Nel Regno Unito lo sciopero blocca le università
Dal 25 novembre scorso, il personale accademico e amministrativo di 60 università del Regno Unito ha iniziato uno sciopero di otto giorni lavorativi fino al 4 dicembre, per poi potenzialmente andare avanti nel nuovo anno. Lo sciopero, parte di una disputa di lungo corso su pensioni, salari e precarietà nelle università britanniche, ha bloccato la didattica e l’attività di ricerca di due settimane coinvolgendo almeno 50.000 lavoratori – con ripercussioni su circa un milione di studenti.
Per la seconda volta in meno di due anni, il sindacato dei lavoratori dell’educazione terziaria University and College Union (Ucu) è riuscito nell’impresa non semplice di battere i rigidi parametri imposti dalla legislazione antisindacale (resa più draconiana dal governo conservatore nel 2015), che impone che almeno il 50% degli iscritti al sindacato partecipi alle votazioni per indire gli scioperi perché il referendum sia considerato valido. L’ultimo sciopero del settore risale a febbraio-marzo 2018, ed è ormai entrato nella memoria collettiva, non solo per essere stato il più lungo nella storia dell’università britannica – quattro settimane di sospensione dell’attività didattica e di ricerca – ma anche per aver marcato un punto di svolta nella coscienza dei lavoratori del settore: il momento in cui si è deciso, collettivamente, di dire basta, «enough is enough». Come nel 2018, anche quest’anno non solo la soglia necessaria dei votanti è stata superata con successo, ma addirittura il 79% dei partecipanti al referendum si sono espressi a favore della mobilitazione: un chiaro segno del fatto che i problemi alla base della disputa del 2018 non sono stati risolti, e che la risolutezza dei lavoratori a portare avanti la lotta sia solo cresciuta.
Un sistema universitario al collasso
Le questioni intorno a cui verte la mobilitazione sono numerose: da un lato c’è una disputa sul meccanismo di funzionamento del sistema pensionistico, dall’altro varie rivendicazioni riguardanti le condizioni lavorative nel settore – nello specifico la precarietà dilagante, la stagnazione salariale, le disparità salariali etniche e di genere, e i carichi di lavoro eccessivi. Alla base di tutte queste questioni, una radice comune: il processo di progressiva aziendalizzazione («marketisation» in inglese) del sistema universitario, che produce contraddizioni sempre più acute e condizioni di lavoro e apprendimento sempre più insostenibili.
La disputa sul sistema pensionistico, già al centro degli scioperi del 2018, è iniziata nel 2017 quando i datori di lavoro delle università britanniche, rappresentati dall’associazione Universities UK, ha annunciato l’intenzione di trasformare lo schema pensionistico dei lavoratori del settore (the Universities Superannuation Schemes – Uss) da un sistema a «benefici definiti» (cioè un sistema retributivo in cui la pensione finale dipende in larga parte dal salario alla fine della carriera), a un ben più svantaggioso sistema contributivo in cui i benefici pensionistici dipenderebbero solamente dai contributi versati – rendendo dunque le pensioni meno certe, meno generose e totalmente dipendenti dai movimenti della borsa. La motivazione addotta dalle università era simile a quella usata per giustificare lo smantellamento dei sistemi di pensione pubblici in tanti paesi europei: la (supposta) presenza di un deficit nel fondo pensionistico, da colmare abbassando la generosità dei benefici pensionistici e aumentando i contributi. Se il deficit nel sistema esista davvero o meno continua a essere oggetto di disputa tra il sindacato e i datori di lavoro. Intanto, i massicci scioperi del 2018 hanno costretto le università ad abbandonare – almeno temporaneamente – il loro piano di dismettere del tutto il sistema pensionistico retributivo. Ma in tutta risposta, le università hanno imposto quest’anno un ulteriore aumento dei contributi pensionistici pagati dai lavoratori – dall’8% attuale fino a un potenziale 11% entro il 2021. Questo è l’ultimo di una lunga serie di cambiamenti introdotti senza il consenso dei lavoratori dal 2011 che ha reso il sistema molto più svantaggioso, più sbilanciato a carico dei lavoratori, e particolarmente oneroso soprattutto per quelli nelle fasce salariali più basse. L’aumento dei contributi versati rappresenta, di fatto, un taglio dei salari reali, ed è contro questo ulteriore peggioramento che si concentra l’attuale sciopero.
La questione di fondo è però ben più ampia. Le modifiche al sistema pensionistico si intrecciano infatti con una questione salariale e di deterioramento delle condizioni di lavoro di più largo respiro. Secondo stime sindacali, i salari dei lavoratori delle università britanniche sono calati del 20% in termini reali negli ultimi dieci anni, e le diseguaglianze salariali di genere nel settore rimangono estremamente pronunciate (16% in media, e ancora peggio nel caso di appartenenti a minoranze etniche). Non solo. Il carico di lavoro effettivo degli impiegati del settore – sia accademici che amministrativi – ha subìto negli ultimi anni una fortissima intensificazione, con un’incidenza sempre crescente di straordinari non pagati e problemi di stress e salute mentale (culminati anche, in un tragico caso recente, nel suicidio di un professore dell’Università di Cardiff, oberato dallo stress dell’eccessivo carico di lavoro). A questo si aggiunge un problema di precarietà dilagante. Secondo i dati raccolti da Ucu, oltre il 50% del personale accademico (a vari livelli e di varie età) è impiegato con contratti «atipici» a tempo determinato, part-time o a ore variabili (la percentuale di contratti atipici sale al 70% tra i ricercatori). Le retribuzioni dei lavoratori precari oscillano tra le 9 e le 17 sterline all’ora per un lavoro altamente qualificato, con contratti che spesso retribuiscono soltanto una piccola frazione delle ore effettivamente lavorate.
Lo sciopero si incentra dunque su rivendicazioni che si estendono a tutte queste aree: incrementi salariali del 3% oltre a un aumento proporzionale all’inflazione dei prezzi al consumo, 35 ore lavorative standard per tutti gli impiegati del settore, e azioni concrete per contrastare la precarietà e le disparità salariali.
I risultati nefasti dell’aziendalizzazione
Lo stato di cose appena descritto dà un’idea chiara di un sistema universitario prossimo a un punto di rottura. Le cause di questo stato di cose vanno ricercate in due processi interconnessi di lungo corso. Da un lato vi è la progressiva aziendalizzazione del sistema universitario, incoraggiata dalle riforme introdotte nell’ultimo decennio dai governi di centro-destra a stampo conservatore e liberal-democratico. La decisione del primo governo Cameron nel 2010 di triplicare le tasse universitarie per le lauree triennali in Inghilterra, rimuovendo di fatto il finanziamento pubblico all’attività didattica e qualsiasi pianificazione centrale dei numeri di studenti, ha avuto una serie di conseguenze nefaste (e assolutamente previste e prevedibili). Prima di tutto, le università sono diventate del tutto finanziariamente dipendenti dalla loro capacità di attrarre un numero sempre maggiore di studenti. Questo ha contribuito a introdurre logiche di mercato sempre più spinte nel funzionamento del sistema. Non solo gli atenei competono l’uno con l’altro per accaparrarsi i «clienti» (cioè gli studenti), ma ora è anche teoricamente possibile che quelli con meno successo nell’affermarsi su questo mercato ne vengano spinti fuori del tutto e siano costretti a dichiarare bancarotta, senza alcuna responsabilità dello stato di intervenire per supportarli finanziariamente.
Questi cambiamenti al sistema di finanziamento (ormai non più pubblico) dell’educazione terziaria hanno creato incentivi perversi per le università e per i loro «manager» – acuendo molti dei problemi intorno a cui l’attuale sciopero si concentra. Da un lato, gli atenei hanno iniziato a investire risorse sempre maggiori per attrarre gli studenti, vendendo loro un’«esperienza studentesca» patinata con edifici sempre più nuovi e scintillanti finanziati tramite prestiti e varie iniziative di facciata, che ben poco hanno a che fare con la qualità della didattica e dell’apprendimento. Questa corsa al real estate e a vari progetti di vanità volti a «vendere» l’immagine del campus ha dirottato a sua volta le risorse dai salari e dalla remunerazione di coloro che l’università la fanno funzionare. In aggiunta, l’imperativo di ridurre i costi operativi e di potersi «adattare» in maniera flessibile alle fluttuazioni del «mercato» dei numeri degli studenti iscritti ha portato sempre più università a operare secondo un modello di gestione delle risorse umane segmentato. Da un lato, un numero (sempre più ridotto e dunque oberato di lavoro) di accademici assunti con contratti a tempo indeterminato. Dall’altro, un esercito di riserva sempre più nutrito di ricercatori a tempo determinato, professori a contratto e tutors, assistenti di ricerca, insegnamento o deputati a mansioni di supporto amministrativo pagati a ore o addirittura assunti in outsourcing tramite agenzie interinali. Non solo: l’imperativo di poter contrarre prestiti a tassi vantaggiosi per poter investire in nuovi edifici e progetti di espansione è una delle ragioni principali che ha portato il management degli atenei più ricchi a spingere per i cambiamenti al sistema pensionistico, al fine di ridurre le loro potenziali «obbligazioni» e responsabilità finanziarie derivanti dalla partecipazione al fondo pensionistico.
A questo processo di aziendalizzazione si è accompagnata poi una progressiva «managerializzazione» della governance universitaria, in cui si moltiplicano di anno in anno i meccanismi di monitoraggio, misurazione della soddisfazione degli studenti e valutazione della «qualità» dell’insegnamento e della ricerca (i cosiddetti «Teaching Excellence Framework» e «Research Excellence Framework»), finalizzati a misurare la performance dei lavoratori e creare classifiche di comparazione tra atenei. Questi meccanismi di gestione e monitoraggio, spesso implementati tramite complicati processi burocratici da manager con poca conoscenza dei processi accademici, vengono usati come «bastone» con cui controllare la forza lavoro, e contribuiscono ad aggravare il carico di lavoro e le pressioni a cui accademici e amministrativi sono sottoposti, a ridurne l’autonomia operativa, e a creare un clima di lavoro sempre più pesante. I risultati di questi due processi paralleli sono palesi per chi frequenta le università inglesi: da un lato, staff sempre più oberati di lavoro, malpagati e infelici; dall’altro studenti sempre più carichi di debiti, a loro volta impoveriti e ansiosi per la pressione di dover «performare» al massimo per trovare lavoro dopo la laurea.
In questo scenario cupo, per diversi anni la resistenza è stata sporadica e poco organizzata. Dopo le massicce mobilitazioni studentesche del 2010-2011 contro l’aumento delle tasse universitarie, i movimenti degli studenti sono andati un po’ scemando a causa del ricambio generazionale e della «normalizzazione» dello stato delle cose. E per anni la leadership del sindacato Ucu, dopo aver subìto diverse sconfitte in lotte passate, è rimasta estremamente timida e restìa dal voler percorrere una strada conflittuale per ribaltare i rapporti di forza. Ma dallo sciopero del 2018 il clima è cambiato, sia nei campus che dentro al sindacato. La massiccia e inaspettata partecipazione alle quattro settimane di sciopero nel gelido inverno del 2018 ha galvanizzato la forza lavoro delle università, restituendole un po’ di senso di sicurezza di sé e dando un assaggio del proprio potenziale potere collettivo a tanti lavoratori fiaccati da anni di isolamento e passività.
La partecipazione di massa ai picchetti – creativi, colorati e arrabbiati in egual misura – ha restituito a tante e tanti un senso di gioia, scaturito dall’aver ritrovato spazi di condivisione e costruzione di comunità nei momenti di lotta, e dall’aver reclamato dalla tirannia del managerialismo il tempo per stare insieme, per pensare, per immaginare un’università diversa.
Gli scioperi hanno inoltre favorito la formazione di nuovi legami di solidarietà, riunendo insieme sui picchetti componenti dell’università che normalmente non si erano mai davvero incontrate e parlate – e tantomeno lottato fianco a fianco. Da un lato, nel 2018 hanno scioperato – in molti casi per la prima volta – anche quegli strati di accademici più senior, stabilizzati e dunque «sicuri» sulla carta, che in passato non si erano mai mossi per le rivendicazioni sui salari ma che ora si erano anch’essi trovati toccati dai cambiamenti alle pensioni. Dall’altro, alla mobilitazione si sono uniti in numeri massicci le schiere dei nuovi precari – dottorandi, ricercatori postdoc a termine, docenti pagati a ore – che hanno riversato nella lotta per le pensioni (un miraggio, per chi ancora sogna un contratto che duri più di nove mesi!) tutta la loro rabbia e le loro rivendicazioni per un futuro possibile e dignitoso nel lavoro accademico. Ai picchetti hanno poi partecipato in solidarietà anche tantissimi studenti, sempre più consci del fatto, ben espresso in uno slogan ormai usato frequentemente, che le condizioni lavorative dello staff siano alla fine le condizioni di apprendimento degli studenti, e che quindi non esiste alcuna contrapposizione di interessi tra le due componenti, nonostante i frequenti tentativi del management di mettere gli uni contro gli altri. Inoltre, la lotta del 2018 ha portato nuova linfa dentro al sindacato stesso – con una crescita massiccia degli affiliati a Ucu e un nuovo strato di attivisti di base coinvoltisi nelle strutture sindacali con la determinazione di scuotere la vecchia leadership moderata e conciliativa e portare un cambio di strategia.
I risultati di questi processi trasformativi, creati attraverso un momento inaspettato di conflitto e di rottura dello status quo favorito dallo sciopero del 2018, sono visibili nelle dinamiche che hanno portato allo sciopero in corso. In primis, nella primavera di quest’anno per la prima volta nella storia di Ucu l’elezione per la carica di nuovo segretario generale del sindacato è stata vinta a sorpresa da una giovane lavoratrice del settore – l’accademica trentacinquenne Jo Grady – e non da un funzionario sindacale. La nuova leadership del sindacato, espressione di una nuova componente di attivisti sindacali di base estranei alle logiche conciliative e corporativistiche della vecchia guardia, ha portato nuova energia e spirito combattivo alla lotta, nonché un cambiamento nelle strategie di organizzazione e mobilitazione dei lavoratori, che ora sono volte più esplicitamente a favorire una partecipazione attiva dal basso alle attività del sindacato sui campus e ad accrescere la democrazia sindacale. Il secondo elemento di differenza, chiaro risultato della solidarietà venutasi a creare durante la lotta del 2018, è che quest’anno le rivendicazioni delle componenti più deboli della forza lavoro – i precari sottopagati, le donne, le minoranze etniche – sono state messe per la prima volta davvero al centro delle mobilitazioni. In passato, «l’aristocrazia sindacale» di Ucu – cioè la generazione di professori (per la maggior parte uomini e bianchi) a tempo indeterminato – si era spesso ben guardata dal mobilitarsi quando c’erano stati tentativi di disputa sui temi dei salari e della precarietà. Questa volta, il fatto che i (giovani e non più giovani) precari fossero scesi a lottare al loro fianco per le pensioni nel 2018 ha reso loro molto più difficile voltare la testa dall’altra parte. E dunque, l’onda lunga degli scioperi del 2018 ha aperto spazi di possibilità per l’articolazione di forme di solidarietà inclusiva ed espansiva tra diverse componenti della forza lavoro che erano in passato state difficili da forgiare.
Di sicuro la strada rimane in salita e il lavoro da fare tanto – sia dentro al sindacato, che per ribaltare i rapporti di forza nel settore e alterare lo stato delle cose. Ma intanto, gli scioperi iniziati la scorsa settimana hanno riportato per la prima volta dopo mesi i datori di lavoro al tavolo negoziale, sia sul fronte delle pensioni che sulla questione di salari e precarietà – segnale chiaro che l’esercizio della forza collettiva potenziale dei lavoratori sia centrale per ribaltare i rapporti di forza esistenti. E gli alti tassi di adesione allo sciopero corrente, i picchetti stra-partecipati, creativi e rumorosi della scorsa settimana nonostante il maltempo e le tante occupazioni e manifestazioni di solidarietà messe in atto dagli studenti dal nord al sud del paese restituiscono l’immagine speranzosa di un mondo universitario che ha finalmente alzato la testa e non è disposto a ritornare a stare in silenzio. Non ci resta che augurare loro buona fortuna, e sperare che anche l’accademia italiana prenda nota, e decida magari di seguire nella stessa direzione.
Arianna Tassinari
Dottoranda in Relazioni Industriali all’Università di Warwick. Si occupa di politica economica e trasformazioni delle relazioni industriali.
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