però della banca d’affari Goldman Sachs prima ancora che della Banca d’Italia e della Banca centrale europea. Un dettaglio che svela come i confini tra lo Stato e quelli che l’economista Pianta definisce come “i centri nevralgici del capitalismo neoliberista” si stia assottigliando fino a diventare quasi indistinguibile.
Angelo Mastrandrea
6/7/2021 https://www.areaonline.ch
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