Morire di disperazione. L’ingiustizia sociale nella sua forma estrema

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il capitalismo, negli Stati Uniti, non funziona per 2/3 di coloro che hanno un’età tra i 25 e i 64 anni”. Questa frase è stata pronunciata, tra molte altre di analogo tenore, all’inizio di gennaio da Ann Case, a San Diego, in California, nel corso di un panel dell’American Economic Association dedicato al libro da lei scritto assieme al premio Nobel Angus Deaton, dal titolo Deaths of Despair. The future of capitalism, che sarà pubblicato a marzo dalla Princeton University Press. Al panel, oltre naturalmente a Case e Deaton, hanno partecipato tre autorevoli studiosi come Robert Putnam, Raghuram Rajan e Ken Rogoff.

Il tema è di straordinaria rilevanza e, in attesa del libro, appare interessante iniziare a riflettervi sulla base di quanto è emerso nel corso del panel.

Si parla di deaths of despair, un fenomeno sul quale Case e Deaton hanno iniziato ad attirare l’attenzione già da qualche anno. Si tratta di morti collegate alla disperazione e che più specificamente sono identificate dai due studiosi con quelle che avvengono per suicidio, per eccesso di droga e per malattie del fegato dovute ad alcool,  cioè per decisioni o comportamenti che lentamente o improvvisamente portano all’esito letale.

Il grafico che segue presenta il numero di morti su 100.000 abitanti per le tre cause indicate a partire dai primi anni ’90 tra i bianchi non ispanici di età compresa tra i 50 e i 54 anni, distinti in base al possesso o meno della laurea.

Come è evidente tra chi non possiede la laurea, e solo tra loro, tutte e tre le cause di morte hanno conosciuto un’impennata notevole negli ultimi due decenni e ciò è particolarmente vero per le overdose di droga, come si può verificare osservando la diversa scala dei tre grafici. La riduzione nella speranza di vita rilevata negli Stati Uniti in alcuni degli anni passati si deve largamente a questo fenomeno.

La crescita delle morti per disperazione si ha anche per altre classi di età tra i 25 e i 64 anni, riguarda donne e uomini – anche se i livelli assoluti delle morti sono maggiori per i secondi – e si manifesta in tutti gli stati americani anche se con diversa intensità, sia complessiva sia per ciascuna delle tre cause.

Un recente rapporto del Social Capital Project (Long term trends in deaths of Despair, SCP report n. 4-19, 2019) estende l’analisi di Case e Deaton a un orizzonte temporale più lungo, praticamente l’intero secolo, adottando una definizione leggermente diversa di morti per disperazione (in particolare per quello che riguarda le morti per alcool) ma non potendo discriminare, per mancanza di dati, in base al possesso della laurea o alle condizioni socio-economiche degli individui. I risultati sono largamente convergenti con quelli di Case e Deaton.

Spiegare questo tragico fenomeno non è semplice. Dal panel dell’American Economic Association sono emersi diversi spunti meritevoli di riflessione ma si è ancora lontani da una compiuta spiegazione. L’auspicio è che la lettura del libro di Case e Deaton consenta di fare passi avanti su questa difficile strada. Intanto si può cercare di mettere in ordine gli spunti emersi dal panel.

La prima considerazione è che vi sono fattori, largamente specifici agli Stati Uniti, che aiutano a spiegare non tanto perché emerga il despair ma piuttosto perché in molti casi esso porti agli esiti drammatici che abbiamo visto. Il primo di essi è, forse, la facilità di accesso alle armi da fuoco, che sembra siano utilizzate in circa metà dei suicidi.

Un secondo fattore, che svolge una funzione analoga, è la facilità di accesso agli oppioidi che ha condotto a quella che è stata chiamata epidemia degli oppioidi. Case e Deaton richiamano esplicitamente questo evento, che merita un breve approfondimento anche perché le sue caratteristiche illustrano aspetti della società americana utili per una più generale spiegazione del fenomeno.

Nel primo decennio di questo secolo i decessi per overdose dovuti a prescrizione di oppioidi antidolorifici sono aumentati di circa quattro volte, portando la mortalità a 10 persone su 100,000, che è un valore molto elevato.

Come osserva Philippon, che ben sintetizza il problema (T. Philippon, The Great Reversal, How America Gave up on Free Markets, The Belknap Press, 2019), per comprendere il fenomeno occorre guardare al lato sia della domanda sia dell’offerta. Dal lato della domanda vi sono complesse condizioni economiche e sociali, sulle quali tornerò più avanti. Dal lato dell’offerta, invece, vi sono le carenze del sistema sanitario americano., in particolare fenomeni del tipo ‘cattura del regolatore’.

Mentre l’epidemia di oppiodi era n atto (e forse proprio perché era in atto), le case farmaceutiche hanno, infatti, esercitato una potente azioni di lobbying allo scopo di rimuovere le limitazioni alle prescrizioni. Tali azioni hanno coinvolto anche autorevoli membri del Congresso come Tom Marino di cui si venne a scoprire, dopo che era stato nominato nel 2017 da Trump Direttore dell’Office of National Drug Control Policy, il ruolo decisivo nel forgiare la legislazione che di fatto impediva alla DEA (Drug Enforcement Administration) di agire contro i distributori di oppiacei antidolorifici.

Peraltro, invertire la tendenza all’uso crescente degli oppiodi si rivelò molto difficile; quando vennero introdotti farmaci anti-abuso, si fece ricorso al mercato nero, in particolare a quello dell’eroina. Le morti crebbero di numero e si stima che oggi mezzo milione di americani sia dipendente dall’eroina, l’80% dei quali ha fatto uso, in precedenza, di oppioidi.

L’esempio è rilevante perché mostra come la capacità di alcuni di estrarre rendite nel settore farmaceutico possa tradursi in morte per disperazione per molti altri. Deaton insiste molto su questo punto e ritiene che la forza e l’estensione di questa attività di ricerca delle rendite, con i suoi danni collaterali, siano tipiche degli Stati Uniti.

Al riguardo egli cita un altro caso interessante, quello delle ambulanze. Durante la recessione del 2008 alcuni fondi di private equity hanno iniziato ad acquisire società per fornire servizi di ambulanza, in precedenza offerti da governi locali e da enti non profit. Da allora, secondo un diffusissimo giudizio, il servizio è peggiorato e i costi sono aumentati enormemente, trasformando il servizio di ambulanza da un servizio per la comunità a un bene di lusso (O. Webb, Private Equity Chases Ambulances, The American Prospect, 3 ottobre 2019).

Il punto più rilevante è che i nuovi proprietari delle ambulanze hanno scelto di non fare accordi con le compagnie di assicurazione; pertanto, il servizio resta fuori della copertura assicurativa ed è a carico dei pazienti, il cui potere contrattuale è, per ovvi motivi, praticamente inesistente. In breve, scendendo dall’ambulanza ci si può trovare di fronte a richieste di migliaia di dollari, soprattutto se è stato utilizzato un mezzo aereo. Alla luce di tutto ciò si comprendono episodi come quello raccontato dalla Webb: a Boston un paio di anni fa una donna cade sulle rotaie mentre scende dalla metropolitana e resta incastrata tra il treno e il marciapiede; è in grave difficoltà ma a chi propone di chiamare un’ambulanza grida di astenersi dal farlo: ‘ ma lo sapete quanto costa un’ambulanza?’.

Considerando episodi come quest’ultimo e come la diffusione ‘indotta’ di oppiodi e le loro conseguenze, questo diviene più facile capire non soltanto perché Case possa affermare che il capitalismo non funziona per 2/3 degli americani, ma anche perché Deaton insista sul ruolo della ‘ricerca della rendita’ nel settore della sanità come fattore che aggrava il fenomeno delle deaths of despair. Su questa base egli ritiene che l’Europa – grazie all’esistenza generalizzata di sistemi sanitari pubblici universali – sia sufficientemente al riparo da un simile rischio. Naturalmente tutto ciò è fondato ma vi sono segni anche in Europa, ed in particolare in Gran Bretagna dell’acutizzarsi del fenomeno. Un esame più approfondito, ma certo non facile, dei processi che generano despair appare necessario.

Passando al lato della domanda, sono state menzionate molteplici trasformazioni di carattere economico e sociale che possono aiutare a comprendere la diffusione del  despair. Vi è innanzitutto la questione fondamentale del lavoro. Per coloro che non dispongono della laurea, negli Stati Uniti il lavoro ha conosciuto un vero e proprio declino come fonte di soddisfazione nella vita. E ciò vale anzitutto, ma non soltanto, sotto il profilo economico. Infatti, i salari sono rimasti sostanzialmente stagnanti per gran parte di quella popolazione e trovare un nuovo lavoro comparabile a quello perso è diventata un’impresa difficilissima. Oltre alla perdita del lavoro, assai rilevante è anche la perdita di senso che esso ha avuto per molte persone occupate, con forti ripercussioni sulle loro condizioni psicologiche. Ma, secondo Case e Deaton, per quanto importanti le disuguaglianze economiche di per sé non possano essere considerate la causa del sempre più diffuso despair. 

VI sono, inoltre, alcune evoluzioni sociali che possono aver giocato un ruolo, anche causale, molto importante. Il riferimento è al venire meno delle comunità, al declino dei matrimoni e della famiglia, alla perdita di status e, più in generale, ai processi di crescente individualizzazione sui quali ha molto insistito anche Putnam. Tra altri grafici egli ne ha presentato uno che mostra come da un’indagine testuale condotta sui libri americani pubblicati tra il 1895 e il 2008 risulti un’enorme crescita dell’uso del pronome ‘I’ in parallelo con la caduta del pronome ‘We’ a partire dagli anni ’70 del secolo scorso.

L’esigenza che si avverte è quella di collegare in modo più sistematico queste evoluzioni sociali a quelle economiche, in modo da far risaltare le reciproche interazioni. Nel corso del panel si è detto che la disuguaglianza si è manifestata con ritardo rispetto a talune di queste evoluzioni e, dunque, non può essere considerata il fattore causale principale. È probabile che sia così ed ha certamente ragione Deaton quando insiste nel dire che occorre fare maggiore uso del termine unfairness per capire quello che è accaduto. L’ingiustizia sociale è più generale della disuguaglianza economica e può certamente anticiparla, magari essendo a sua volta anticipata da processi culturali che portano, anche inconsapevolmente, a giustificare le ingiustizie sociali e i comportamenti che le generano E chissà, per fare un esempio, che l’affermarsi della cultura del ‘greed is good’ (l’avidità è un bene), straordinariamente rappresentata nel film Wall Street (1987) anche attraverso le parole di Gordon Gekko, non abbia avuto un ruolo di qualche rilievo nel favorire i complessi processi che trovano il loro tragico terminale nelle deaths of despair.

La conoscenza del tutto incompleta di quei processi non dovrebbe però indurre a ritenere che non vi siano interventi economici in grado di avere positivi e piuttosto immediati effetti. Come mostra un accurato, recente studio negli stati americani in cui è stato aumentato il salario minimo il numero dei suicidi si è ridotto significativamente e lo stesso è accaduto dove è stato esteso il credito di imposta (EITC). Più in generale, misure come queste sembrano in grado di migliorare lo stato di salute fisico e psichico. E, dunque, invertire quello che si è chiamato il declino del lavoro può essere molto efficace.

In conclusione, molto resta da capire e da conoscere. Ma forse si può affermare che se i cambiamenti culturali precedono quelli sociali ed economici, con tutte le loro tragiche conseguenze, diffondere, consapevolmente o inconsapevolmente, quella che potremmo chiamare una cultura dell’unfairness – una cultura, cioè, che tra l’altro giustifica l’individualismo estremo ed i connessi arricchimenti – significa facilitare la trasformazione del capitalismo in un sistema che uccide la speranza. E con essa, molti, troppi esseri umani.

Maurizio Franzini

19/1/2020 www.eticaeconomia.it

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