MONOLOGO DI UN ETILISTA
parte terza
Giusi rimase a dormire dal maestro. Ogni tanto era lei a cercarlo, quando aveva bisogno di calore umano. Quell’omino così turbato si mostrava un amico sincero, difficile da capire, ma non l’aveva mai insultata e non si sarebbe mai permesso di vietarle di fumare troppo.
Al mattino si svegliarono nello stesso letto, Renato si alzò per primo, nonostante i giramenti di testa e lo stomaco in subbuglio. “Buongiorno Giusi”, “Buongiorno Renato”.
Qualcuno, nel vederli, li avrebbre scambiati per una coppia datata, invece si vedevano una volta al mese, anche meno. Il maestro si diresse in bagno, certi impegni non sentono l’obbligo di aspettare momenti migliori. Ne approfittò per farsi la doccia, la barba e mettere una tuta di cotone. In camera, Giusi già teneva tra le mani la prima sigaretta del giorno. Renato si distese di nuovo sul letto e chiese “mica è successo qualcosa di grave ieri sera?-
Ella scoppiò a ridere, le piaceva ironizzare sul sue non prestazioni “Finita la prima bottiglia, hai recitato il tuo solito monologo, nient’altro. Ma come fai a vedere questo amico immaginario? Chi è questo Massimo?-
La domanda era logica e scontata, la risposta, invece, complicata. Soprattutto spiegarlo a una donna alla mano, essenziale come lei, semplice e leale, ma non si perse d’animo. “Provo a raccontarti come viene, Massimo è il nome di un Compagno con cui ho litigato migliaia di volte. Ti spiego meglio, un periodo della mia vita ho fatto il ribelle nei movimenti studenteschi dell’epoca. Andavamo a prendere i fascisti sotto casa, rubavamo ai ricchi per dare ai poveri. La gente di questa nazione era diversa, eravamo sempre in tanti. Dopo qualche anno beccarono me e altri Compagni, durante una manifestazione finita a sassate. Carcere duro, poi riabilitazione. Lui mi pungolava sempre, non era mai d’accordo, eppure il giorno dopo si presentava prima degli altri”.
Normalmente Giusi si sarebbe accontentata. Quel mattimo, a bocce ferme, pretese un racconto “dimmi qualcosa che ti ha fatto male”. Renato la prese a ridere “le tante donne passate nella mia vita, mia moglie, i miei figli che non vedo da anni e anni”.
Giusi conosceva abbastanza quel periodo, voleva tornasse ancora indietro “Dimmi qualcosa di quel periodo da ribelle, qualcosa che ti ha lasciato il segno”. Renato non dovette pensarci sopra, aprì immediatamente la bocca “Ricordo perfettamente il primo arresto. A quel tempo non ero abituato alle manette, quando sentii il rumore della chiusura, la mente scivolò al pacchetto di cerini rimasto in tasca. Se fossi stato fortunato mi sarei imbattuto in una bottiglia piena di benzina, ma ormai mi avevano ammanettato. E’ strano, sai? Solo nel momento dell’azione mi accorsi quanto dolore provocasse l’essere ammanettati, con le mani dietro la schiena e le divise ai fianchi; io impotente, loro armati e in tanti. Accesero le sirene, allora mi venne istintivo chiedere “che senso ha fare la scena? Ormai mi avete preso”. Il più giovane, forse il più stronzo, mi rispose guardandomi sicuro di se’, armato e io ancora in manette “facciamo festa, quando si arresta un comunista è sempre festa”.
Nel sentire quelle parole, la sua amica si alzò in piedi e inveì contro il mondo intero “pezzi di merda loro e tutti quelli che fanno la spia. Fanno schifo, schifo, schifo!”
Renato la strinse a se’ , deciso a fornirle una parte del calore rimasto, ma lei insistette “perchè sei diventato comunista, allora? Spiegamelo in parole povere”. Quella domanda diretta lo prese alla sprovvista, se l’avesse posta un giovane del liceo o uno studente universitario, avrebbe potuto sviolinare Brecht, Hikmet, qualche spunto di Lenin.
Con lei no, doveva parlare dei suoi sentimenti. Prese tempo e servì un bicchiere di rosso; certe usanze vanno rispettate tra gli etilisti, soprattutto al mattino. La risposta giunse con un filo di voce, mentre Giusi, ormai, s’era aggrappata a ogni respiro che usciva dalle sue labbra “bella domanda Giusi! Ho sempre creduto che l’unione dal basso, della gente di strada con i padri di famiglia, gli operai, i cittadini onesti, ci avrebbe portato alla lotta armata. L’abolizione della proprietà privata, volevo questo e ci credevo fino a farmi arrestare. Credo sia inutile dirti che questo sogno l’hanno interrotto i traditori. Gente che, arrivata al potere, ha cambiato pelle, li chiamavamo gli opportunisti”. Giusi si fece ancora più curiosa, davanti al mosaico illustrato “secondo me, chi pensa di cambiare gli altri è un malato. Dovrebbe farsi curare lui e non gli altri”. A Renato parve sensata quella risposta, trovava più verità in quelle parole, che in quella di tanti Compagni “Giusi, è tutto dissolto, come si dissolvono gli amori estivi. Rimane la mia foga, il bicchiere e Massimo che viene a punzecchiarmi. Ieri mi ha detto “volevamo realizzare grandi sogni, invece ci accontentammo del contratto nuovo per i lavoratori. Prima sognavamo la dittatura del proletariato, adesso andiamo a pregare il padrone per un lavoro sotto pagato, lottiamo per avere un parco pubblico. Non ci sono più grandi sogni, viviamo nella solitudine, praticamente abbiamo fallito. E’ tutta qua la mia storia da Comunista!-
Si sdraiarono sul letto nella speranza che Renato trovasse l’ispirazione per baciarla, come lei desiderava da tempo. Lui scivolò nel lucubre mondo di rimorsi e ira da svendere, dimenticando Giusi e il suo fisico imponente “mia moglie e i miei figli dicono che vivo di sogni perché sono un alcolizzato, in realtà sono un alcolizzato perché non sogno più, ho perso il sogno. Eppure darei ancora la vita per quell’ideale. Sono un residuo, un avanzo, un sopravvissuto in questo poligono di tiro a segno, che chiamano capitalismo. Lo sei anche tu, ormai lo siamo tutti!”
Giusi, da attenta osservatrice, lo travolse con una domanda, a cui non sapeva rispondere “quindi, niente più sogni, è finito tutto?-
Il prossimo sul numero di gennaio 2016
Prima parte nel n. 3 – giugno 2015
Seconta parte nel n. 4 – settemb. 2015
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