NATIVI NORD AMERICANI: UN GENOCIDIO DIMENTICATO E LA SUA PROSECUZIONE
E il silenzio mediatico che continua ad uccidere
Esiste e perdura, all’oscuro dei notiziari, nell’indifferenza delle indagini di polizia, una realtà fatta di violenza inaudita compiuta contro le donne native del nord America. Nell’insospettabile Canada, protratto dai media come la terra del rispetto e della cordialità reciproca, un massacro istituzionalizzato colpisce le comunità indigene e soprattutto le donne. Negli States le condizioni sono le medesime ma ancor più amplificate.
I nativi nord americani sono stati vittima di uno dei genocidi più ignorati della storia, che inizia con la colonizzazione ma che prosegue e si istituzionalizza grazie ad una forma perdurante di colonialismo culturale e alla cristallizzazione di pratiche discriminatorie contenute negli ordinamenti di questi stati.
Il genocidio dei nativi è risultato disastrosamente efficace perché ottenuto tramite l’applicazione di tre pratiche :
- Lo sterminio: quello fisico, ottenuto tramite la guerra e la distruzione delle risorse mirata ad affamare le tribù;
- Il genocidio culturale: la separazione dei bambini dalle loro famiglie e comunità per spezzare quel legame identitario fatto di pratiche e oralità, tramandato di generazione in generazione;
- Violenza sulle donne: linfa vitale di ogni civiltà e portatrici dei saperi antichi, dalla sterilizzazione forzata agli attacchi odierni contro le donne native
L’olocausto americano, (qui riferendoci solo ad una parte delle vittime, quelle del nord America) conta circa 20 milioni di morti (ma le stime potrebbero risultare riduttive). Lo sterminio operato dai colonizzatori europei è avvenuto per ben 500 anni dal loro arrivo ma si “depotenzia” solo negli ultimi secoli, dal punto di vista bellico, fino ad esaurirsi alla fine del XIX secolo. Da questo momento in poi si opererà con altre modalità, più insidiose e distruttive, volte a sopprimere la memoria e cancellare la storia di intere realtà tribali.
“Uccidi l’indiano, salva l’uomo”
Negli Usa, al motto razzista: “uccidi l’indiano, salva l’uomo” si rispose con una nuova pratica per sradicare le ultime resistenze indiane: l’Assimilazione. Assorbire all’interno della società americana gli indigeni allontandoli totalmente dalle proprie comunità, eliminando qualsiasi traccia della loro identità culturale.
Con il Pratt’s Project del 1897 iniziarono a prendere piede le “Boarding Schools” scuole in cui i bambini indigeni venivano condotti con la forza e strappati dalle proprie famiglie che al minimo gesto di ribellione venivano incarcerati. In Canada l’idea era stata concepita qualche anno prima quando l’Indian Act del 1874 istituì il sistema delle scuole per indigeni, per la maggior parte cristiane, che trovava man forte grazie anche al Gradual Civilization Act del 1857 che permetteva di trasferire i diritti di tutela dei figli degli indigeni direttamente alle scuole cristiane.
Solo in Canada vennero presi e allontanati dalle loro famiglie circa centocinquanta mila bambini e circa il 40% morì vittima di soprusi, sterilizzazioni, violenze e malattie. Fu un vero e proprio genocidio, soprattutto culturale: il loro nome venne sostituito proprio ad indicare la perdita della loro identità, venne vietato parlare le lingue native, celebrare feste o rituali tipici e ovviamente indossare abiti tradizionali e portare i capelli lunghi.
Negli States, negli anni ’30, queste istituzioni si moltiplicarono vertiginosamente e il progetto di assimilazione aveva raggiunto picchi di massima efficienza: nel 1930 due/terzi del territorio nativo fu invaso totalmente ed espropriato.
La tradizione orale era venuta meno, i legami erano stati irrimediabilmente recisi.
Fu grazie ai movimenti degli anni ‘60 che l’attivismo indigeno poté far sentire la sua voce. Unitosi al Civil Rights Movement, portò in luce le testimonianze delle madri e dei bambini vittime di questa politica, che con la complicità dei tempi, iniziarono a circolare nelle aule di tribunale: grazie a questi report negli anni ‘70 molte scuole vennero finalmente chiuse.
Questo però non fermò il progetto di distruzione identitaria voluta dallo stato: negli States, si trovò un metodo più economico delle “Boarding Schools”: l’adozione. I bambini vennero nuovamente rapiti dalle braccia dei propri cari con i pretesti più insulsi, e messi in adozione per famiglie bianche pronte a “salvarli” dipinti come poveri emarginati, ripudiati dalle loro stesse madri. La maggior parte di questi bambini crebbe vittima di abusi che li portò, una volta adulti, a diventare facili prede della spirale della dipendenza, piaga ampiamente diffusa tra la popolazione indigena, fortemente alimentata da condizioni di vita precarie, dalla ghettizzazione, da servizi di healthcare e sostegno economico per lo più inesistenti e discriminatori.
Una svolta che permise di tutelare per la prima volta questi bambini fu l’Indian Children Welfare Act approvato nel 1978, che stabilì che coloro destinati all’adozione venissero ricollocati all’interno di famiglie indigene che avrebbero così permesso una miglior integrazione e conservazione dell’eredità culturale dei bambini. Ad oggi questa legge continua ad essere preda di attacchi dei conservatori più accaniti che spingono per una redistribuzione dei bambini indigeni presso famiglie bianche, ritenute dall’alto della loro presunta superiorità razziale più idonee a crescerli; questi attacchi sfortunatamente sembrano funzionare dato che al giorno d’oggi i bambini nativi risultano soggetti ad affido quattro volte in più rispetto ai bambini bianchi anche se sono presenti le medesime condizioni famigliari.
Le donne
Nella storia del mondo, fatta di violenza e prevaricazione, vittima indiscussa è la donna: contro di lei sono state inferte le violenze più inaudite, i soprusi più inaccettabili. Le donne delle minoranze sono state e sono tutt’oggi le più grandi vittime di queste torture inaudite, riflesso di una perdurante ideologia di superiorità razziale.
- La sterilizzazione forzata:
A partire dagli anni ’60 e ’70 vennero compiute sterilizzazioni forzate su un’ampia fetta della popolazione statunitense, che vide nelle donne indigene la percentuale più alta. Praticata a fini eugenetici e di selezione della specie umana già dagli inizi del 1900, a tutta quella parte di popolazione considerata “inferiore dal punto di vista razziale” o ai cosiddetti “imbecilli” così chiamati i soggetti affetti da disturbi psichiatrici e disabilità motorie, a partire dagli anni ’60 colpì specialmente le donne indigene, afroamericane e latine. In quegli anni negli States era l’Indian Health Service (IHS) ad operare sterilizzazioni sulle native senza il consenso informato delle vittime ed eseguite in alcuni casi anche su minori (come spesso avveniva nelle Boarding Schools).
Tra il 1970 e il 1980 le sterilizzazioni triplicarono. Le statistiche del 1982 riportano che il 15% delle donne bianche, il 24% delle afroamericane, il 35% delle donne portoricane e il 42% delle donne native americane era stato sterilizzato.
Uno studio condotto dal WARN, Women of All Red Nations, concluse nel 1974 che fino ad allora il 42% delle donne Indiane Americane in età fertile era stata sterilizzata senza consenso.
In Canada statistiche di quegli anni riportano dati simili. Ed è proprio in Canada che casi di sterilizzazione forzata sono riportati fino al vicinissimo 2018, dove negli ospedali pubblici contro il loro consenso, sono state sterilizzate pazienti durante il parto o durante interventi di routine. A tutelare le vittime di queste torture vi è l’International Justice Resource Center che fornisce assistenza agli avvocati per i diritti degli indigeni che provvedono a difendere le vittime di queste barbarie e a garantirne il risarcimento.
L’odio razziale è radicato in istituzioni ed enti che hanno il compito di tutelare la salute delle donne ma che si trasformano in covi di aguzzini, dove il pregiudizio e la tortura sono legittimate secondo meccanismi reiterati e profondamente razzisti. Inascoltate e disprezzate le native americane e canadesi chiedono che qualcuno le ascolti, che qualcuno sfondi quel muro di silenzio mediatico che separa rivendicazioni di serie A da rivendicazioni di serie B.
L’epidemia della violenza
Stupri di gruppo, uccisioni, rapimenti, sparizioni. Parlando di numeri, negli States, il “National Congress of American Indians” in un Report del 2018: “Violence against American Indian and Alaska Native Women”, riporta dati agghiaccianti sugli innumerevoli attacchi perpetrati da uomini non-nativi nei confronti delle donne delle comunità indigene. Il report riporta quanto segue:
- Più di 4 donne su 5 native sono state vittima di violenze nella propria vita (84,3%)
- Più della metà (56.1 %) sono state vittime di violenza sessuale
- Quasi la metà (48.8 %) sono state vittime di stalking
- Sono state vittime fino a 1.7 volte in più rispetto alle donne bianche nell’anno precedente al report
- Le donne native sono vittime di omicidio per un tasso che supera di 10 volte quello medio nazionale
- Il 96 % delle vittime di violenza sessuale sono state vittime di aggressori non nativi
Legalmente queste donne sono tutelate solo parzialmente: nel 2013 il “Reauthorization of the Violence Against Women Act” prevede che le tribù possano prendere provvedimenti grazie ad una legge chiamata “Special Domestic Violence Criminal Jurisdiction” contro i non-nativi che commettono atti di violenza domestica, di “dating” violence e che violino ordini restrittivi nei confronti dei membri delle tribù. Questa legge non tutela però nei casi di violenza sessuale, stalking o di traffico di esseri umani.
Chi compie queste violenze inoltre non può essere condannato almeno che non le compia entro i confini delle terre native e considerando che il 71% dei nativi vive in grandi agglomerati urbani, e che i nativi sono totalmente invisibili per le pubbliche istituzioni federali e spesso vittime stesse della violenza della polizia, i dati non dovrebbero stupirci.
Nel 2016 il numero di sparizioni e omicidi di native americane era di 5712 (National crime information center)
Il Canada, dopo le costanti pressioni del movimento dei Diritti umani delle donne indigene scomparse e uccise, il MMIW, che comprende le comunità indigene canadesi (Fist nations, Inuit e Métis) e i nativi americani degli Stati Uniti, il primo ministro Trudeau ha aperto un’inchiesta pubblica nazionale “National Inquiry into Missing and Murdered Indigenous Women and Girls” avviata nel 2016 e pubblicata nel 2019 che riporta che tra il 1980 e il 2012 le donne e le ragazze indigene rappresentavano il 16% di tutti gli omicidi femminili in Canada ed erano solo il 4% della popolazione femminile.
La RCMP (ovvero la Royal Canadian Mounted Police) in un report del 2014 “Donne aborigene scomparse e assassinate: una panoramica operativa nazionale”, riporta i casi di 1.000 donne indigene uccise nell’arco di 30 anni. Dal 2001 al 2015, il tasso di omicidi per le donne indigene in Canada è stato quasi sei volte superiore al tasso di omicidi per le donne non indigene.
Le native sono le più colpite proprio per la scarsa protezione offerta loro dagli ordinamenti nazionali e la scarsa risonanza mediatica che queste vicende riscuotono. È il razzismo sistemico delle istituzioni, l’indifferenza della comunità anche internazionale ad uccidere quelle che verranno dopo. E dopo ancora.
Non si conoscerà mai il numero esatto delle donne scomparse o uccise, donne che la polizia non riesce a trovare ma che in fondo non ha mai voluto cercare.
È solo grazie alla resilienza delle comunità indigene che non si vogliono arrendere all’oscurantismo mediatico, che le loro sorelle, zie, nonne e figlie prima o poi troveranno giustizia vittime di quella che si rivela essere un’epidemia di femminicidi tra le più cruente e insabbiate della storia recente.
Link:
https://www.vox.com/2019/10/14/20913408/us-stole-thousands-of-native-american-children
Maria Camilla Toffetti
7/4/2021 https://www.intersezionale.com
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