Mio figlio dovrà essere il “figlio di tutti”
Bene, i genitori possono ora stare tranquilli. Il loro assillo alla nascita del loro bambino/bambina, su «chi si occuperà di lui/lei quando non ci sarò più» è finito. Esiste finalmente una Legge di tutela, probabilmente perfettibile nel tempo, ma intanto un grosso passo avanti è stato fatto.
Questa dunque è la Legge, ma per l’intolleranza sociale, quella che preoccupa il genitore che per i propri figli «non sia un bello spettacolo vedere dalla mattina alla sera persone che soffrono su una carrozzina» o essere disturbati al ristorante dalla visione di una tavolata di persone con disabilità, cosa viene fatto? Episodi di intolleranza del genere ce ne sono tanti, alcuni vengono alla luce, altri vengono subiti in silenzio dai genitori e dai figli, pronti a “belare” un “grazie” quando qualcuno ha un’attenzione verso di loro.
O ancora, come possono rassicurarci le notizie sui maltrattamenti e le violenze perpetrate nelle varie strutture residenziali nei confronti di persone fragili e indifese?
Mi chiedo: quei diritti civili nati dopo il Sessantotto e proseguiti negli anni successivi (1977:Legge 517 sulla scuola; 1992: Legge Quadro 104; 1999: Legge 68 sul lavoro, solo per citarne alcune), quella “società educante” di Aldo Agazzi che avrebbe dovuto eticamente sviluppare il concetto di solidarietà con finalità inclusive della “persona” in quanto tale, solidarietà nel riconoscere la diversità e nello stesso tempo riconoscersi in essa, farsi promotrice di nuovi modelli educativi e di convivenza, che fine hanno fatto?
Io, genitore, come posso fidarmi di una Legge che si prenderà giuridicamente carico un domani di mio figlio, ma che non mi dà garanzie su quali “mani” si occuperanno di lui?
Riprendiamo allora quel concetto etico di “società educante”, di “pedagogia familiare” che mi permetta di sperare concretamente che un domani mio figlio sarà il “figlio di tutti”, perché ci sarà una responsabilità sociale, una società di relazioni, un contesto educante al quale l’immagine del “diverso”, chiunque esso sia, non provochi traumi, sofferenza, intolleranza, fastidio, ma induca ad apprezzare il proprio stato e ingeneri il desiderio e la curiosità solidale di conoscenza dell’altro.
Le agenzie educative, e in primo luogo la famiglia, dovrebbero farsi carico di questo processo pedagogico inclusivo, che non deve tendere a “normalizzare” il diverso, bensì ad accettarlo nella sua diversità e appoggiarlo nel suo progetto di vita all’interno del contesto sociale.
Non basta commentare le notizie su social media, credo sia necessario anche agire. Ad esempio, non utilizzando il parcheggio riservato alle persone con disabilità o parcheggiando sui tratti in discesa dei marciapiedi: piccole cose che danno però il senso del rispetto e della condivisione di un problema, soprattutto se sono presenti i propri figli.
Il gruppo sociale di appartenenza, quindi, deve avere la capacità di creare spazi a misura di tutti e uscir fuori dall’individualismo che sempre di più sta caratterizzando la nostra società.
Certo, non mi illudo che questa mia riflessione operi un cambiamento, ma ho sentito la necessità di esprimerla con la speranza che qualcuno la condivida e la tramuti in azioni concrete.
*Il trust è un istituto di origine anglosassone che consente di spossessarsi, con agevolazioni fiscali, di patrimoni propri, in funzione di un vantaggio o beneficio futuro.
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