Morte in subappalto

Morti sul lavoro e guasti ferroviari sono il frutto della deregulation e della mancanza di controlli. I lavoratori provano a organizzarsi, ma la privatizzazione incombe

Attilio Franzini, metalmeccanico, un’altra vita rubata dalla catena di appalti e subappalti della manutenzione ferroviaria. Dipendente della Salcef, una storica società appaltatrice di Ferrovie dello Stato, si aggiunge al tragico elenco di lavoratori morti nella manutenzione dell’infrastruttura. Arriva inoltre al termine di una settimana scandita dai blocchi e ritardi nella circolazione ferroviaria. La risposta ufficiale a entrambi gli eventi è stata però quella della ricerca del responsabile nell’ultimo anello della catena. Sia per il tecnico che – si legge nel comunicato del gruppo Fs – «al momento dell’investimento si sarebbe spostato al di fuori dell’area interessata dalle lavorazioni», sia per l’operaio che ha piantato un chiodo su un cavo di cui il ministro Matteo Salvini ha chiesto da subito «nome, cognome e codice fiscale». Perché, si sa, «chi sbaglia paga». Una retorica che distorcendo la realtà impedisce di approfondire lo sguardo fino alle cause profonde di cui i disservizi e, ben più tragicamente, le morti non sono altro che sintomi superficiali

Secondo i dati del Rapporto Ansfisia, l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle  ferrovie, delle infrastrutture stradali e autostradali, l’8% degli incidenti gravi avvengono in contesti manutentivi e la quasi totalità, secondo diversi lavoratori manutentori, è proprio dovuta alla mancata sospensione della circolazione ferroviaria. Questi incidenti vanno spogliati della retorica della fatalità e del singolo errore umano per ricercarne le ragioni strutturali. È fin troppo semplice parlare di anomalie, soprattutto quando alla base di tutte queste morti c’è un denominatore comune: la strategia di appalti e subappalti nella gestione della manutenzione del settore ferroviario. 

La giungla degli appalti

Gli ultimi vent’anni hanno visto ridurre il numero di lavoratori diretti di Rfi di circa 10.000 unità, passando dalle 38.501 dell 2001 a 29.073 del 2022, il tutto in virtù di una forte spinta all’esternalizzazione orientata all’abbattimento  dei costi e alla velocizzazione degli interventi per aumentare i profitti delle aziende private. Nel caso proprio dei lavoratori manutentori assunti direttamente, le cifre sono ancora più impietose, con una diminuzione da 12.000 a 2.008. Questa strategia, per quanto sia stata presentata come parte del successo delle ferrovie italiane, si è però tradotta non solo in disservizi particolarmente gravi in termini di ritardi, ma soprattutto in un inaccettabile numero di morti sul lavoro. Nel settore della manutenzione in appalto ogni 57 giorni si verifica un incidente grave e ogni 115 uno mortale. 

Tale narrazione circa la necessità di esternalizzare il lavoro è stata alimentata da tutti i governi e con riferimento all’intero settore pubblico e della pubblica amministrazione, a partire dagli anni Novanta. L’avanzata della prospettiva neoliberale, facilitata anche dall’adesione ai trattati europei, presentava come necessario un restringimento dell’intervento pubblico anche nei settori essenziali per ridurre il debito. Un altro attore partecipe della strategia di esternalizzazione nelle ferrovie è  stata e tuttora è l’Ancferr, l’associazione datoriale delle società appaltatrici operanti in ferrovia, nata nel 2011. Quest’associazione nell’arco della sua esistenza si è sempre impegnata, come risulta evidente leggendo gli atti degli annuali convegni, nel promuovere in maniera apologetica una semplificazione dell’accesso agli appalti dietro il sempreverde mantra della sburocratizzazione e della valorizzazione dell’imprenditoria italiana, agevolando in questo modo l’aumento delle ditte che presentano tra i lavoratori assunti bassi livelli di esperienza e formazione. Nel caso dell’azienda Si.Gi.Fer coinvolta nella strage di Brandizzo una testimonianza rilasciata a Report di un ex lavoratore evidenziava proprio questa carenza nella formazione e come fosse possibile essere assunti in mattinata e iniziare già a lavorare in cantiere lo stesso giorno. 

A questo si aggiunge un quadro giuridico paradossale in cui le norme di protezione dei lavoratori addetti all’infrastruttura ferroviaria in Italia sono stabilite dalla stessa impresa datrice di lavoro e committente dei lavori (Rfi), mediante proprie «Istruzioni» che hanno valore di legge, e non dalle norme generali di tutela di derivazione comunitaria, valide per il resto dei cantieri. Di questi testi inoltre, ed è un ulteriore elemento di debolezza per la sicurezza dei lavoratori, sono presenti due versioni: in una si vieta di lavorare con la circolazione treni e in un altro caso lo si rende possibile. Questa situazione è l’esito della mancata armonizzazione della normativa interna sulla sicurezza sul lavoro nell’infrastruttura ferroviaria, ancora disciplinata dalla legge n. 191/1974, con le direttive europee in materia. Adeguamento imposto dal testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. 81/2008) e mai realizzato per la mancata adozione dei decreti attuativi previsti dal decreto stesso. Una situazione di contrasto con il diritto Ue che è stata oggetto di denuncia alla Commissione europea da parte della rivista Ancora in marcia e delle associazioni Il Mondo che vorrei e Assemblea 29 giugno, sorte a seguito della strage ferroviaria di Viareggio.

I lavoratori manutentori, che da un anno scioperano di mese in mese e si sono autorganizzati in un’Assemblea nazionale (Anlm), inizialmente in contrasto alla firma a gennaio di un protocollo di intesa tra i sindacati confederali e Rfi per la riorganizzazione dei turni di lavoro, segnalano come dal 3 giugno con l’entrata in vigore di quel protocollo siano diminuiti i tempi di riposo e di esecuzione dei lavori, con la possibilità che uno stesso lavoratore si trovi a eseguire diverse manutenzioni nell’arco di 7 giorni consecutivi. Questo protocollo dal lato aziendale è stato presentato ancora una volta come fondamentale per garantire maggiore efficienza e tempestività negli interventi, a discapito evidentemente della salute e della sicurezza di chi lavora, ultimi anelli della catena. La realtà ancora una volta però stride con le sue narrazioni: da giugno sono aumentati anche i ritardi e qualche giorno fa siamo tornati a parlare di una morte, non tragica ma dovuta a precise scelte politiche, sui binari. 

Il governo intanto di fronte a tutto questo non solo continua a guardare il chiodo e apparentemente a ignorare i problemi, ma anzi agisce aggravando la situazione e riducendo le tutele dei lavoratori e delle lavoratrici con un nuovo Codice degli Appalti che, con l’articolo 11 comma 4, permetterà alle aziende di partecipare agli appalti applicando contratti collettivi diversi da quelli tradizionali nel settore ferroviario, come l’edile o il metalmeccanico, a condizione che dimostrino che le tutele economiche e normative siano equivalenti. Una flessibilità che rischia di costare caro, considerando come si potrebbero trovare a lavorare sui binari a costi inferiori e dunque vantaggiosi secondo i criteri a ribasso applicati da Rfi nell’individuazione delle aziende in appalto, lavoratori con contratti diversi da quelli standard. 

La privatizzazione corre sui binari

Il governo cerca poi di presentare come soluzione della lenta strage di morti e delle disfunzioni nella manutenzione e nella circolazione ferroviaria quella della privatizzazione del gruppo Fs (ancora da individuare i bersagli tra la capogruppo, Rfi e Trenitalia), dovuta a nient’altro che alla mera esigenza di fare cassa e di aprire spazi vantaggiosi ai privati. La forma della privatizzazione pianificata al Mef è infatti quella che segue il cosiddetto modello Rab (Regulatory asset base) tipico delle aziende operanti in regime di monopolio e, nonostante il tasso di remunerazione sia stabilito dall’autorità di settore, funzionale al perseguimento del binomio perfetto della certezza dei profitti e della socializzazione delle eventuali perdite. Varrebbe la pena, per accantonare queste mire, ricordare le fallimentari esperienze di privatizzazione di servizi essenziali come l’acqua e proprio le ferrovie nel Regno Unito, ma anche il caso di Autostrade per l’Italia, con un aumento nel tempo dei costi a carico dei cittadini trainato soprattutto da un modello di gestione orientato al profitto, alla remunerazione degli azionisti attraverso cospicui dividendi e ben poco attento alla manutenzione delle infrastrutture, con tragici risultati, appunto, a carico della collettività. 

Il pensiero subito si volge, di fronte a un simile scenario, alla lotta di Silvio Spaventa, già Ministro dei Lavori Pubblici della Destra Storica dal 1873 al 1876, combattuta e persa in Parlamento per la soluzione della questione ferroviaria nel senso della nazionalizzazione. Osteggiata da una maggioranza trasversale segnò la fine di un quindicennio di potere della Destra storica. Di quel dibattito restano, attraverso gli scritti e i dibattiti di Spaventa nonchè il suo progetto di legge mai discusso né approvato, un’alta concezione dello Stato – che nel suo complesso risulta anche difficile condividere – con al centro però un’indiscussa priorità dell’interesse generale dei cittadini e dei contribuenti nella gestione, attraverso lo Stato stesso, di alcuni principali servizi pubblici. Parole che ancora, se riviste e aggiornate, possono fornire buoni argomenti sia contro i dogmi ordoliberali che contro le peggiori derive del neoliberismo. 

Ma erra grandemente, a mio giudizio, chi vorrebbe togliere al governo l’amministrazione propria di alcuni grandi e generali interessi pubblici, dove la partecipazione più o meno insindacabile de’ privati cittadini si risolve, sempre, nell’arricchire i pochi e nell’immiserire i più. Bisogna guardarsi dal culto di certi principi astratti, che riescono, in ultimo, a questa conseguenza: che, quando si tratta degli interessi di tutti, il governo non deve far niente; e, quando si tratta degli interessi di pochi, esso è indotto a fare, a spese di tutti, ogni cosa. E di queste anomalie e incongruenze abbondano gli esempi [da una lettera Agli elettori di Bergamo, in La politica della Destra. Scritti e discorsi, raccolti da Benedetto Croce, Laterza, 1910].

Giorgio De Girolamo è studente di Giurisprudenza all’Università di Pisa.

Ferdinando Pezzopane studia Scienze Internazionali, dello sviluppo e della cooperazione presso l’Università degli Studi di Torino, è attivista del Collettivo di Comunicazione Chrono.

8/10/2024 https://jacobinitalia.it/

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