Morte nel ghetto

Alle primissime ore del mattino di lunedì 27 giugno, è morto Yusupha Joof, carbonizzato durante un incendio mentre dormiva in una delle baracche dell’insediamento in Contrada Torretta Antonacci, nel cuore del Tavoliere delle Puglie a nord est di Foggia. Dopo 24 ore un altro incendio è divampato in un container allestito nell’area dell’ex Cara – centro richiedenti asilo – sito a Borgo Mezzanone (a sud est di Foggia), forse il più grande ghetto della Capitanata dove stazionano stabilmente duemila persone. Per fortuna nessuna delle nove persone che dormivano nel container è rimasta ferita. 

Come ogni anno, appena ricomincia l’estate solo le tragedie fanno riemergere all’attenzione dell’opinione pubblica le condizioni di lavoro e di vita al limite della schiavitù in cui versano migliaia di braccianti nel sud Italia così come in tanti altri territori della ormai decadente Europa, annosa culla di civiltà e di diritti.  

Rispetto al recente passato, la tempestiva presa di parola delle istituzioni non si concentra più unicamente nell’individuare nel caporalato il capro espiatorio più appropriato affinché la colpa di quanto succede possa accostarsi il meno possibile alle loro responsabilità politico governative. Questa volta, ad esempio, il presidente della Regione Puglia ha fatto riferimento alla questione abitativa, ovviamente elogiando il proprio operato e attribuendo le responsabilità ad altri livelli istituzionali. 

Sull’onda del dolore e dell’emotività degli avvenimenti, si prova a rendere opportuna qualsiasi dichiarazione che faccia riferimento a ipotetiche soluzioni, che le tragedie e i numeri dei ghetti ancora presenti in Puglia smentiscono assolutamente. La realtà dice che la pochezza degli interventi istituzionali non garantisce affatto abitazioni dignitose, trasporto pubblico e collocamento regolare. Non è un caso che lo sgombero del Gran ghetto di Rignano Garganico, risalente a marzo 2017, sia stata solo propaganda per poi essere rinominato Contrada Torretta Antonacci, dove è morto Yusupha.

Si tratta di una retorica in voga che fa il paio con l’impotenza nell’assistere alle consuete stragi nel mar Mediterraneo o, ultimamente, col massacro di decine di migranti alla frontiera di Melilla sulle coste del nord Africa, per il quale il premier spagnolo Pedro Sanchez si è schierato al fianco delle forze di polizia marocchine, individuando nel problema delle reti malavitose che gestiscono l’immigrazione clandestina la «ragion pura» per legittimare una strage, da derubricare a gestione ordinaria dell’ordine pubblico. 

Che siano gli scafisti assecondati dai «taxi del mare» delle Ong – così denominate nel 2018 dall’attuale ministro degli esteri italiano – i caporali nelle campagne o le bande malavitose, come definite dal premier progressista Sanchez in Spagna, questa narrazione si ripete e si rivela funzionale alla propaganda dei rappresentanti istituzionali. La realtà però è molto più articolata. Non neghiamo l’esistenza di questi fenomeni, spesso controllati dalla criminalità più o meno organizzata che ormai fa della tratta o delle agromafie una fonte di lauti guadagni e di controllo dell’economia di interi territori. Tuttavia il caporalato così come i faccendieri di migranti sono la conseguenza di politiche nazionali e internazionali di governo delle migrazioni che sostituiscono la salvaguardia e la tutela delle persone con uno stato di permanente colpevolizzazione verso i e le migranti. Le migrazioni forzate continuano a essere inevitabili a causa delle crisi ambientali, alimentari e delle guerre in corso. E continuano a essere gestite irregolarmente da una sponda all’altra del Mediterraneo, o date in appalto con lauti finanziamenti alle forze armate libiche o a un dittatore come Erdoğan. Prosperano per l’assenza di corridoi regolari, come invece è stato organizzato adeguatamente per l’accoglienza della popolazione ucraina colpita dall’invasione dell’esercito russo. Lo stesso vale per l’intermediazione di manodopera informale che continua a prosperare a causa dell’assenza di un’organizzazione del lavoro regolare (in questo caso nel comparto agricolo).

Da ormai qualche decennio le politiche migratorie sono pensate anche per deregolamentare il mercato del lavoro, che necessita di forza-lavoro usa e getta, funzionale alla produzione just in time, stagionale e a termine. La capacità del sistema economico e normativo vigente presenta un’alta ed eclettica capacità nel riprodurre diversi rapporti di dominio, sottomissione e violenza per favorire la concentrazione di potere e benessere nelle mani di pochi, a discapito del lavoro salariato tutelato, del diritto all’abitare e della redistribuzione delle ricchezze per tutte e tutti. Su questo solco il management delle politiche migratorie cambia le sue sfaccettature ma rimane intatto nella sostanza. In Italia, ad esempio, si sono alternati lungo una linea comune dagli anni Novanta dello scorso secolo ad oggi, Napolitano e Bossi, Maroni e Minniti fino a Salvini e Lamorgese. 

I più importanti paesi dell’Unione europea, grazie a leggi come la Bossi-Fini in Italia, continuano a far fronte a un’esigenza di fondo inderogabile: avvalersi di manodopera conveniente per livellare verso il basso le condizioni generali di lavoro di tutte e tutti, stranieri e nativi, e contestualmente mantenere la separazione, tutta politica, del lavoro migrante con il resto della forza-lavoro per evitare il più possibile il dissenso e per scongiurare qualsiasi piattaforma unitaria tra diversi soggetti.

Le istituzioni e le associazioni padronali ci riescono grazie a un quadro normativo che produce intenzionalmente condizioni di precarietà nei percorsi di accoglienza e regolarizzazione delle persone migranti, sempre più in bilico tra il diniego e il riconoscimento del permesso di soggiorno. Persone rinchiuse in ghetti formali (Cara, Cas, Hotspot) o informali, attraverso politiche di esclusione sociale (mancanza di servizi di base, della residenza, di un’abitazione) con l’intento di renderle sempre più vulnerabili, ricattabili. Persone in balìa dello sfruttamento informale o legalizzato nei vari settori dell’economia di mercato, di cui il Job Act varato dal governo Renzi ne è l’ultimo baluardo normativo istituzionale. Persone indispensabili per le economie occidentali che però, impossibilitate a circolare liberamente in Europa con un regolare permesso di soggiorno, alimentano flussi migratori invisibili, innescando sacche di continuo business, tratte di esseri umani.

Facile, quindi, additare le responsabilità ai soli scafisti, ai caporali o ai trafficanti di vite umane. Questi sono il risultato del razzismo istituzionale dell’Europa dei mercanti e della finanza, dei processi di smantellamento del welfare pubblico. 

Davanti a questo sistema, il più delle volte i e le migranti che rivendicano la libertà di movimento fuori e dentro i confini dell’Europa (da Ventimiglia a Calais in Francia, da Lesbo in Grecia a Ceuta in Spagna), sono le stesse persone che continuano a lottare con coraggio contro lo sfruttamento nelle campagne e nei settori della logistica. Si tratta di lavoratori e lavoratrici che rivendicano alloggi dignitosi e trasporto regolare per raggiungere il posto di lavoro: un problema la cui soluzione è di competenza dei datori di lavoro, come previsto dalle linee guida nazionali e dai contratti provinciali agricoli. Una prerogativa che, in caso di negligenza di questi ultimi, spetta alle amministrazioni regionali competenti. Una ragione in più a dimostrazione dell’ipocrisia del presidente della Regione Puglia con le sue lacrime da coccodrillo per la morte di Yusupha. 

I lavoratori delle campagne che, col supporto del sindacalismo di base e sociale, continuano a rivendicare diritti e salari dignitosi; continuano a rendersi protagonisti di mobilitazioni, sit-in, scioperi, incontri con le istituzioni. Dopo lo sciopero bracciantile dell’estate del 2011 in Salento, nell’agosto del 2016 ne è stato organizzato un altro. Questa volta nella zona industriale di Foggia dove per ben 8 ore centinaia di lavoratori hanno bloccato i cancelli della Princes, multinazionale di trasformazione del pomodoro. Manifestare davanti a uno degli anelli della catena della produzione del cibo, ha significato denunciare il ruolo centrale delle grandi imprese del comparto agroindustriale, ossia la Gdo (grande distribuzione organizzata) nell’utilizzare sfruttamento e razzismo per accumulare profitti a discapito delle condizioni di vita da schiavi dei braccianti. 

Lo stesso, dall’autunno scorso, sta accadendo a Campobello di Mazara in Sicilia, quando la morte di Omar Baldeh, bruciato vivo mentre dormiva nella sua baracca, ha portato centinaia di braccianti a organizzarsi e aprire una vertenza con le istituzioni locali. 

A seguito della conflittualità sociale in corso da anni nel nostro paese, le istituzioni competenti non solo hanno avuto la possibilità di conoscere nei dettagli i processi e i meccanismi della filiera sporca del cibo, ma ormai conoscono bene anche le proposte da parte dei diretti interessati per garantire casa, trasporti e documenti. Insieme ai percorsi conflittuali e vertenziali, tante e diverse sono anche le soluzioni praticate dagli stessi protagonisti delle lotte. Soluzioni che devono diventare patrimonio comune diffuso e rivendicazione quotidiana estesa anche alle realtà sindacali e associative coinvolte nel mondo dello spreco alimentare, dei beni comuni, del welfare mutualistico: residenza e permesso di soggiorno europeo incondizionato; collocamento, servizi per l’impiego e contratti regolari; una riforma radicale della Politica agricola comunitaria (Pac); utilizzo di fondi pubblici e prelievo fiscale dalle imprese del settore agroalimentare ed edilizio per il recupero e riuso di immobili pubblici abbandonati da adibire a scopo abitativo per i lavoratori e le lavoratrici delle campagne; una gestione diretta e regolare del trasporto da parte di associazioni dei lavoratori e delle lavoratrici stesse, attraverso l’utilizzo di mezzi pubblici idonei e sicuri. 

Un’esperienza virtuosa proveniente da una lotta autorganizzata per il diritto ai documenti, all’abitazione e all’inclusione socio-lavorativa è quella di Villa Roth, un immobile di proprietà pubblica nel rione san Pasquale di Bari. Nel 2015 dopo una lunga vertenza tra persone provenienti dall’Africa sub sahariana e il Comune, quest’ultimo ha assegnato direttamente a lavoratori e lavoratrici migranti la struttura a scopo abitativo. Da sette anni a Villa Roth vivono in autogestione persone migranti e native, quest’ultime in attesa dell’assegnazione della casa popolare. A seguito di un negoziato tra le parti è stata concessa la residenza agli e alle abitanti che ha permesso loro il rinnovo del permesso di soggiorno. Questo significa poter accedere ai servizi pubblici di base, poter esigere un regolare contratto di lavoro, aprire un conto in banca: semplicemente vivere, non sopravvivere. Col tempo Villa Roth è diventata una casa autogestita aperta e solidale verso chi diritti ancora non ne ha, con uno sportello di autodifesa sindacale gestito dalla stessa comunità abitante e affiliato all’associazione sindacale FuoriMercato. Si tratta di luoghi che creano comunità e solidarietà reciproca, incubatori di attività economiche mutualistiche, di filiere agroalimentari alternative e fuori dalle logiche dell’economia di mercato capitalistica. Da qualche settimana la Comunità abitante, col supporto dell’Osservatorio popolare per i beni comuni, ha lanciato una raccolta fondi per la riqualificazione degli spazi interni di Villa Roth affinché un immobile pubblico che garantisce il diritto all’abitare possa continuare anche a mantenere la sua bellezza architettonica. 

In giro per tutta l’Italia abbiamo bisogno di tante Villa Roth, da disseminare sia in campagna che in città. Così la rabbia e il dolore per Omar, Yusupha e per i tantissimi fratelli morti di sfruttamento, razzismo e di apatia istituzionale in questi anni, farebbe posto a una società più umana e solidale. 

Gianni De Giglio è promotore di Solidaria/SfruttaZero e attivista di FuoriMercato, autogestione in movimento. Ha conseguito il dottorato in Economia e Diritto all’università di Bologna, lavora nell’ambito delle politiche attive del lavoro

5/7/2022 https://jacobinitalia.it

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