MORTI DI LAVORO: PERCHE’ TANTO STUPORE ?

Prima di entrare nel merito, si impone una premessa, visto che dedicherò molto spazio al possibile ruolo dei servizi di prevenzione e vigilanza delle aziende USL (li chiamerò SPSAL all’emiliana, per brevità, ma intendo i PISSL, gli SPISAL, le UOTSSL, ecc.) : occorre esplicitare un elemento che cozza contro quello che nella vulgata comune è considerato un dato di fatto certo ed acquisito,  ovvero che il problema degli infortuni sul lavoro si risolve potenziando, quali- e quantitativamente, le attività di vigilanza degli organi preposti (mettiamoci pure anche l’Ispettorato del Lavoro). In realtà, che quello che gli SPSAL possono fare è operare  solamente sul terreno della riduzione del danno (per usare un termine mutuato dagli interventi sulle tossicodipendenze …). Con questo intendo dire che il problema “di salute” (e sicurezza) è sistemico e strutturale , mentre l’intervento degli SPSAL si gioca nel campo della “sanità” , e quindi può intervenire solo limitatamente sulla reale e drammatica realtà del fenomeno della mancata tutela della salute nei luoghi di lavoro. Ciò naturalmente non vuol dire che si debba dare per persa la battaglia, o che il lavoro degli SPSAL sia inutile ed irrilevante, vuol dire avere la chiara percezione della limitatezza (per non dire marginalità) del ruolo degli SPSAL ed avere il coraggio e l’onestà intellettuale di esplicitarlo apertamente, anche per non illudere i nostri interlocutori (dico ancora “nostri” perché mi sento ancora parte della comunità degli operatori) e per non ritenere risolutivi tutti gli interventi migliorativi  giustamente e puntualmente individuati in diversi documenti della SNOP, della CGIL medici, dei sindacati, ecc. : magari si riuscisse a conseguire anche solo una parte degli obiettivi che essi traguardano

Parlavo di un problema sistemico e strutturale : come può la prevenzione nei luoghi di lavoro funzionare in un contesto come quello italiano attuale, caratterizzato da tre pilastri: il profitto (che è rimasto come unico o principale valore di riferimento per le scelte personali, imprenditoriali e politiche),l’illegalità ,diffusa, determinante, pervasiva, e la  negazione dei diritti? Perché dovrebbe “reggere” e magari svilupparsi la prevenzione, che ha  dei costi, privati e pubblici, che presuppone la legalità, che tutela dei diritti ?  Il problema è per l’appunto sistemico, come ben chiariva uno dei migliori articoli su questo tema comparsi negli ultimi mesi sulla stampa, l’editoriale di Ezio Mauro sulla Repubblica del 9 agosto (“Lo scandalo della democrazia”).Non ha senso pensare di poterlo risolvere con interventi parziali o estemporanei. Tra l’altro, nel  sentire comune e nell’opinione corrente (a parte l’indignazione lacrimosa quando sono colpite giovani donne con figli piccoli …) non c’è biasimo sociale e disprezzo per chi, non rispettando le norme e non garantendo la sicurezza, mette a repentaglio la vita o la salute dei lavoratori. Basterebbe un decimo del biasimo sociale che si riserva ai pirati della strada … o basterebbe che le associazioni datoriali non avessero tolleranze e atteggiamenti di aprioristica protezione e tutela nei confronti dei loro associati che hanno comportamenti scorretti, o quantomeno distratti e superficiali, su sicurezza e prevenzione.

Quando si pensa di risolvere o controllare il  problema con la miglior formazione alla sicurezza dei lavoratori e con il potenziamento delle attività di vigilanza e controllo delle strutture pubbliche preposte (le due misure che sono spesso presentate come la panacea di tutti i mali) non ci si rende conto dell’assoluta limitatezza di queste due proposte se prese isolatamente : esse infatti, pur facendo riferimento a due attività fondamentali  ai fini della sicurezza e prevenzione, sono di per sé sole del tutto inadeguate a fronte della drammaticità della situazione (in termini sia di infortuni che delle malattie professionali), sono, potremmo dire, condizioni necessarie ma non sufficienti. Proviamo quindi a individuare le condizioni di base irrinunciabili per avere buoni livelli di sicurezza sul lavoro ,nella logica che quanti più requisiti sono garantiti e realizzati, tanto più è probabile che si realizzi un efficace decremento delle patologie da lavoro e degli infortuni, tenendo conto che ogni gruppo di requisiti è di per sè necessario, ma non sufficiente.

1 – Un atteggiamento “etico” delle imprese, in cui il benessere e la sicurezza dei lavoratori non siano l’ultima (o quasi) delle variabili dipendenti, ma siano viceversa uno degli obiettivi fondamentali (cominciamo bene , muovendoci sul terreno dell’utopia!),andando ben oltre il semplice concetto di legalità che dovrebbe essere il minimo garantito in un paese civile (già il collocarsi in un atteggiamento concreto  di legalità è un forte atteggiamento etico),ovviamente non solo per la sicurezza, ma anche per la regolarità del lavoro ed il rispetto dei diritti contrattuali, previdenziali, assicurativi, ecc. ; tale atteggiamento potrebbe essere favorito da un sistema premiale forte e determinante(sugli aspetti assicurativi, di contratti con la PA, di immagine),che incentivi le imprese ad aderire comunque a modelli virtuosi di organizzazione orientati alla sicurezza e prevenzione, così da integrare il (patetico?) richiamo a codici etici con un più concreto approccio a vantaggi  finanziari, sia nei termini di incentivi che di risparmi. Ma anche da interventi “dissuasivi” (es. la più volte citata “patente a punti”) e da un modo rigoroso di procedere in sede giudiziaria nei confronti che non rispetta le normative e provoca o permette che si verifichino eventi avversi a carico dei lavoratori, veloce nello svolgimento dei procedimenti e con l’assoluta certezza della pena … il che come deterrente non fa mai male (ed è il bastone che integra e riequilibra la carota del sistema premiale). Da più voci, a questo proposito, viene proposta l’attivazione di nuclei giudiziari specializzati nelle procure e/o di un momento di coordinamento nazionale sul tema.

2 – Un sistema organizzativo del lavoro (calibrato in base al tipo di produzione o servizio fornito, alla tipologia del lavoro, alle dimensioni aziendali, alla tecnologia disponibile) che assuma la prevenzione nel ventaglio delle variabili indipendenti, declinandola nelle forme più adeguate (valutazione dei rischi, definizione e realizzazione degli interventi, monitoraggio e revisione delle procedure, definizione di un cogente sistema di responsabilità, modalità di coinvolgimento e motivazione dei lavoratori, ecc.). Altrettanto necessaria è una buona qualità complessiva e certificata di tutte le figure professionali che affiancano i decisori ed organizzatori delle imprese per ciò che attiene alla sicurezza e igiene del lavoro (responsabili e addetti dei servizi prevenzione e protezione, medici competenti, consulenti, legali, formatori, commercialisti), dove per buona qualità si intende non solo quella tecnico-professionale, ma anche la comprensione del ruolo, l’autonomia e onestà intellettuale, la capacità relazionale con tutti i diversi personaggi dell’impresa (e chi non opera correttamente dovrebbe essere, senza se e senza  ma, escluso dal “mercato”)

3 – Un modello partecipativo e di coinvolgimento dei lavoratori e dei loro rappresentanti, in cui essi possano porsi in termini di collaborazione e confronto, ma anche dissenso e conflitto in ordine a tutte le problematiche di igiene e sicurezza del lavoro, inclusi ovviamente gli aspetti legati all’organizzazione del lavoro (anche perché oggi la maggior parte degli infortuni, più che a carenze intrinseche o strutturali delle macchine, impianti, locali, ecc.,appare legato ad aspetti organizzativi e procedurali : per esempio, modificare una macchina sicura, riducendone i meccanismi protettivi, per velocizzare la produzione o ridurre i tempi morti). Precondizione per un ruolo reale e non meramente simbolico o formale dei lavoratori e loro rappresentanti (penso in particolare, è ovvio, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza)  sono da un lato un efficace supporto degli  SPSAL, dall’altro la certezza di non subire rappresaglie di alcun tipo.

4 – Un sistema di formazione efficace, concreto, costantemente aggiornato e verificato nella sua efficacia, che parta dai dirigenti, dai quadri intermedi, dai vari preposti per estendersi poi ai lavoratori tutti, tenendo conto delle esigenze e peculiarità dei lavoratori (per citare la cosa subito evidente, il problema della lingua e della comprensione) e tenendo conto delle modalità con cui si svolge la prestazione lavorativa (lavoro a tempo indeterminato ? lavoro a tempo determinato ? lavoro stagionale ? lavoro a chiamata ? lavoro saltuario ? ecc.)

5 – Infine un sistema diffuso ed efficace di vigilanza e controllo da parte delle strutture pubbliche preposte, che sia in grado di garantire (o minacciare?dipende dai punti di vista) una buona probabilità per le imprese di essere controllate e verificate (anche sulla base di una programmazione sostenuta e validata da specifici flussi informativi), una coerente e rapida risposta alle richieste dei lavoratori e dei loro rappresentanti, una specifica attenzione all’esame preliminare di nuovi insediamenti e ristrutturazioni con possibilità di emettere pareri vincolanti, una tempestiva capacità di intervenire in caso di infortuni e/o malattie professionali (anche con indagini epidemiologiche e piani mirati ad hoc),con un buon livello di qualità tecnico-scientifica dato anche dall’inter- e pluri-disciplinarietà, da adeguati standard di personale, da modalità organizzative del lavoro flessibili e trasparenti, dal riferimento a linee guida riconosciute e a procedure standardizzate che garantiscano pari condizioni sul territorio nazionale di controllo e trattamento (meglio supportate e realizzate da adeguate e validate linee guida e da una efficace rete informativa comune piuttosto che da improbabili ritorni a modalità operative del passato, come la nuova creazione di un ispettorato del lavoro nazionale centralizzato).

Adesso non resta che tirare le fila : oggi, in Italia, quanti e quali di questi requisiti sono rispettati e praticati? Non intendo rispondere io, credo che ogni persona che ha avuto la pazienza di leggere queste mie brevi (e di conseguenza poco approfondite) note, sia in grado di rispondere da sé, e di arrivare ad una conclusione. Tra l’altro, tutti questi requisiti sono diversamente intrecciati tra loro e si influenzano a vicenda, e tutte le situazioni economiche, politiche, sociali, interferiscono: solo per fare un esempio,la precarietà del lavoro ed il lavoro nero interferiscono con la formazione, col coinvolgimento dei lavoratori, con l’attività degli organi di vigilanza (cui si ricorre molto meno che in passato per tutelare i diritti). In questo clima di pessimismo cosmico, si può almeno provare a ripartire proprio dal sistema diffuso ed efficace di vigilanza e controllo da parte delle strutture pubbliche preposte, senza mai dimenticarci però che i servizi, con il loro ruolo e le loro attività  non sono l’ombelico del mondo della prevenzione, ma sono solo uno dei tanti agenti in campo, forse nemmeno il più importante.

E, per finire con una nota divertente, vorrei riprendere una dichiarazione di un autorevole personaggio pubblico ed istituzionale comparsa sui giornali qualche tempo fa. 

Sul Manifesto del 30 settembre , a proposito degli infortuni mortali sul lavoro, è riportato che Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, chiede al governo di attivare interventi che (virgolettato) “facciano in modo che gli incidenti non avvengano”. Se il Presidente di Confindustria ha davvero detto così, si tratta di un notevole exploit di umorismo involontario. Chi si occupa di infortuni sul lavoro e di malattie professionali (e io lo ho fatto per anni, nella mia veste di ex-responsabile del Servizio Prevenzione e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro dell’ASL di Bologna) sa benissimo che la quasi totalità degli infortuni sul lavoro (mortali e non) e la pressoché totalità delle malattie professionali discende da carenze organizzative aziendali (che possono riguardare la valutazione dei rischi,  le macchine, gli impianti, i prodotti utilizzati, le procedure di sicurezza, la formazione dei lavoratori, i sistemi interni di vigilanza e controllo, l’attribuzione ai lavoratori di compiti compatibili con le loro competenze professionali e le loro condizioni fisiche, i dispositivi di protezione individuale, le opere provvisionali, ecc.). Ebbene, da chi dipende l’organizzazione del lavoro in un’azienda ? Mi pare che dipenda dal datore di lavoro (privato pubblico, grande o piccolo che sia) e dalla gerarchia aziendale, e credo che il dr. Bonomi sia d’accordo … Allora, mi chiedo, chi è che deve fare in modo “che gli incidenti non avvengano” ?

Leopoldo  Magelli,

past-President SNOP

22/2/2022 http://www.diario-prevenzione.it

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