Mutualismo e Stato….. di povertà

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SFIGATO A CHI?

Il più delle volte ci si trova in un certo posto a vivere una certa esperienza che si aggiunge ad altre. Certo, una certa predisposizione alla ricerca in senso umanistico c’è. Voler comprendere la miseria del poco o tanto che siamo è indispensabile per certi viaggi nelle viscere del disagio.

Ho sempre mal sopportato la pelosità che anima certe caritatevoli attenzioni verso le fragilità umane, e oggi non riesco a nascondere un’insofferenza nei riguardi di occhiate frettolose e azioni mirate ad una breve soddisfazione personale. Fare la carità rende santi.

Ho cominciato la mia “passeggiata” con l’accompagnamento domiciliare del malato oncologico terminale. Certo, qualche domanda me la sono fatta e a qualcuna ho pure risposto, per alcune altre la risposta a mio avviso non c’è e ognuno se proprio ne sente il bisogno deve inventarsela. La morte, completamente rimossa dal nostro sistema giovanilistico e super competitivo, non ha luogo né tempo. Non esiste.

Eppure proprio in quei giorni lì, mentre loro facevano il conto con quello che avevano fatto, con quello che ancora avrebbero voluto fare, i figli che avrebbero voluto vedere crescere, io ero con loro. Momenti e attimi, l’annichilimento del decreto di fine vita, quanto, dottore? 6 mesi, 1 anno forse, 8 mesi. Una roulette crudele. Dove la rabbia e l’accettazione, il desiderio di andarsene lasciando un’orma, un’ombra del proprio passaggio, o la serenità di poter avere una relazione umana basata sulla trasparenza priva delle bugie di circostanza è stata fondamentale per non morire continuando a recitare un ruolo che il palcoscenico della vita ti obbliga a recitare ma che pesa molto al malato stesso. Una recita con marito, figli, parenti e amici. Con noi operatori non era necessario. Noi eravamo lì per ascoltare. Anche il silenzio parlava per noi.

Durante quegli anni ho cominciato a riflettere sempre più profondamente sulla mutualità dei rapporti e sulla loro complessità. La disponibilità all’ascolto e la reciprocità cominciavano a maturare come idea di servizio di volontariato.

Non volevo diventare una specialista della morte, però. Quindi dopo alcuni anni durante i quali ho accompagnato alla fase finale della loro vita donne alle quali mi sono affezionata, combattendo e lottando con loro, sapendo perfettamente che di lì a poco le avrei perse, sono stata contattata per un servizio di volontariato presso il carcere Lorusso Cutugno (Vallette) di Torino.

Inizialmente l’attività è consistita nella distribuzione di beni di prima necessità dal sapone a effetti di vestiario. Pare che le mie capacità linguistiche (conosco qualche lingua base) fosse importante soprattutto per la comunicazione verso i reclusi stranieri, completamente isolati anche da un punto di vista comunicativo. Mi hanno sollecitata a frequentare il corso del Ministero di Giustizia per l’ottenimento degli articoli che consentono agli operatori di entrare nei bracci e relazionarsi con tutti i detenuti, sia quelli in attesa di giudizio sia quelli giudicati. Ed è cominciata la mia “passeggiata” nel disagio e nel dolore di quello che è uno dei posti meno edificanti, meno costruttivi dal punto di vista della recuperabilità della persona. Mi hanno affidato il reparto degli isolati, degli psichiatrici e dell’ospedaletto.

Come al solito non ho affrontato questa attività come servizio di carità cristiana, non ne avrei avuto gli elementi di credulità né tantomeno gli elementi di cecità mentale. Mi sono avvicinata a queste persone con attenzione e rispetto. Anche quando la fedina penale mi avrebbe potuto facilmente dissuadere dal farlo. E come loro, ho provato la libertà di essere rinchiusa in galera, ho provato come loro ad entrare in una cella di tre metri per due, con un letto a castello e una zona d’aria (si fa per dire) che è un corridoio arieggiato, soprattutto per gli isolati presso i quali ogni settimana condividevo spazi e celle. E’ anche vero che io ne uscivo e loro no.

Come diventa fondamentale per persone che hanno perso tutto, che il più delle volte non hanno più relazioni famigliari e/o sociali, potersi relazionare con quelli che vengono da fuori, quelli che ti raccontano cosa succede là fuori, e fanno da ponte tra il buco nero del nulla e il resto. Come se il resto fosse chissà cosa, chissà che, ma anche questo non è uguale per tutti, per alcuni il fuori è disagio allo stato puro, per altri il ritorno alla strada, alla dose che si cerca a tutti i costi, al disagio di non avere neppure i soldi per prendere un autobus all’uscita dal carcere. E’ stordimento per un giovane che ha ucciso un coetaneo e dopo dieci anni ottiene il permesso di qualche giorno di tornare a casa, un’ubriacatura di respiro, d’aria fuori.

E io ero lì con loro, con le loro emotività di uomini rinchiusi e piegati da vite sbagliate, ma ero lì anche con uomini per nulla sbagliati, solo nati nel posto sbagliato, senza la possibilità di cambiare rotta a quello “stato di cose”ineluttabilmente previste per coloro che nascono in quel rione di quel quartiere in quella famiglia con quel ceto sociale e quella determinata classe sociale.

E, già, anche perché la detenzione cambia se e quando cambia la classe e la capacità economica. Le sbarre son le stesse, ma l’avvocato cambia, cambia la capacità di sostentamento, il pacchetto di sigarette, i pacchi che arrivano da fuori. Se sei uno sfigato fuori, sai che divertimento quando finisci in galera! Senza sapone, senza dentifricio, senza mutande di ricambio, senza pantaloni… Quanti pacchi di abbigliamento ho distribuito a uomini persi, nudi, sporchi e malati. Scabbia, anemie, infezioni. E quanto ho lavorato nel voler capire i meccanismi di superiorità “di ruolo di controllo e dominanza” delle guardie carcerarie. L’essere superiore a qualcuno è vizio dell’umana miseria e forma di fascismo strisciante. E quando le chiavi aprono cancelli e portoni e poi li richiudono, solo una buona dose di culo può evitarti una detenzione in un carcere sovraffollato, dove si mangia di merda, e sei fortunato se non è troppo lontano dai tuoi. Sempre che i famigliari tu li abbia ancora. E non ti abbiano completamente buttato fuori dalle loro vite.

E da allora nasce la mia incazzatura.
Un’incazzatura che dura ancora oggi, che mi occupo degli ultimi, quelli che nessuno vorrebbe invitare il giorno di pasqua o di natale a casa propria perché puzzano, perché non si sa mai. Perché sono sdentati, visto che non hanno la possibilità di curarsi, perché vestono abiti usati il più delle volte anche non troppo puliti, non hanno lavatrici ultimo modello per rinnovarli e soprattutto non hanno una casa dove mettere una lavatrice. E allora, siccome sono poveri e soprattutto brutti da vedere, il desiderio di farli scomparire è tanto. Sono invisibili e devo dire che loro stessi non hanno grande desiderio di farsi notare. Sono i primi che non amano lo ”stato delle cose”, perché se esci dalle regole non sempre, anzi è difficile che tu riesca a rientrare.
E quando sei troppo “fuori” tu stesso fai fatica a pensare di poter essere uguale.

Oggi sono presidente di un’associazione di volontariato che recupera scarti dai mercati rionali e dalla grande distribuzione e li trasforma in pasti quotidiani per persone in situazione di disagio economico e sociale, unendo così due obiettivi: il recupero di scarti alimentari e la soddisfazione di un bisogno primario che è il cibo. Oltre al pasto confezioniamo circa 130 borse alimentari a settimana per famiglie e persone in difficoltà. A giugno stiamo predisponendo un locale che diventerà un Emporio solidale. Già dal 2020 abbiamo verificato un aumento del bisogno non solo più proveniente da fasce di precarietà sociale, ma da famiglie e persone che avendo perso l’occupazione sono cadute in una situazione di povertà assoluta. Tale incremento non è stato a mio avviso in alcun modo ammortizzato da interventi da parte degli enti pubblici, anzi. I finanziamenti del Ministero erogati proprio per sostegno ad associazioni come la nostra, fanno fatica a raggiungere l’utente finale, del quale parrebbe non essere di grande interesse preoccuparsi.

Elemento distintivo della nostra attività è la reciprocità della relazione. In tutte le attività che svolgiamo cerchiamo di interagire con i nostri “ospiti” che oggi purtroppo ritirano il pasto e se ne vanno a casa (chi può) ma sino al 2019 e a fine 2020, si fermavano a mangiare con noi, contribuendo alle attività di riordino e pulizia, avevamo un orto che veniva lavorato, e altre attività. Sono persone con le quali interagiamo e gettiamo ponti. Soprattutto i più fragili, che hanno un profondo bisogno di sentirsi inseriti in una comunità che non giudica, non si muove dall’alto verso il basso, con caritatevole ipocrisia e l’aureola in testa, ma in senso solidale, sullo stesso piano. Con l’attenzione che va usata per le persone, non per gli ultimi.
E allora la restituzione arriva, in modo spontaneo. Con piccoli segni, che per certe situazioni è già tanto. Così un nostro “ospite” che ha chiesto al giudice che lo ha giudicato di poter venire nella nostra città perché qui ha degli “amici”. Che siamo noi. Ogni mattina dal dormitorio lo mettono fuori anche in pieno inverno alle 6.30, e aspetta fuori che apriamo il centro per scaldarsi sul termosifone.

E io sono incazzata, perché alla nostra politica, quella dei discorsi, quella per bene, non fotte un cazzo di questi esseri umani. Perché non contano un cazzo, non votano e non hanno rappresentanza politica. Noi da tempo vediamo che il problema della povertà incrementa il numero delle sue vittime, ma non vediamo da parte delle istituzioni alcuna preoccupazione. Io sì. Sono preoccupata. E tanto, perché ogni giorno arrivano in mensa famiglie nuove in stato di bisogno, aumentano le violenze domestiche e noi le vediamo e cerchiamo di aiutare chi ne è vittima, aumentano le malattie non curate, perché si hanno sempre meno capacità economiche per pagarsi visite mediche e farmaci.

E’ il fallimento dello stato sociale.

Noi, nel frattempo, facciamo quello che dovrebbero fare le istituzioni, che ben che vada con le loro inefficienze non riescono e non vogliono fare direttamente e demandano, in altri casi è la volontà politica che manca completamente. Siamo 80 persone che ogni settimana cucinano, raccolgono derrate alimentari, accolgono gli ospiti, distribuiscono i pasti e cercano di riconoscere loro una dignità e una capacità relazionale e sociale.

E’ indispensabile lottare affinché queste forme di sostegno alle parti più fragili della nostra società non vengano comodamente affidate dalle istituzioni e dalla politica appariscente alle associazioni come la mia, che bene fanno, ma con mille difficoltà, per nulla aiutate nella loro fatica.
Oggi sto lavorando affinchè si possa realizzare un domani un dormitorio pubblico e un servizio sanitario di primo soccorso a utenti in disagio (problemi di odontoiatria, infiammazioni alle ossa, infezioni, per chi dorme e vive fuori è facile incorrere in queste problematiche e così anche per coloro che non hanno i soldi per curarsi) . Il disagio sociale cresce e l’Istat finalmente comincia a darci ragione. Nel 2020 335mila famiglie in più in povertà assoluta rispetto al 2019. In totale circa 2milioni.
Noi, nel nostro piccolo, ci siamo.

Manrica Buri

Chieri (TO) 6/3/2021

Pubblicato sul numero di marzo del mensile Lavoro e Salute

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