Mutualismo e forme di lotta

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Provvisorie conclusioni, nuove speranze. Ce n’est qu’un debut!

Circa un anno fa, quasi incuranti di quanto stava avvenendo in Cina, abbiamo sentito parlare del coronavirus e del salto di specie, abbiamo cominciato a conoscere un nuovo linguaggio già a partire dalla dichiarazione di pandemia globale redatta dell’OMS. Quarantena, distanziamento sociale, lockdown, accompagnati dagli hashtag: “io resto a casa” e “andrà tutto bene”, quest’ultimo slogan, tipico dei film americani, rivolto al morente prima di morire. Tutte frasi che si presentavano raffinate, ma che, da un lato, nascondevano all’intero paese (fermo a guardare in TV le conferenze stampa e i bollettini giornalieri della protezione civile) la realtà degli invisibili, mentre, dall’altro, esercitavano controllo sociale dentro lo stato di emergenza. Uno stato di emergenza che giustificava gli effetti della pandemia e, con essi, la paura e la speranza.

Poi, in pochissimo tempo, siamo sprofondati nella consapevolezza di un Paese fragile, particolarmente carente nel welfare, nei luoghi della salute e di tutela, nelle istituzioni di cura, nel lavoro, nell’istruzione. Tutti questi decisivi comparti della vita sociale sono stati falcidiati dai tagli, dalle privatizzazioni, dalla corruzione, dall’imperativo del profitto. Hanno drammaticamente pesato anni e anni di neoliberalismo, con la rincorsa parallela dei partiti di destra e dei partiti socialdemocratici ad ergersi a “partito del capitale”. È sotto gli occhi di tutti l’aumento esponenziale del divario tra gli interessi del sistema dominante e i bisogni delle classi popolari, un dato di fatto il crollo vertiginoso della fiducia nella politica e nelle istituzioni, questo proprio mentre l’aumento della precarietà, la stagnazione degli stipendi e l’impoverimento di intere aree territoriali ci consegna maggiore povertà.

Il Covid19 ha aperto il vaso di Pandora ed ha accelerato un processo più generale di cambiamento politico, economico e sociale. C’è chi afferma che abbiamo di fronte un rapido passaggio d’epoca, con le contraddizioni tra l’alto e il basso della società che si acuiscono e le ragioni della lotta che diventano ancor più ultimative: dalla necessità del reddito universale alla riduzione d’orario a parità di salario dai diritti di cittadinanza per tutte e tutti alla salvaguardia ambientale alla pace. C’è necessità, e forse anche spazio storico, di un agire politico che esplicitamente promuova l’uguaglianza tra gli esseri umani e la libertà delle persone, e che, quindi, getti le basi per una nuova umanità. Cent’anni fa Jean Jaurès ci ricordava che “l’umanità è qualcosa che esiste già e non esiste ancora”. Per noi che viviamo ormai nel XXI secolo, la “nuova umanità” non può essere più solamente un ideale, un progetto di senso, un fondamento di speranza; dobbiamo, invece, declinarla come concreta “pratica dell’obiettivo”.

E se non lo facciamo, se non ci riusciamo, l’alternativa diventa esattamente ciò che stiamo vedendo: l’insieme della società che inconsapevolmente sta cedendo alla barbarie. La rapida trasformazione antropologica degli ultimi anni ha già determinando un nuovo ordine culturale e nuove coordinate sociali, con la sequenza consumo–territorio–libertà-presente che tende a sostituire, almeno nei paesi più avanzati, la sequenza novecentesca di lavoro–politica–istituzioni–futuro. Si è determinato, in sostanza, il passaggio da una società globalmente orientata alla produzione a una società spasmodicamente protesa al consumo.

Tutta la sinistra ha mostrato obiettiva incapacità nell’affrontare questa convulsa transizione storica, mentre le destre l’hanno sapientemente assecondata, costruendo la narrazione della sostituzione etnica e l’attesa messianica del leader carismatico. Difatti, si sono già delineate precipitazioni similfasciste, con tanto di meme, trap music e consumo dei social in sostituzione della vita reale; come strumenti di irreggimentazione soprattutto per le nuove generazioni.

In questa condizione di sostanziale messa in mora dei diritti sociali, anche qui in Italia abbiamo recentemente assistito alle sommosse urbane che inneggiavano alla “libertà”. Nella sinistra di alternativa, non pochi hanno sperato che fossero segnali di ripresa del conflitto, mentre più complessivamente ci si è esercitati nel lavoro di comprensione delle ragioni della piazza, oltre la narrazione mainstream che ha parlato brutalmente di delinquenti e fascisti. Io credo che nel grido di libertà proveniente da quelle piazze, assieme a quel malessere sociale legato al lavoro precario dei dipendenti del terziario e delle partite IVA, c’erano corpose rivendicazioni politiche negazioniste (del tipo, no mask) e soprattutto una declinazione individualista della protesta, derivante dall’atomizzazione sociale del potere del consumo.
Quel grido di “libertà, libertà” indicava una voglia generalizzata di via libera al consumo e un desiderio di spazi liberati non tanto dalle istituzioni, quanto dalle complessive regole del vivere civile. Né più né meno che la ricerca dell’edonismo; quanto non direttamente la voglia dei guadagni e la difesa di uno status benestante. A ben vedere, sono stati momenti che hanno avuto poca rispondenza con la liberazione dal e del bisogno.

In ogni caso, anche quelle piazze spurie e contraddittorie ci possono aiutare a riflettere sulla fase e sulla prospettiva.
Ma la riflessione deve cominciare dal fatto che il Covid19 non è tanto una pandemia quanto una sindemia, cioè una epidemia che si intreccia con vissuti clinici strettamente legati allo status sociale. Solo un approccio sindemico rende vero il significato della malattia, in quanto non mette in luce solo il rapporto con l’agente infettante ma la condizione di salute complessiva, la quale è fissata a monte del contagio e dipende molto dai fattori economici e dalla collocazione sociale. Come giustamente sottolinea Richard Horton, direttore dell’autorevole rivista scientifica “The Lancet”: “La conseguenza più importante di inquadrare Covid-19 come sindemia è quella di sottolineare le sue origini sociali. La vulnerabilità dei cittadini più anziani, delle “minoranze etniche”, nonché dei lavoratori necessari che sono in genere mal pagati e hanno meno protezioni sociali, sottolinea una verità che è stata finora a stento riconosciuta – e cioè che non importa quanto sia efficace un trattamento o sia protettivo un vaccino, la ricerca di una soluzione puramente biomedica al Covid-19 non avrà successo. A meno che i governi non individuino politiche e programmi per invertire le profonde disparità sociali oggi esistenti”

In verità, noi, nelle nostre riflessioni lo abbiamo detto fin dall’inizio che il virus circola soprattutto dove vi è maggiore affollamento produttivo e colpisce esattamente le fasce più deboli. Di qui, il nostro intervento sul diritto alla salute e la sanità pubblica, ma anche sulla chiusura delle attività produttive non necessarie e sulla sorveglianza sanitaria nei luoghi di lavoro. Di qui anche la rivendicazione del reddito e del diritto alla casa contro gli sfratti e gli sgomberi.

Abbiamo soprattutto ripreso le nostre pratiche sociali. A Torino, a Roma, nelle città venete e lombarde e ovunque siamo storicamente presenti con concrete attività di sportello sociale, il Covid non ci ha fermato. Le nostre pratiche hanno preso, in parte, forma virtuale, con numeri attivi per le consulenze e per le emergenze sui diritti. Nelle regioni del Sud si è dato vita anche a reti virtuali di consulenze mediche, e un po’ ovunque abbiamo reso operative le consulenze psicologiche a distanza. Poiché siamo ben consapevoli che l’Italia non è il paese del Mulino Bianco, ma delle diseguaglianze sociali nascoste sotto il tappeto dal governo, abbiamo incentivato soprattutto il lavoro sul campo, attraverso forme di volontariato per la spesa solidale e l’assistenza alle fasce più deboli, tentando di agire sulle sofferenze sociali legate alla diffusione del virus.
Al tempo stesso, non abbiamo dismesso neppure per un attimo la nostra critica al sistema capitalistico e alla logica del profitto.
Del resto, veniamo da più di un decennio di austerità e di tagli alla spesa sociale, e ciò ha pesato molto nell’inadeguatezza della risposta al virus e la sciagurata regionalizzazione di interi settori e la privatizzazione di pezzi importanti del welfare pubblico si sono riversate come macigni su intere fasce di popolazione, oggi ancora più prive dei diritti universali di cittadinanza. Non a caso, nel convegno sul mutualismo e pratiche sociali che abbiamo tenuto il 29 novembre è stata posta la necessità di lanciare un manifesto politico-programmatico sul terreno complessivo del welfare e della sfera della riproduzione sociale. L’obiettivo la piena riappropriazione dei beni comuni e dei diritti negati da parte delle classi popolari per il cambiamento.

In sostanza, le idee non ci mancano. Ma abbiamo la forza per farle diventare prassi effettiva? Siamo davvero all’altezza delle nuove sfide in termini di lotte, vertenze e conflitto sociale? Saremo capaci, in questa distopica realtà, di passare dalle tristi passioni (e/o convinzioni) a nuove e vive speranze? La nostra storia rende problematica la risposta a simili interrogativi. Troppo spesso nel XX secolo, ma anche in questo avvio di XXI secolo, i comunisti ci sono caratterizzati per una sorda incomprensione dei passaggi di fase.

Ma non è solo questione di comprensione della reale fase storica in cui siamo immersi. La nostra debolezza politica è un dato evidente e ci accompagna purtroppo da tempo. Nonostante diciamo cose buone e giuste, sempre presenti con le nostre bandiere nelle piazze e nei presidi convocati di qua e di là; e nonostante le giuste rivendicazioni che avanziamo e la puntuale critica al capitalismo che esprimiamo, non siamo percepiti come un luogo significativo delle vicende italiane. Non siamo visti come un soggetto capace di produrre cambiamento, non riusciamo ad essere presenza viva nella quotidianità di studenti, lavoratrici, pensionati, precari, disoccupati. Il nostro progetto politico, le nostre parole di riscatto sociale non producono suggestione tra le persone.

Come reagire a queste enormi difficoltà? Io credo che in un contesto in cui l’apatia soppianta facilmente la partecipazione, è forse arrivato il tempo di pensare le domande prima ancora delle risposte. Ed occorre sapere che sono proprio le domande le cose più difficili da costruire, perché implicano un cammino effettivamente accidentato di “ricerca” e non semplicemente di “discussioni”, ed impongono di procedere con meno certezze e più attitudine al cambiamento. Non è che dobbiamo fare miracoli, ma occorre decidersi ad affrontare il momento di crisi che attanaglia la proposta anticapitalista, ripartendo dalla fatica della ricerca, della critica e del confronto. Se non faremo questo, saremo condannati alla semplice denuncia delle ingiustizie. E sappiamo bene che denunciarle non equivale affatto a cancellarle.

Non possiamo cedere anche noi al sonno della ragione, che sta producendo il sostanziale suicidio intellettuale della società, dando l’illusione di continuare ad esser vivi. Abbiamo bisogno di indicare un orizzonte e dobbiamo organizzare le forze per determinarlo. La rivoluzione del pensiero è il requisito fondamentale perché il “noi collettivo” svolga la sua funzione storica, perché agisca prima che l’andamento spontaneo delle cose ci spazzi via assieme alla socialità amichevole che chiamiamo comunismo. Insomma: lavorare in profondità proprio su noi stessi, sul nostro bagaglio culturale, depositando più coraggio nell’idea del cambiamento. Ci sono momenti in cui la prudenza genera effetti peggiori dell’imprudenza.

Dobbiamo ripensarci globalmente in Partito Sociale, immettere direttamente nella nostra militanza pratiche reali di resistenza e trasformazione sociale. Penso, in breve, ad un risveglio delle coscienze tra resistenza e mutualismo, un fare società attraverso le comunità solidali, i luoghi di conflittualità sociale. Luoghi di contropotere; ma soprattutto luoghi di costruzione di un nuovo umanesimo.

Per far questo è necessaria una vera e propria metamorfosi del corpo collettivo, chiamato a passare dalla coscienza separata, ognuno per sè, alla coscienza collettiva che mette in campo idee costruttive. Non è più possibile vivere nella nostalgia del passato. Dal passato dobbiamo trarre i migliori insegnamenti di prassi rivoluzionaria, lasciandoci alle spalle le strutture puramente organizzative e senza società. “I disastri – afferma Slavoj Žižek – possono diventare catalizzatori di cambiamenti sociali e politici significativi e sorprendenti.”

In sintesi: puntare ad essere Partito Sociale, e organizzare una nuova sinistra sociale, declinata in forma di Confederalità sociale e capace di portare in sé tutto il vasto pluralismo di esperienze, e culture e prassi sociali che vediamo all’opera attorno a noi. Nel rispetto delle diversità, con uno sforzo di inventiva e sperimentazione per ricominciare insieme, recuperando credibilità politica e sindacale. Rovistare nel passato perché esperienze politiche e sociali lontane possono darci ricette utili per il presente, per una “confederazione politica dell’iniziativa sociale” per rompere la frammentazione e l’isolamento che contraddistinguono il mondo contemporaneo e far argine vero, nella società e non solo nei discorsi, contro la barbarie, l’individualismo e la solitudine. Dobbiamo far perno sulla potenza dell’essere in comune, sul mutuo aiuto, sui sentimenti di solidarietà, promuovendo luoghi di relazione reciproca e circolare, di supporto tra le lotte, di sostegno reale alle situazioni di difficoltà delle lavoratrici e dei lavoratori, la costruzione, quindi, di contropotere.

Il Partito Sociale, dunque. Non come una delle tante articolazioni della Rifondazione Comunista, ma come essenza, come soggettivazione storica che ha “il popolo come fine”, e il “far da sè solidaristico” come principio. E che su tali basi sostiene e sviluppa conflitto sociale e lotta di classe. Un qualcosa, insomma, che assomigli a ciò che ci proponeva la Charte de Quaregnon, uno scritto antico, ma ancora attuale. La sfida sta nell’essere capaci di articolare le pratiche sociali cl mutualismo in risposta ai bisogni; e la lotta di classe attraverso la concreta resistenza solidale. E far ciò, soprattutto intrecciando le lotte nel mondo del lavoro e gli ambiti di vita quotidiana, col fine di sviluppare sentimenti altruistici e pratiche di solidarietà.

Come abbiamo sostenuto durante il convegno, per noi la solidarietà è un’arma contro la barbarie, una idea-forza delle pratiche mutualistiche per l’autorganizzazione, del mutamento necessario, che essa rende possibile. Bisogna rovesciare i paradigmi imperanti di chi ghettizza la solidarietà nel recinto delle azioni caritatevoli o di chi brutalmente la condanna e la trasforma in reato, come nel caso chi salva i migranti dalla morte in mare. Va invece recuperata la sua carica eversiva, troppo a lungo svilita nelle forme del volontariato puramente caritatevole. La solidarietà non è il generico “vogliamoci bene”, né l’accettazione di ciò che esiste, secondo il falso spirito ecumenico, né una rappresentazione aclassistica, la solidarietà è altra visione e nuova concezione del mondo. Proprio come ci insegnano gli zapatisti: “La caridad es humilliante porque se ejerce verticalmente y desde arriba; la solidariedad es horizontal e implica respeto mutuo”. Essere solidali, quindi, tra eguali e diversi, in alternativa alla guerra tra poveri e al razzismo, in armonia con la nostra Terra e nel rispetto della natura. Non è la solidarietà come fede, ma un preciso programma d’azione politica.

Fare partito sociale significa uscire dalla retorica della contrapposizione tra sociale e politico, una querelle stucchevole che malamente riesce a nascondere il nodo spinoso della rappresentanza. È più che evidente che l’agire politico chiede uno sbocco normativo e istituzionale alle vertenze, meno necessario è però l’appiattimento dell’azione nella sfera politico-elettorale, soprattutto se poi si traducein mera testimonianza. Il piano della politica e delle elezioni può servire. Ma prima ancora, abbiamo bisogno di mettere in campo una strategia del cambiamento partendo dal mutualismo di natura conflittuale e dalla valorizzazione dell’agire comune e della autorganizzazione. Ed abbiamo bisogno di attraversare in campo aperto la contraddizione capitale/vita.

Il mutualismo è dunque una forma di lotta anticapitalista e di contropotere, in concreto un embrione di paese nel paese, un fare comunità in modo alternativo al senso comune dominante. Il suo obiettivo è di impattare i luoghi reali, territorialmente definiti, dell’aggregazione, dai quartieri di periferia ai centri storici delle città, puntando a farli vivere come luoghi di convivialità, di resistenza e pratiche solidali, ove la resistenza promuove la lotta di classe e rivendica verso l’alto e il mutualismo agisce come aiuto orizzontale, cooperazione tra eguali. Quando nel movimento operaio prevaleva il binomio mutualità/resistenza, avanzava anche l’intreccio tra azioni di lotta nel lavoro e interventi di tutela negli ambiti della vita.

La comunità, per come la concepiamo noi che vogliamo il comunismo, diventa così un luogo di sperimentazione rivoluzionaria, dove l’approccio intersezionale si riversa in nuove soggettività, e dove avviene il passaggio dall’ io al noi, in una interconnessione di genere, etnie e classi proiettate alla trasformazione di sé e della società.

In conclusione, io penso che questa pubblicazione ci consegni l’idea che il terreno del mutualismo e delle pratiche sociali non è questione di rilevanza politica. Dieci anni e più di “partito sociale” hanno prodotto la materialità di un agire diffuso e soprattutto una potenzialità ancora largamente inesplorata. C’è stato il concreto agire di un corpo in fusione che va oltre il corpo inerte-organizzativo, sprigionando segmenti di autorganizzazione orizzontale e di possibile transizione.

L’agire da partito sociale tende a trasformare antropologicamente la stessa militanza comunista e spinge a cambiare le coordinate della riflessione anche sulle proprie sconfitte. Si può perdere avendo ragione e dalla drammatica alternativa “socialismo o barbarie” continuare a costruire quella coscienza collettiva contro il capitalismo capace di agire nella polverizzazione sociale ove avanza oggi in maniera ancora più incisiva il darwinismo sociale. Solo se ci sarà un processo autentico di riflessione sulla nostra tormentata storia potrà nascere una nuova soggettività rivoluzionaria.
Come scriveva Rosa Luxemburg ne “L’ordine regna a Berlino”: “La rivoluzione è l’unica forma di guerra in cui la vittoria finale può essere preparata attraverso una serie di sconfitte”.

Loredana Marino

Resp. nazionale Partito sociale e Mezzogiorno di Rifondazione Comunista

Pubblicato sul numero di febbraio del mensile Lavoro e Salute

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