Movimenti, politica e salute
Seconda parte: alla ricerca delle dimensioni di un’insufficienza – di Luca Negrogno
Vi proponiamo la lettura della seconda parte dell’articolo di Luca Negrogno sul tema “Movimenti, politica, salute”. In queste pagine, l’autore si concentra su un’analisi dei limiti di vari tentativi di movimento sul tema della difesa della salute pubblica, sorti anche dietro spinta delle problematiche scoperchiate dalla sindemia e con riferimenti al caso bolognese. La prima parte è disponibile qui. Ricordiamo che l’intero testo è in corso di pubblicazione sulla rivista cartacea di Medicina democratica
2.1 I motivi dell’assenza di movimento
A partire dalle osservazioni svolte sul campo della salute mentale nella prima parte possiamo iniziare a spiegare l’attuale assenza di movimento con il fatto che non si sia statə in grado di elaborare una strategia capace di leggere le attuali contraddizioni del sistema. In primo luogo va fortemente sottolineata l’attuale incapacità di lettura della frammentarietà della composizione sociale che insiste sul terreno salute/sanità e nei processi complessivi in esso coinvolti. Questo è solo un elemento della più complessiva incapacità di lettura della composizione tecnica e sociale del lavoro di cura, e quindi di una conseguente assenza di elaborazione strategica che possa impattare questo terreno e quello della riproduzione sociale in generale. Se non riusciamo a collocare in un orizzonte unitario e interrelato i temi della riproduzione sociale, del welfare, del reddito, del genere, della disabilità, dell’intersezionalità delle forme di oppressione connesse a questi assi, non avremo un ambito di analisi in cui collocare anche i temi della salute e della sanità. In assenza di questo orizzonte non riusciamo a superare la frammentazione. Se pensiamo a questo orizzonte in modo unitario, vediamo prima di tutto che i lavori della cura sono estremamente stratificati e collocati su rigide gerarchie anche secondo forme di divisione internazionale del lavoro. Si va da ordini professionali con forte potere contrattuale e approccio corporativo, a un’infinità di lavoro nascosto, sottopagato, genderizzato, razzializzato, invisibilizzato. Tale frammentazione si è anche rinforzata attraverso la gestione necropolitica delle migrazioni; essa si è impiantata anche su singole esperienze di lotta e di emancipazione che, quando non sono riuscite a legarsi ad una tematizzazione politica più complessiva, hanno finito per allargare i divari tra gruppi professionali e segmenti sociali che solo ricomposti potrebbero porsi in una condizione d’attacco vincente (si pensi alla legge Iori che ha formalizzato le figure professionali educative o le nuove opportunità di carriera per i coordinamenti infermieristici – che spesso si risolvono nella riproduzioni di saperi meramente manageriali – o persino l’istituzione di registri regionali di “lavoratrici domestiche”, che hanno in molti casi amplificato le condizioni di informalità nel lavoro di cura a fronte di piccoli gruppi che ne risultano parzialmente tutelati). Se pensiamo anche solo al limitatissimo ambito della Sanità, è oggi difficile pensare ad una mobilitazione che riesca a tenere insieme, ad esprimere ed armonizzare le rivendicazioni possibilmente emancipatorie dellə medicə a partita iva che guadagna 800 euro a turno nel pronto soccorso dell’ospedale pubblico (che si giova dell’intermediazione di manodopera di una cooperativa sociale per coprirne i turni, dopo innumerevoli concorsi andati a vuoto per rispondere al fabbisogno di forza lavoro nel medesimo servizio – ma a condizioni più massacranti) e l’operatorə sociale che magari guadagna quegli stessi 800 euro dopo un mese di lavoro frustrante per la stessa cooperativa sociale, che nel frattempo svolge anche un servizio esternalizzato per il dipartimento salute mentale della stessa ausl o per la divisione disabilità del servizio sociale del comune, tra turni imprevedibili, “monte ore” che servono a non pagare straordinari, condizioni di “spirito cooperativo” che spesso collimano con mobbing e con la consapevolezza di fare un lavoro dichiaratamente di “inclusione sociale” quando in realtà la pratica quotidiana è fatta di mera assistenza e controllo, senza produrre alcuna relazione emancipatoria. Alle condizioni attuali di assenza di mobilitazione unitaria, abbiamo piuttosto una larga massa di giovani medicə che fa una vita allucinante accumulando turni e fatture (con cui potrà comprarsi le sostanze necessarie a lavorare a quei ritmi e per stordirsi tra un turno e l’altro), la piccola parte di quellə che danno una lettura minimamente politica del proprio ruolo che cerca di impegnarsi in innovazioni organizzative e professionali variamente compatibili con l’esistente, una ancora più piccola parte che opta per “le grandi dimissioni”, andando magari a fare militanza in un ambulatorio popolare; nel frattempo, i sindacati di base difenderanno quellə lavoratorə a 8oo euro al mese senza mettere minimamente in discussione il mandato quotidiano del lavoro e l’impianto epistemologico del sistema di welfare nel suo complesso, gli ordini professionali e le società scientifiche cercheranno di propagandare nuove forme di riconoscimento legale o accademico del valore delle professioni su tutti i livelli; il processo di dismissione delle vite di scarto continuerà, favorito dalla possibilità di accedere a sempre più vasti mercati informali della cura necropoliticamente genderizzati e razializzati.
9/6/2023
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