Morti sul lavoro e danni ambientali
Nel 2021, in Italia, ci sono stati 1.404 morti sul lavoro. La fragilità delle condizioni di lavoratori e lavoratrici è quanto mai accentuata, e i primissimi giorni di ripresa post pandemica hanno posto un serio problema circa la responsabilità delle imprese: un caso tra tutti, particolarmente emblematico, è stata la morte di Luana D’Orazio. La ventiduenne è deceduta a causa di una manomissione dell’orditoio presso il quale svolgeva la sua attività: i titolari della ditta avevano deciso di bypassare una serie di norme di sicurezza per aumentare i ritmi di produzione. Dell’8%, secondo i periti, tanto è valsa la vita della giovane mamma lavoratrice.
Si tratta di un caso eclatante, tutt’altro che unico. L’inizio del 2022 ci ha già consegnato la tragica vicenda della morte di Lorenzo Parelli, diciottenne di Udine, schiacciato da una lamina d’acciaio l’ultimo giorno di stage nell’ambito del suo percorso di formazione professionale.
Le imprese violano diritti umani e ambiente
Le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici, in Italia come in Europa e nel mondo, sono troppo spesso subordinate alle logiche del profitto, con pochi argini o meccanismi di monitoraggio insufficienti.
Il report Global Estimates of Modern Slavery: Forced Labour and Forced Marriage prodotto dall’International Labour Organization (ILO) ci dice che nel 2016 erano più di 40 milioni le persone sotto “moderna schiavitù”; quasi 25 milioni quelle coinvolte in lavori forzati.
La media è di 5,4 lavoratori ogni 1.000 persone; 1 su 4 è un minore tra i 5 e i 17 anni. 16 milioni di persone sono letteralmente schiavizzate nel privato: dal lavoro domestico all’agricoltura e all’edilizia.
Accade con le imprese multinazionali o transazionali, che sfuggono alle maglie delle legislazioni nazionali dei singoli Stati, ma accade anche con le imprese capofila di filiere sulle quali non prestano – colpevolmente – attenzione.
Lungo tutte le catene di fornitura, dall’estrazione di risorse alla produzione, alla distribuzione, c’è in genere un rimando di responsabilità che non consente di individuare chi deve rendere conto di determinate violazioni.
Non si tratta soltanto di quelle relative alle condizioni del lavoro, ma anche degli impatti ambientali.
Nel 2019 il Guardian ha ripreso uno studio, condotto da Richard Heede per il Climate Accountability Institute negli Stati Uniti, secondo il quale appena 20 imprese sarebbero responsabili del 35% delle emissioni climalteranti globali a partire dal 1965. E le responsabilità ambientali non si fermano ai cambiamenti climatici. Se i cittadini di Taranto contano i morti legati all’ex-Ilva, quelli veneti fanno i conti con sostanze chimiche (Pfas e Pfoa) entrate nella catena alimentare e ora presenti nei loro corpi, derivanti dalla produzione di una fabbrica, la Solvay. Da Nord a Sud, il nostro paese è costellato di storie di contaminazioni ambientali che hanno drammatiche conseguenze sanitarie, e sono tutte legate a scelte imprenditoriali precise: emissioni di sostanza velenose, scarichi e smaltimenti illeciti di rifiuti ma anche mancanza delle minime procedure di sicurezza.
Il colosso del petrolio nazionale, ENI, è stato più volte implicato in vicende del genere, con sversamenti di sostanze inquinanti che hanno compromesso molto spesso i territori su cui i suoi impianti sono insediati.
L’elenco potrebbe essere ancora molto lungo, ma serve soltanto a rendere materiale un dato: soltanto in Italia ci sono 42 Siti Nazionali (SIN) e più di 35.000 Siti Regionali (SIR) che devono essere bonificati a causa per lo più degli impatti delle attività industriali.
Serve monitorare le attività di impresa, in tutti i passaggi di filiera
L’istituzione di meccanismi di controllo e regolamentazione delle attività di impresa non è più prorogabile: il 23 febbraio la Commissione Europea ha emanato una proposta di Directive on corporate sustainability due diligence and annex, una Direttiva cioè che dovrebbe fare in modo che ogni azienda renda conto dei propri impatti, potenziali o accertati, diretti o di filiera. L’ambizione è quella di istituire una Due Diligence [dovuta dilegenza], un meccanismo interno cioè di prevenzione, risoluzione e monitoraggio degli impatti su diritti umani e ambiente di tutta la filiera.
Il nodo della filiera e delle certificazioni del lavoro è fondamentale: spesso grandi marchi si affidano, nelle proprie catene di approvvigionamento, a imprese che non rispettano gli standard minimi in termini di sicurezza sul lavoro, di tutela ambientale o di tutela dei diritti di lavoratori e lavoratrici.
È il caso della Kik Textilien und Non-Food GmbH, controllata della holding Tengelmann Group, grande catena di abbigliamento tedesca che conta più di 3.000 negozi in Europa e più di 30.000 dipendenti. Gran parte della produzione non avviene in Europa ma in stabilimenti situati in paesi con condizioni maggiormente favorevoli. Uno tra questi era la Ali Enterprise, fabbrica tessile in Pakistan dove, l’11 settembre 2012, c’è stato l’incendio che ha provocato più di 250 vittime e decine di feriti tra i lavoratori. La vicenda è particolarmente emblematica: appena tre settimane prima la fabbrica aveva ottenuto una certificazione di sicurezza (SA8000, Social Accountability International) da parte di RINA SPA, società di consulenza italiana (partecipata dal Ministero della Mobilità Sostenibile) che si occupa di classificare, ispezionare e certificare lo stato di agibilità delle imprese in tutto il mondo. La RINA, però, non ha mai verificato realmente le condizioni della fabbrica, subappaltando a sua volta i controlli alla società pakistana RI&CA. Il monitoraggio effettuato da quest’ultima ha omesso molte irregolarità, certificando come sicura una fabbrica in cui mancavano le porte antincendio e il sistema d’allarme, in cui c’era una sola uscita di sicurezza per più di mille lavoratori, con le porte sbarrate, e numerose altre violazioni. Secondo una ricostruzione dell’incendio, commissionata dallo European Center for Constitutional and Human Rights alla Forensic Architecture, se le infrazioni della fabbrica fossero state segnalate e corrette per l’assegnazione della certificazione di sicurezza, il numero delle vittime dell’incendio sarebbe stato notevolmente più basso.
Quante vite si sarebbero salvate se i controlli fossero stati effettuati in modo efficace? E se l’impresa capofila fosse stata obbligata per legge ad assicurarsi che le fabbriche in cui si producevano i propri prodotti fossero sicure?
Regole urgenti, ritardi preoccupanti
L’intervento è invocato a gran voce e, proprio in Italia, con una certa urgenza. Il 6 ottobre, alla conferenza stampa di chiusura della visita del working group delle Nazioni Unite che si occupa proprio di imprese e diritti umani, i delegati si sono detti sconcertati per lo stato di avanzamento nazionale sulle questioni: «Siamo scioccati – ha commentato il professor Surya Deva, membro della commissione – dal livello di sfruttamento sul lavoro in Italia. Parliamo di un paese avanzato e industrializzato, in cui la perdita di vite umane sul lavoro non è accettabile. Lo stesso vale per i conflitti ambientali, le imprese sembrano essere sorde rispetto alle richieste dei territori e non riescono a mantenere un contatto con quello che accade nella realtà». Il gruppo ha avuto modo di visitare il paese per dieci giorni, nel corso dei quali si è recato presso svariati insediamenti problematici quali l’ex Ilva di Taranto, Foggia, Brindisi, Prato e la Val d’Agri. Al centro delle critiche, le condizioni del lavoro – soprattutto agricolo – e le gravi ricadute ambientali delle attività di industria.
L’urgenza di questi temi e di un intervento legislativo ha dato vita alla campagna Impresa2030 – Diamoci una regolata, lanciata lo scorso ottobre da dieci grandi organizzazioni della società civile: ActionAid Italia, Equo Garantito, Fair, Focsiv, Fondazione Finanza Etica, Human Rights International Corner (HRIC), Mani Tese, Oxfam Italia, Save the Children Italia e WeWorld Onlus.
La campagna non è un unicum: in Europa ci sono altre dieci campagne gemelle, in altrettanti Paesi, condotte da organizzazioni della società civile. Gran parte di esse si riconosce nella rete European Coalition for Corporate Justice (ECCJ), da tempo attiva sui temi della Human Rights Environmental Due Diligence (dovuta diligenza su diritti umani e ambiente).
Le richieste di intervento sono ampie e articolate, in gran parte si basano sui United Nations Guiding Principles on Business and Human Rights, ma possono essere sintetizzate in tre assi fondamentali: dovere degli Stati di proteggere da abusi e violazioni; responsabilità delle imprese di rispettare e far rispettare diritti umani e ambiente i tutti i passaggi della loro filiera; garanzia di accesso libero alla giustizia per le vittime di abusi.
In un quadro del genere, mentre alcuni paesi anticipavano interventi di controllo a livello nazionale, la discussione in Commissione ha subito numerosi slittamenti: attesa per giugno 2021, poi per ottobre, posticipata a dicembre e in ogni caso entro l’anno, è stata tenuta la scorsa settimana, mercoledì 23 febbraio, mentre i venti di guerra scuotevano il Vecchio Continente.
I motivi dei ripetuti rinvii non sono chiari, ma è impossibile non notare che la squadra interna di controllo qualità della Commissione Europea (Regulatory Scrutiny Board) abbia bloccato per due volte il progetto di legge sulle catene di approvvigionamento. Dalla sua creazione, nel 2015, l’organismo ha respinto per due volte soltanto due progetti di legge: la tassonomia sugli investimenti green e quello sulla parità di salari.
Il potenziale rivoluzionario della legge è chiaro, potrebbe mettere in discussione i criteri stessi con cui i Consigli di Amministrazione delle grandi aziende operano, e il timore condiviso è che proprio per questo l’iter potrà incontrare un percorso accidentato. Il testo presentato ha già ricevuto numerose critiche, al centro delle quali ci sarebbe un atteggiamento poco ambizioso da parte della Commissione.
Sotto la lente delle ONG innanzitutto l’efficacia della direttiva. Martina Rogato, coportavoce di Impresa2030, ha per esempio notato che «la proposta lascia ampi margini per aggirarla. Le grandi imprese, per esempio, potrebbero aggiungere nuove clausole di condotta nei contratti con i partner fornitori minori e, così facendo, liberarsi dall’obbligo di vigilanza trasferendolo a questi ultimi».
Deludente anche il piano delle limitazioni alle attività climalteranti delle imprese: secondo De Salvo, «la Commissione Europea vuole che le imprese adottino un piano di transizione climatica in linea con l’obiettivo di 1,5 gradi dell’Accordo di Parigi sul clima. Tuttavia, la proposta non prevede conseguenze specifiche per la violazione di tale obbligo».
Il problema sostanziale pare essere che la proposta, così come è elaborata, non garantisca l’accesso alla giustizia per le vittime di impatti ambientali o di violazioni dei diritti umani: «Non c’è alcun rimedio a una serie di fattori che spesso negano alle vittime di avere un equo processo – ha spiegato De Salvo – come il costo elevato delle spese legali, i termini di denuncia troppo brevi, un onere della prova sproporzionato rispetto alla forza delle controparti. Immaginate, per esempio, una comunità indigena nigeriana che accusa una multinazionale del petrolio».
«Questo progetto di direttiva – ha concluso Rogato – promette un percorso verso la giustizia e il risarcimento per le comunità e i lavoratori sfruttati, ma se non si rende più facile per le vittime citare le imprese in giudizio, è improbabile che faccia la differenza».
*Ufficio Stampa della campagna “Impresa2030 – Diamoci una regolata“
Rita Cantilino
17/3/2022 https://www.valigiablu.it
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